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  • Mercoledì 20 maggio 2020

Le mascherine stanno rendendo inapplicabili le leggi contro il burqa

In molti paesi europei che oggi obbligano a usare le mascherine, sono in vigore leggi che vietano di coprirsi il viso in pubblico

(AP Photo Vahid Salemi)
(AP Photo Vahid Salemi)

In molti paesi europei che hanno stabilito l’uso obbligatorio delle mascherine per limitare la diffusione del coronavirus sono in vigore anche leggi che vietano di indossare in pubblico indumenti che coprano il viso, con la conseguente e contraddittoria situazione che una medesima pratica è, allo stesso tempo, sia doverosa che proibita. Il paradosso è stato rilevato e commentato in questi giorni da diversi giornali: se ne sta discutendo soprattutto in Francia e negli altri paesi che negli ultimi anni hanno approvato leggi più o meno esplicitamente indirizzate a vietare l’uso in pubblico di burqa e niqab, i capi di abbigliamento islamici che nascondono il viso.

Il paradosso
Nei Paesi Bassi, per volontà di Geert Wilders, politico di estrema destra noto per le sue dure critiche contro l’Islam, il divieto di indossare «abiti che coprano il volto» nelle scuole, negli ospedali, negli edifici governativi e sui mezzi pubblici, è entrato in vigore nell’agosto del 2019. La legge cita alcuni tipi di velo, ma anche caschi, passamontagna e maschere: eppure, ora, le persone sono tenute ad indossare le mascherine sui treni e sugli autobus. In Danimarca la legge che prevede delle multe per «chiunque indossi in pubblico un indumento che ne nasconde la faccia» esiste dall’agosto del 2018. In Belgio un divieto simile esiste dal 2011 e in Austria dal 2017: in entrambi i paesi a causa del coronavirus ora le mascherine sono obbligatorie sui trasporti pubblici o nei negozi. E situazioni ugualmente contraddittorie esistono anche in altri paesi.

«Le mascherine per il viso sono ora considerate una misura sociale per proteggere le persone, eppure i niqab (un tipo di velo che serve a coprire completamente il volto lasciando solo una fessura per gli occhi, ndr) sono trattati come un atto antisociale», ha detto al New York Times Asima Majid, una donna islamica che vive nel Regno Unito.

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Le leggi che, di fatto, in questi paesi vietano alle donne musulmane di indossare quello che vogliono in pubblico fanno riferimento alla sicurezza nazionale e non citano quasi mai direttamente qualche specifico tipo di velo, ma in modo generico abiti o indumenti che nascondano in modo parziale o integrale il viso. Le varie formulazioni non sempre prevedono delle eccezioni per motivi di salute, come invece è specificato nella legge introdotta in Francia nel 2010. Ma ha poca importanza. Come fa notare il Washington Post, le nuove regole del governo francese non precisano cosa possa essere considerata una mascherina accettabile oppure no, e la carenza mondiale di dispositivi di protezione individuale ha portato molte persone a usare sciarpe, foulard o altro ancora per coprirsi il viso. In alcuni casi, la pratica di usare quel che si ha a disposizione è stata incoraggiata esplicitamente dagli stessi governi.

Per i Paesi Bassi, Tom Zwart, professore di diritto interculturale all’università di Utrecht, ha parlato esplicitamente di «ipocrisia». Il governo olandese, ha spiegato al New York Times, vieta di coprirsi il viso a meno che le motivazioni non abbiano a che fare con la salute e la sicurezza. Il primo ministro, ha detto Zwart, «ha però anche detto che la protezione puoi creartela tu, che puoi usare uno scialle o qualcos’altro. Quindi, se hai un burqa o un velo, perché non usarlo per proteggere te stesso e gli altri dal coronavirus? Stai facendo esattamente quello che ti è stato detto di fare». E questo significa che una parte della popolazione «sta involontariamente infrangendo la legge nonostante stia seguendo i consigli del governo».

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Il risultato di tutto questo è non solo che coloro che non si coprono il viso possono essere multati esattamente come coloro che violano la legge sul divieto di coprirsi il viso, ma anche che si sta applicando una lettura asimmetrica dello stesso comportamento, giudicato in base al contesto e alla persona che lo mette in pratica.

Il paradosso era già stato reso visibile in molti paesi quando vennero approvate le leggi che vietavano il velo: diverse donne, musulmane e non, scesero in piazza per protesta indossando sciarpe o, appunto, mascherine chirurgiche.

