Come faremo sugli aerei?

Per prevenire i contagi vedremo pannelli in plexiglass e meno passeggeri, ma ci sono ancora dubbi su quanto sia rischioso essere sullo stesso volo di un infetto

Un volo della Myanmar National il 4 marzo (Paula Bronstein/Getty Images)
Un volo della Myanmar National il 4 marzo (Paula Bronstein/Getty Images)

Le restrizioni imposte in tutto il mondo per contenere l’epidemia da coronavirus (SARS-CoV-2) hanno avuto e avranno conseguenze su gran parte dei settori economici. Uno di quelli già ampiamente interessati è l’aviazione civile, i cui passeggeri sono calati del 95 per cento secondo la Transportation Security Administration (TSA) statunitense. Nel breve periodo, il settore sta attraversando e attraverserà enormi problemi economici e logistici, legati anche alle restrizioni ai viaggi tra i vari paesi. Ma in previsione di quando man mano sempre più rotte saranno ripristinate, e i viaggi aerei torneranno a far parte della quotidianità di milioni di persone, si sta studiando come si potrà garantire una relativa sicurezza ai passeggeri in un ambiente chiuso e pieno di persone come la cabina di un aereo.

Alcune tra le prime soluzioni viste in giro ipotizzano, come per i treni e i mezzi pubblici, dei pannelli in plexiglass posti tra i sedili, che potrebbero essere affiancati a un – praticamente certo – contingentamento dei passeggeri, seduti con diversi posti vuoti tra l’uno e l’altro. Ma un lungo articolo del Washington Post ha spiegato che queste misure potrebbero servire solo fino a un certo punto, e che ridurre i rischi in un ambiente chiuso e affollato come un aereo potrebbe richiedere soluzioni molto più sofisticate.

Il coronavirus nell’aria
La prima cosa da considerare quando si parla di contagi in un luogo chiuso è che, per quanto ha scoperto finora la ricerca scientifica, il coronavirus si trasmette per lo più attraverso la saliva e il muco di una persona infetta, e quindi “viaggiando” su goccioline relativamente grosse e pesanti (droplets, in inglese), che cadono a terra pochi secondi dopo essere state espulse. È il motivo per cui uno dei pilastri su cui si sta basando l’attuale campagna di prevenzione mondiale è il distanziamento di un metro/un metro e mezzo tra le persone.

– Leggi anche: Cosa sappiamo sulla presunta trasmissione del coronavirus nell’aria

L’eventuale capacità del SARS-CoV-2 di trasmettersi attraverso la permanenza nell’aria è un tema che ha provocato un certo allarme, e che è attualmente in fase di studio. A oggi non sono emerse prove che confermino questa possibilità, salvo casi rari come durante l’intubazione dei pazienti in ospedale. Ma ci sono studi ancora parziali che sembrano confermare la presenza del coronavirus anche negli aerosol, cioè le particelle che emettiamo con la respirazione e che, a differenza delle goccioline, rimangono sospese nell’aria a lungo.

Non ci sono però ancora prove che il coronavirus rimanga negli aerosol in concentrazioni e forme tali da poter infettare le altre persone, e gli scienziati suggeriscono cautela. Una conferma definitiva potrebbe arrivare soltanto tra diversi anni. Nel frattempo bisogna decidere se i rischi di contagio, nel caso in cui su un aereo sia presente un passeggero infetto, valgono soltanto per le persone sedute nelle file vicine, e quindi possono essere ridotti con dei semplici divisori in plexiglass; oppure se esistono anche per chi è seduto a maggiore distanza, e saranno quindi necessarie misure aggiuntive.

Aerei della Delta parcheggiati al Kansas City International Airport, il 3 aprile. (Jamie Squire/Getty Images)

Aerei e virus
Nel 1977, una donna con l’influenza salì su un Boeing 737 per Kodiak, in Alaska, con altre 53 persone. L’aereo rimase bloccato sulla pista per un guasto, e il sistema di ventilazione rimase spento per due ore: tre giorni dopo, 38 persone che erano sul volo si erano ammalate. Nel 2003, invece, un Boeing 737 decollò da Hong Kong per un volo di tre ore diretto a Pechino: nel posto 14E, centrale, era seduto un 72enne con la febbre, che sarebbe morto qualche giorno dopo per una polmonite atipica. Delle 120 persone a bordo dell’aereo, nei giorni seguenti, 22 contrassero la SARS o mostrarono sintomi compatibili, secondo uno studio che uscì sul New England Journal of Medicine.

