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  • Mercoledì 13 maggio 2020

Cosa resta di Bruce Chatwin

Andò molto di moda per i suoi libri di viaggi ma ora è ricordato soprattutto per le Moleskine: perché rileggerlo, oggi che compirebbe 80 anni

Lo scrittore Bruce Chatwin nel 1979 (ANSA/Ulf Andersen/Aurimages)
Lo scrittore Bruce Chatwin nel 1979 (ANSA/Ulf Andersen/Aurimages)

Quando si dice che un musicista o un cantante è morto giovane, si pensa subito a qualcuno che, come Jim Morrison o Amy Winehouse, non è mai arrivato ai 30 anni. Per gli scrittori, forse perché solitamente raggiungono la notorietà, se la raggiungono, più tardi, l’asticella è più in alto. Di Bruce Chatwin, l’autore di In Patagonia morto il 18 gennaio 1989 a 48 anni, si dice infatti che morì giovane. Nel suo caso però potrebbe entrarci anche il suo aspetto da “eterno ragazzo”, come si dice, che si mantenne anche negli ultimi anni della sua vita.

Ma diversamente dalle rockstar morte a 27 o 28 anni Chatwin – che oggi ne compirebbe 80 se fosse ancora vivo – sembra aver perso un po’ del suo fascino, nel tempo. In molti hanno notato come nel nuovo millennio la sua fama sia diminuita al punto che, forse tra i più giovani, è noto più per aver ispirato i taccuini di Moleskine che per i suoi libri. Secondo la sua editor e biografa postuma Susannah Clapp può darsi che sia successo proprio perché all’apice del suo successo, tra l’uscita di In Patagonia nel 1977 e gli anni Novanta, Chatwin era davvero popolare: «La pena da pagare per essere andato di moda è che anni dopo puoi finire per diventare uno che andava di moda e basta».

Chatwin nacque a Sheffield, in Inghilterra, nel 1940, e il suo primo lavoro fu nella casa d’aste Sotheby’s. Inizialmente svolgeva compiti umili, da fattorino, ma poi sfruttò la sua particolare sensibilità per gli oggetti (evidente nei libri che scrisse in seguito) per ottenere mansioni da esperto di dipinti e antichità greco-romane. Poi si mise a scrivere interviste e profili di persone famose sul Sunday Times e, come raccontò lui stesso, la sua carriera di scrittore iniziò grazie a una delle persone che doveva intervistare: l’anziana designer irlandese Eileen Gray, che gli diede l’idea di andare in Patagonia.

In vita Chatwin pubblicò sette libri. Tre – Il viceré di Ouidah, da cui Werner Herzog trasse il film Cobra Verde, Sulla collina nera e Utz – sono romanzi, ma quelli per cui divenne famoso sono i suoi libri di viaggio, in particolare In Patagonia e Le vie dei canti, ambientato in Australia.

Tra gli anni Settanta e i primi anni Ottanta forse aveva ancora senso fare distinzioni tra “viaggiatori” e “turisti”: visitare paesi lontani era ancora un’esperienza poco comune, era più facile incontrare persone che non avessero nulla di familiare e trovarsi in situazioni in cui comunicare e spostarsi era complicato o impossibile, e così contattare qualcuno a casa. Per questo, posti come la Patagonia non erano ancora diventati mete popolari, e libri e reportage come quelli di Chatwin fecero venir voglia a molti di andare lontano, anche solo leggendo. In Italia In Patagonia uscì nel 1980 per Adelphi, che pubblicò anche tutte le altre opere di Chatwin, contribuendo almeno in parte, con la sua aura intellettuale e ricercata, alla grande fama dello scrittore qui da noi.

Lo stile di Chatwin era molto accattivante perché non aveva un approccio puramente giornalistico, anzi: dopo la morte i suoi detrattori hanno più volte sottolineato come ricamasse molti degli aneddoti che raccontava per renderli più interessanti. Se ne era riparlato anche nel 2010, con l’uscita della raccolta di lettere L’alternativa nomade: nelle note alle lettere Elizabeth Chanler, vedova di Chatwin e co-curatrice del libro, aveva infatti rettificato molte delle cose raccontate dal marito. Ad esempio, in una lettera Chatwin raccontava che, per annunciare il loro fidanzamento, avevano tenuto un ricevimento con 350 persone; Chanler aveva invece annotato che quel ricevimento non c’era mai stato.

