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  • Mercoledì 13 maggio 2020

La partita che preannunciò la guerra in Jugoslavia

Trent'anni fa gli scontri tra croati e serbi nel giorno di Dinamo Zagabria-Stella Rossa, con la famosa ginocchiata di Boban, fecero capire a tutti quello che stava per succedere

di Pietro Cabrio

La ginocchiata di Zvonimir Boban al poliziotto jugoslavo sul prato dello stadio Maksimir
La ginocchiata di Zvonimir Boban al poliziotto jugoslavo sul prato dello stadio Maksimir

Nel 1990 la Jugoslavia stava vivendo gli ultimi mesi dei 45 anni trascorsi come paese unito dalla fine della Seconda guerra mondiale. Il carismatico e autoritario maresciallo Tito, capo della Repubblica Socialista jugoslava, era morto dieci anni prima e nessuno era riuscito a rimpiazzarlo. In un paese situato in una regione dalla storia lunga e complessa come pochi altri luoghi al mondo, formato da sei repubbliche e due provincie autonome, i partiti nazionalisti sfruttarono il momento, compresi gli effetti di una crisi economica che aveva indebitato lo stato e aumentato la disoccupazione, per promuovere le loro cause indipendentiste.

Nel gennaio del 1990 delegati sloveni e croati abbandonarono l’ultimo congresso dei comunisti jugoslavi, sancendo di fatto la fine del partito unico. Ad aprile si tennero le prime elezioni libere in Slovenia, la repubblica meno legata al governo centrale di Belgrado e in qualche modo “protetta” dai suoi legami storico-culturali con l’Europa occidentale. Il 6 maggio fu invece il giorno delle prime elezioni libere croate, vinte dal partito nazionalista del futuro presidente Franjo Tudjman. Entrambe le elezioni non vennero riconosciute da Belgrado, dove l’emergente capo dei socialisti serbi, Slobodan Milošević, continuava a ribadire il dominio serbo nella regione.

Agli inizi degli anni Novanta, la Jugoslavia si presentava quindi come un organismo svuotato di ogni suo significato, tenuto in piedi soltanto dalla vecchia organizzazione statale. Questa anomalia iniziò a vedersi nella vita di tutti i giorni, in modo particolare negli ambiti in cui sloveni, croati, serbi e bosniaci continuavano a frequentarsi. Fu così che il calcio, fenomeno culturale di massa e sport nazionale, preannunciò l’inizio delle guerre jugoslave con i disordini che si verificarono sempre più di frequente tra il 1989 e il 1990 e che culminarono a Zagabria il 13 maggio di trent’anni fa, giorno della partita fra Dinamo e Stella Rossa di Belgrado.

Gli antefatti
Una settimana prima della partita, le elezioni croate avevano visto una netta vittoria del partito nazionalista di Tudjman, ex comunista che combatté contro i croati alleati dei nazisti nella Seconda guerra mondiale e che in seguito divenne il più giovane generale dell’esercito jugoslavo. Negli anni Cinquanta Tudjman fu anche presidente del Partizan Belgrado, la squadra di calcio dell’esercito, eppure vent’anni dopo venne allontanato dal partito e arrestato per le sue attività indipendentiste e anti jugoslave.

In questo contesto, alla penultima giornata di una stagione in cui si erano verificati continui disordini tra tifoserie, la Stella Rossa già matematicamente vincitrice del campionato dovette giocare a Zagabria contro la Dinamo, seconda classificata. Intorno alla partita, ininfluente per il campionato ma non per questo priva di significati, si concentrarono interessi ben più grandi. I tifosi della Stella Rossa avevano già iniziato il loro processo di radicalizzazione guidati da un oscuro criminale ricercato in mezza Europa, mentre a Zagabria i nazionalisti di Tudjman speravano nei disordini per poter attaccare i vertici serbi della polizia locale.

(Ben Radford/ALLSPORT)

La tifoseria organizzata della Stella Rossa – tuttora una delle più folte d’Europa – era stata vista dai leader serbi come una risorsa da utilizzare al momento opportuno e per questo “affidata” a Željko Ražnatović, un criminale di lungo corso conosciuto anche con il soprannome Arkan. Negli anni Settanta Ražnatović era stato arruolato dalla polizia segreta jugoslava per occuparsi delle persone non gradite al regime, motivo per cui viaggiò in tutta Europa commettendo crimini di vario genere. Ricevette oltre vent’anni di condanne definitive, scontate solo in piccola parte e anche in Italia, nel carcere milanese di San Vittore.

Dagli spalti dello stadio Marakana di Belgrado, Ražnatović arruolò e poi addestrò migliaia di volontari che nelle guerre jugoslave furono tra gli esecutori di alcuni dei più gravi crimini di guerra commessi ai danni delle popolazioni croate e bosniache. La partita di Zagabria servì da preparazione e la trasferta venne pianificata quasi come fosse un’operazione militare.