Secondo i ricercatori, la spiegazione “più plausibile” è che furono contagiati su quel volo, perché lo sviluppo dei sintomi in diversi casi avvenne quattro giorni dopo. Secondo l’OMS, si è stati in “contatto” con un ammalato di SARS se si è stati seduti su un aereo nella stessa fila o nelle due davanti o nelle due dietro, cioè quelle potenzialmente raggiungibili dalle goccioline di muco o saliva. In quello studio del 2003 si scoprì in effetti che le file più a rischio erano le due davanti, ma che anche due persone sedute fino a sette file di distanza furono contagiate, così come due assistenti di volo. Cinque passeggeri, peraltro, morirono.

Una rappresentazione grafica della Purdue University sulle modalità di diffusione delle goccioline (“droplets”) dopo un colpo di tosse: l’evidenziazione dei possibili contagiati, alla fine, vale per il virus della SARS, e non per quello della COVID-19 (Qingyan Chen/Purdue University School of Mechanical Engineering)

Secondo i ricercatori, il presunto contagio delle persone più distanti potrebbe essere avvenuto toccando superfici contaminate o spostandosi: ma è stato anche ipotizzato che il virus, per qualche motivo, fosse rimasto sospeso nell’aria più a lungo del previsto, spostandosi oltre il metro e mezzo.

Successivi studi hanno provato a ridimensionare questa tesi, ipotizzando che i contagi potessero essere avvenuti all’aeroporto. Come ulteriore cautela, va tenuto a mente che esistono i cosiddetti “super-diffusori”, cioè quelle persone che, se infette, trasmettono il virus a più persone delle altre, per una combinazione di fattori. I “super-diffusori” sono piuttosto comuni, uno su cinque per molte malattie infettive: è quindi possibile che i pochi casi noti di contagi estesi sugli aerei siano legati a soggetti di questa categoria.

Quello sul volo del 2003 è uno studio basato su un episodio specifico, e quindi dà indizi molto limitati sulla trasmissione su un aereo della SARS – che è causata da un coronavirus simile a quello della COVID-19. E soprattutto, lo studio si basava sul presupposto che il coronavirus della SARS possa rimanere nell’aria per ore, una caratteristica che al momento è esclusa dalle autorità sanitarie internazionali per il SARS-CoV-2. Il rischio prevalente per le infezioni da SARS-CoV-2, per quanto ne sappiamo, sono le goccioline di muco e saliva, comprese quelle che si depositano sulle superfici.

Che aria respiriamo sugli aerei
Comprendere quale sia il rischio di un’infezione durante un volo è adesso una delle preoccupazioni principali dell’intero settore dell’aviazione civile, che finora non aveva avuto tra le proprie priorità lo sviluppo di tecnologie che prevenissero i contagi tra i passeggeri. Per questo, gli studi attuali stanno provando a considerare anche gli scenari più pessimistici, compreso quello – per ora escluso – che in certe condizioni particolari il coronavirus possa rimanere sospeso nell’aria più a lungo di quanto crediamo.

L’aria che respiriamo sugli aerei, nella maggior parte dei casi, passa attraverso dei filtri conosciuti come HEPA (High Efficiency Particulate Air filter) che trattengono particelle anche più piccole del SARS-CoV-2, il virus che causa la COVID-19. L’aria che ci passa è per metà quella della cabina, che ricircola, e per metà presa dall’esterno. In teoria, quindi, questi filtri possono purificare l’aria dal coronavirus, e secondo la compagnia Delta, per esempio, lo fanno al 99,999 per cento. Chi ci tiene particolarmente a dimostrare la sicurezza dei voli, per questo, sta sostenendo in queste settimane che la cabina di un aereo possa essere addirittura più sicura dell’ambiente esterno.

Ma le cose sono più complicate di così: se anche, come sembra, i filtri potrebbero ripulire l’aria rimessa in circolo, rimane il problema delle particelle che possono passare da una persona all’altra prima di essere eventualmente risucchiate dai ventilatori e bloccate nei filtri. Ma per capire quanto elevato sia questo rischio, e soprattutto quanto dovrebbero essere distanziati i passeggeri per prevenirlo, dobbiamo ancora scoprire molte cose sul coronavirus.