La sua opera più importante è Le vie dei canti, un libro che è in parte un saggio, in parte un romanzo e in parte un diario di viaggio; parla della tesi di Chatwin secondo cui gli uomini sono per natura nomadi. Era un’idea basata sul passato da cacciatori e raccoglitori dell’umanità ma anche e soprattutto sulla filosofia di vita personale.

– Leggi anche: Chatwin a chi ha paura di perdere il passaporto

Per avere un’idea dello stile di Chatwin è utile leggere l’articolo che Michele Masneri ha scritto per il Foglio l’anno scorso, in occasione del trentesimo anniversario della morte dello scrittore:

«Il mondo chatwiniano girava su due voltaggi: quello lirico delle vie dei canti, del nomadismo esistenziale, e quello dell’aneddoto buffo. Il suo era un universo bonario sempre cosparso di nobildonne e mercanti di sete, dove accadevano inghippi veri o immaginati, ma mai drammatici. Un universo accogliente e circolare, una specie di famiglia felice tipo Balzac incontra Wes Anderson, con personaggi e luoghi ricorrenti al ralenti. Zarine, mercanti, poeti russi, preti ortodossi, collezionisti di porcellane, sultani, gemelli misteriosi, contesse baltiche, aborigeni e sciamani. Un mondo che, come le serie del Corsaro Nero, ti fa sentire protetto: niente di brutto succede mai veramente e anche i malanni non portano mai sofferenza vera: i cattivi non sono cattivi, mai (e l’angoscia, solo un filo, rimane sullo sfondo)».

Chatwin raccontò una storia fantasiosa sulla causa della sua morte, in questo caso comprensibilmente. Bisessuale e con molti amanti, a metà degli anni Ottanta si ammalò di AIDS, ma anche dopo la diagnosi disse ai suoi familiari di essere stato infettato da un rarissimo fungo del midollo spinale, durante un viaggio in Cina. Anche il suo necrologio sul New York Times dà questa versione.

In ogni caso Chatwin non nascondeva che lavorava di fantasia quando raccontava le sue storie. In un’intervista a Repubblica Susannah Clapp ha raccontato:

«Diceva lui per primo di avere perso il conto delle menzogne che aveva scritto in “In Patagonia”. Naturalmente ogni scrittore racconta cose che non sono reali: è l’essenza della narrativa. Il punto è che Bruce non scriveva narrativa. O non soltanto narrativa. In effetti è difficile mettere un’etichetta sui suoi libri. Saggi? Travel writing, libri di viaggio? Romanzi? Secondo me un altro aspetto della sua importanza, della sua eredità, è appunto questa impossibilità di catalogarlo come autore: si muoveva al confine tra fiction e non-fiction, tra narrativa e saggistica, in un territorio letterario volutamente ambiguo».

Nonostante non vada più di moda come un tempo, Chatwin continua comunque ad avere i suoi estimatori, nel mondo anglosassone come in Italia. Nel 2015 la rivista culturale Studio diceva «adesso che l’inflazionato autore di libri di viaggi è finalmente passato di moda possiamo iniziare a leggerlo senza pregiudizi». Nel 2017 il New York Times Style Magazine, in un articolo firmato dalla scrittrice Hanya Yanagihara, diceva che la sua scrittura e il suo stile «non hanno perso per nulla il loro potere di incantare e ispirare». L’articolo di Masneri a sua volta invoglia a riscoprire i libri di Chatwin, anche se più per il suo personaggio che per i posti di cui scriveva.

Negli ultimi anni, soprattutto nel mondo anglosassone, ma in parte anche in Italia, sono stati pubblicati molti libri di narrativa che partono dal reale – la cosiddetta narrative non fiction – e almeno nei gusti di editor e critici questa moda sembra non aver ancora esaurito il suo potenziale. Forse per questo le opere di Chatwin, che Clapp ha definito «un precursore», potrebbero anche avere il potenziale per tornare di moda.