La partita
Un gruppo di tifosi serbi raggiunse Zagabria il giorno prima della partita munito di centinaia di targhe automobilistiche serbe da mettere alle auto croate parcheggiate nei dintorni dello stadio Maksimir, in modo che venissero poi distrutte dagli stessi tifosi locali. La parte più folta del tifo organizzato della Stella Rossa raggiunse Zagabria in treno il giorno stesso della partita, abbondantemente armata e con chiare intenzioni violente, incredibilmente senza una scorta di polizia adeguata. Diversa fu l’accoglienza da parte dei tifosi della Dinamo, loro sì ben consapevoli di quello che sarebbe successo.

Dinamo e Stella Rossa avevano due squadre promettenti e piene di talento. Nei croati ci giocavano soprattutto i giovani Zvonimir Boban e Davor Šuker, entrambi destinati a grandi carriere nel Milan e nel Real Madrid, oltre che con la loro nazionale. La Stella Rossa – club della polizia jugoslava – era invece una squadra più esperta e completa. Era composta di fatto dallo stesso gruppo che l’anno successivo vinse la Coppa dei Campioni a Bari. I suoi giocatori più popolari erano soprattutto tre, estrosi e di rara bravura: il montenegrino Dejan Savićević, il serbo Dragan Stojković e il serbo-croato Robert Prosinečki.

La partita sarebbe dovuta iniziare alle sei di sera ma le squadre non riuscirono nemmeno a completare il riscaldamento. Fu Stojković, il capitano della Stella Rossa, a decidere di rientrare negli spogliatoi dopo aver visto i tifosi prepararsi a invadere il campo. Sugli spalti, intanto, i tifosi serbi spaccavano i seggiolini per tirarli ovunque, distruggevano recinzioni e incendiavano cartelloni pubblicitari. Entrarono quindi in campo, e la controparte croata fece lo stesso per fronteggiarli.

Secondo numerose testimonianze, gli agenti in servizio se la presero soprattutto con i tifosi della Dinamo Zagabria, motivo per cui alcuni giocatori croati rimasero in campo insieme a Zvonimir Boban, il loro capitano, il più giovane nella storia del club. Nonostante l’età, Boban era molto maturo e in patria godeva di grande popolarità: fra gli sportivi croati era uno dei più esposti nella causa indipendentista.

Boban si scagliò contro i poliziotti che manganellavano persone a terra e insultò uno di loro, un bosniaco musulmano, che fece lo stesso e lo colpì con una manganellata. A quel punto Boban prese la rincorsa e con una ginocchiata gli fratturò la mascella. «Il 13 maggio è uno dei giorni più importanti della mia vita — disse in una delle tante interviste date negli anni seguenti sull’accaduto — Tutto cominciò quando gli ultras da Belgrado cominciarono a vandalizzare il nostro stadio. La polizia di Zagabria, dalla parte del regime, lì lasciò fare e iniziò a picchiare i nostri tifosi. Insultai la polizia e uno di loro mi colpì. Io reagii, lo colpii e lui cadde per terra. Qualche giorno più tardi avrei compiuto vent’anni».

La partita non venne mai giocata. Sul prato del Maksimir si susseguirono a lungo scorribande, scontri, risse e incendi, mentre le persone ferite rimanevano distese a terra. I disordini si spostarono in strada, divennero guerriglia e durarono fino a notte fonda, quando i tifosi serbi vennero rispediti a Belgrado con un treno speciale. La Stella Rossa si barricò negli spogliatoi e uscì dallo stadio dopo mezzanotte. Vennero ricoverate 138 persone, tra tifosi e agenti di polizia feriti. Ci furono 132 arresti e centinaia di mezzi incendiati e distrutti.

La stampa sottovalutò i fatti ma le immagini si diffusero velocemente, anche all’estero. Il calcio di Boban al poliziotto jugoslavo diventò l’emblema di quel giorno e uno dei reperti di una storia che divenne via via sempre più grande. Dopo la partita Boban dovette lasciare casa e cambiare domicilio ogni sera per timore di essere rintracciato. Fu successivamente arrestato. Durante il processo che ne seguì l’accusa presentò una registrazione manomessa per farlo sembrare l’aggressore, ma il tentativo fu sventato dal ritrovamento delle riprese originali. La federazione jugoslava lo squalificò per nove mesi, sufficienti a fargli saltare i Mondiali in Italia – gli ultimi nella storia della Jugoslavia – anche quando vennero ridotti a quattro.

Esattamente un anno dopo, Slovenia e Croazia proclamarono la loro indipendenza, dando inizio alle prime due guerre jugoslave: la breve guerra d’indipendenza slovena e la più lunga e sanguinosa guerra d’indipendenza croata, con oltre ventimila morti e quasi un milione di profughi. Sia il tifo organizzato della Stella Rossa che quello della Dinamo Zagabria fornirono uomini alle formazioni paramilitari che misero in pratica la pulizia etnica pianificata dai rispettivi leader politici. Allo stadio Maksimir di Zagabria ancora oggi una lapide ricorda «i tifosi della Dinamo, la cui guerra cominciò il 13 maggio 1990».