Qingyan Chen è un professore di ingegneria della Purdue University che condusse un grosso studio sulla trasmissione di malattie a bordo degli aerei finanziato dalla Federazione per l’aviazione statunitense. Lo studio arrivò a conclusioni piuttosto preoccupanti: considerando una sezione di un Boeing 767 con sette file di posti, la probabilità di ciascun passeggero di essere contagiato da una persona con la SARS seduta al centro sarebbe di uno su tre su un volo di cinque ore, o di uno su cinque per un volo più corto e su un Boeing 737, quindi più piccolo. Lo studio di Chen si basava sul virus della SARS, che è un po’ diverso da quello della COVID-19 e che potrebbe avere comportamenti diversi, a partire dalla supposta permanenza dell’aria.

Tra le conclusioni principali, in ogni caso, la ricerca avanzava l’ipotesi che si possa ridurre il rischio di contagio di metà, o anche di più, cambiando gli attuali impianti di ventilazione degli aerei in modo che emettano l’aria da bocchettoni posti in basso, invece che in alto. In questo modo, la circolazione artificiale dell’aria seguirebbe quella naturale, che porta l’aria più calda verso l’alto, evitando di creare turbolenze che contribuiscano a spargere i germi all’altezza dei volti dei passeggeri.

Una assistente di volo controlla la temperatura di una passeggera prima dell’imbarco, all’aeroporto di Tokyo. (Tomohiro Ohsumi/Getty Images)

Meno passeggeri
La misura più ovvia e importante sarà comunque il contingentamento dei passeggeri, che con ogni probabilità saranno ridotti almeno della metà su ciascun aereo. Questo avrà una lunga serie di conseguenze, prime fra tutti sul prezzo dei biglietti: se ci potranno essere almeno inizialmente delle offerte per incentivare le persone a tornare sugli aerei, un numero drasticamente più basso di passeggeri vuol dire per forza prezzi dei biglietti più alti. Certe rotte più brevi potrebbero scomparire, e non è ancora chiaro che conseguenze avrà tutto questo sulle compagnie low-cost.

Mascherine
Una soluzione più semplice da adottare e che secondo gli esperti ridurrebbe significativamente i rischi di contagio sarebbe l’obbligo di indossare le mascherine per tutti i passeggeri, durante tutta la durata del volo. Questa misura è già stata annunciata negli scorsi giorni da varie compagnie aeree, tra cui Lufthansa, American Airlines, Delta e United.

Se eventuali pannelli in plexiglass tra i sedili, uniti a un distanziamento fisico dei passeggeri, potrebbero fornire una parziale protezione dai propri vicini, su un aereo è normale spostarsi, per andare in bagno o sgranchirsi le gambe, ed è plausibile che anche in un futuro con meno passeggeri ci saranno occasioni di contatto e distanze ravvicinate tra le persone. Le mascherine sembrano lo strumento più efficace per ridurre i rischi in queste situazioni.

Superfici
Anche al di là delle goccioline e degli aerosol, gli aerei sono luoghi piuttosto promiscui in cui i passeggeri salgono dopo aver passato alcune ore in luoghi affollatissimi come gli aeroporti, e in cui condividono per alcune ore lo stesso bagno, oltre a toccare frequentemente le stesse superfici. Per questo le compagnie aeree dovranno per forza studiare dei sistemi di sanificazione degli ambienti, che però dovranno essere applicate anche durante il volo stesso, e non solo tra uno e l’altro.

Alcune delle sperimentazioni più interessanti arrivano dalle luci ultraviolette ad alta frequenza: Boeing per esempio sta testando un sistema di questo tipo che dice essere in grado di uccidere il 99,9 per cento dei germi in un bagno dopo ogni utilizzo. Come ha spiegato il Washington Post, però, ci vogliono ancora estese ricerche per capire che danni provochino queste luci sulle persone: i normali raggi ultravioletti sono infatti nocivi, e sono usati come disinfettanti senza esporre gli esseri umani.

David J. Brenner, direttore del Centro per la ricerca radiologica della Columbia, ha spiegato che quelli a maggior frequenza non sono penetranti, e che attualmente è in corso uno studio che ha previsto l’esposizione di decine di topi da laboratorio per 15 mesi, i cui risultati sono per ora solo preliminari: «È arrivato tutto un po’ troppo presto per noi. Se fosse arrivato tra un anno, saremmo stati in una buona condizione per combatterlo».