La verità sulle leggi contro il velo
Un donna che indossa il velo ha detto al New York Times che la diffusione dei dispositivi di protezione e copertura del viso durante la pandemia l’ha fatta sentire in qualche modo «vittoriosa» perché la supposta minaccia alla sicurezza pubblica che il suo niqab rappresentava sembrava essere improvvisamente finita. Il paradosso serve anche a svelare, secondo alcune, le reali argomentazioni alla base delle leggi contro il velo.

In Francia, nel 2010, l’allora presidente francese Nicolas Sarkozy promosse la norma con ragionamenti che, escludendo le motivazioni religiose, avevano a che fare con “la dignità della donna” e la difesa dell’identità francese. Scoprendosi improvvisamente tutti femministi molte persone e molti politici si ritrovarono impegnati in una presunta difesa dell’uguaglianza e della dignità delle donne. Il dibattito, ha scritto Rokhaya Diallo su Slate, oscillava di continuo tra la strumentalizzazione del femminismo e il desiderio di definire cosa e quale fosse la vera identità francese.

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Se un volto coperto per motivi religiosi è oggi considerato un reato, lo stesso volto, coperto a fini di salute, è il risultato di un comportamento civico, incoraggiato e in alcuni casi obbligatorio. E questo, scrive Diallo, mostra in tutta la sua evidenza che la vera questione in gioco non era e non è la difesa della Repubblica presumibilmente incompatibile con un volto coperto, ma la volontà politica di sradicare qualsiasi espressione di pratica dell’Islam e quella di promuovere un principio assimilazionista che non tollera le “ostentazioni” culturali di una minoranza.

La maschera con i colori della bandiera francese indossata dal presidente Macron è il simbolo di questo rovesciamento, così come anche altri standard comportamentali oggi consigliati (non stringere la mano, non baciare le persone), che di recente sono stati inseriti dal ministro dell’Interno Christophe Castaner in un elenco che indica quali potrebbero essere i segnali di una possibile radicalizzazione.

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Karima Rahmani, presidente di un gruppo di oltre settanta donne che indossano il niqab nei Paesi Bassi, ha detto che il governo ha parlato del suo velo «per anni e anni, rendendolo un problema», arrivando a dire con varie argomentazioni quanto lei fosse pericolosa e scollegata dalla società: «Ma ora indossano tutti le mascherine». A partire dalla pandemia, Karima Rahmani ha detto di aver notato anche dei cambiamenti nei suoi confronti mentre cammina per la strada: «Le persone normalmente mi guardano con rabbia, ma ho visto un cambiamento nei loro occhi». La speranza, ha detto, è che tutto questo possa portare a parlare della sua esperienza con più serenità, con qualche argomento in più o, meglio, con qualche argomento in meno. Tendayi Achiume, relatrice speciale delle Nazioni Unite sulle forme contemporanee di razzismo, ha detto che le persone forse si fermeranno a pensare a come la paura abbia contribuito e giustificato l’approvazione delle leggi contro il burqa, e che dunque ci si confronterà «con la costruzione politica dell’idea che i veli siano qualcosa che minaccia una nazione, una cultura, una società».

Dal punto di vista legale
Tutta la questione potrebbe avere anche dei risvolti legali. Diversi esperti di legge in Europa, scrive il New York Times, hanno sostenuto che l’attuale situazione rende di fatto inapplicabili i divieti del velo. «Date le circostanze in cui viviamo ora, la legge non è di fatto applicabile», ha detto ad esempio Rupert Wolff, presidente di un’associazione di avvocati austriaci. Satvinder Juss, avvocato di Londra esperto di diritti umani, ha a sua volta spiegato che chi indossa il burqa in Europa ha ora, legalmente, una sponda più solida per poterlo fare. Juss ha detto che se un poliziotto francese dovesse fermare una donna perché indossa il niqab in pubblico, dal momento che potrebbe essere circondata da altre persone con indumenti simili (una sciarpa tirata su fino al naso, ad esempio), l’agente si troverebbe chiaramente a mettere in atto una discriminazione religiosa.

Nel 2014, Juss aveva rappresentato una donna musulmana francese di 24 anni che aveva presentato appello alla Corte europea dei diritti umani contro il divieto di coprirsi il viso entrato in vigore in Francia. La Corte aveva respinto varie argomentazioni alla base della legge, ma alla fine aveva confermato il divieto accettando la ragione del “vivere comune”. Per la Corte di Strasburgo, cioè, la dissimulazione del volto in pubblico creava difficoltà nelle relazioni interpersonali e sociali, rappresentando una sorta di “chiusura” rispetto agli altri soggetti che vivono la collettività e andando dunque a ledere il diritto altrui di muoversi in uno spazio dove la vita comune è facilitata. Dato che ora, in Francia, le persone hanno naso e bocca coperte, Juss ritiene che la motivazione del “vivere insieme” non regga più.

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