Le conseguenze dell’epidemia sulla moda stanno creando grandi problemi in Bangladesh

È il secondo esportatore di vestiti al mondo, ma le sue fabbriche rischiano di chiudere perché i marchi occidentali hanno annullato gli ordini

Dacca, Bangladesh, 1 aprile 2020
(© Sultan Mahmud Mukut/SOPA Images via ZUMA Wire / ANSA)
Dacca, Bangladesh, 1 aprile 2020 (© Sultan Mahmud Mukut/SOPA Images via ZUMA Wire / ANSA)

Nelle ultime due settimane anche il mondo della moda è stato travolto dalla pandemia da coronavirus (SARS-CoV-2) e dalle sue conseguenze: i negozi di scarpe e abbigliamento hanno chiuso in Europa, negli Stati Uniti e in molti altri paesi, sono state cancellate le sfilate cruise (quelle di metà stagione, che si tengono in primavera) e quelle dell’abbigliamento maschile e di alta moda di Parigi, mentre è stata rimandata la sfilata con le collezioni maschili di Milano, che si aggiungerà alle sfilate per l’abbigliamento da donna di settembre.

Alcun grandi marchi hanno fatto generose donazioni agli ospedali o riconvertito la loro produzione in gel disinfettanti e mascherine. Contemporaneamente però sono stati cancellati o ritardati molti ordini fatti alle fabbriche di abbigliamento, che si trovano perlopiù in Asia dove la manodopera è a buon mercato; parecchie si sono viste rifiutare anche il pagamento di merce già prodotta e spedita. La situazione è particolarmente difficile in India, Cambogia, Vietnam e Bangladesh, come hanno raccontato sia il sito di moda Business of Fashion sia il New York Times.

I grandi marchi di abbigliamento, soprattutto quelli di fast fashion (cioè le catene di vestiti economici e alla moda come H&M, Zara e Forever 21), non controllano l’intera linea di produzione ma commissionano la fattura di scarpe e vestiti nelle fabbriche cinesi e dei paesi emergenti asiatici. In questi ultimi le conseguenze della pandemia potrebbero abbattersi molto pesantemente sulle persone meno tutelate. I proprietari delle fabbriche di tessuti e di vestiti rischiano la bancarotta e sono in ballo gli stipendi di milioni di lavoratori. «Sarà un disastro umanitario», dice Simone Cipriani, fondatore e direttore della Ethical Fashion Initiative, un ente delle delle Nazioni Unite che mette in contatto piccole comunità di artigiani con grandi marchi internazionali.

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Molte fabbriche sono rimaste aperte nonostante le restrizioni per contenere il coronavirus approvate nei loro paesi, come in India e in Bangladesh. Alcune hanno introdotto nuove norme che garantiscono la distanza di sicurezza del personale ma parecchie operano come al solito, con i lavoratori ammassati in stanze scarsamente ventilate e con un solo bagno comune, tutte cose che favoriscono il contagio. È possibile che molti dipendenti finiscano a lavorare in nero o ad accettare paghe minori e condizioni di scarsa sicurezza, pur di portare dei soldi a casa.

Altri sono stati licenziati da un momento all’altro dopo che i grandi marchi hanno cancellato gli ordini o non hanno evaso i pagamenti dovuti. In molti di questi paesi gli ammortizzatori sociali sono previsti solo sulla carta. Per esempio in Cambogia il governo e i datori di lavoro devono garantire una percentuale di stipendio ai dipendenti qualora l’azienda sospenda il lavoro, ma nella pratica non avviene sempre. Business of Fashion racconta che a Tamil Nadu, dove sono concentrati molti degli stabilimenti tessili dell’India, molti operai del settore tessile non sono stati pagati per il lavoro fatto a marzo.

In Bangladesh, che è il secondo paese esportatore di abbigliamento al mondo dopo la Cina, le fabbriche di abbigliamento sono un aspetto fondamentale dell’economia: nel 2019 i capi confezionati hanno rappresentato l’84 per cento delle esportazioni, pari a circa 37 miliardi di euro. Dall’inizio della pandemia nel paese sono stati cancellati e sospesi ordini per oltre 2,6 miliardi di euro, con conseguenze pesanti sulla vita di 2 milioni di lavoratori. Più di un milione di impiegati nel settore dell’abbigliamento sono già stati licenziati o si trovano in cassa integrazione, molti senza ricevere lo stipendio.

Rubana Huq, presidente dell’Associazione dei produttori ed esportatori di abbigliamento del paese, ha detto al New York Times che «la nostra situazione è apocalittica. Le cancellazioni e le sospensioni degli ordini dall’Occidente ci stanno portando al fallimento, abbiamo un ammasso di sovrapproduzione e debiti sulle materie prime».

Sharif Zahir è il direttore del gruppo Ananta, che gestisce sette fabbriche, impiega un totale di 26mila persone e rifornisce aziende come H&M, Zara, Gap, Levi’s e la catena Marks & Spencer. Zahir accusa i «marchi stranieri di comportarsi in modo irresponsabile» per aver cancellato ordini di merci che erano già state prodotte, ritardato i pagamenti e chiesto sconti su merci già spedite. «Siamo rimasti con circa il 20 per cento degli ordini di aprile. Tutto il resto è un’incognita. Probabilmente da aprile le aziende resteranno senza ordini e non saranno in grado di pagare gli stipendi. Comprendiamo che è un momento difficile per chi compra da noi ma anche loro devono capire che le fabbriche di vestiti sono l’anello debole della catena».

Anche le associazioni sindacali di tutto il mondo stanno chiedendo alle aziende internazionali di fare la loro parte e soprattutto di mantenere gli impegni presi. Così come i proprietari delle fabbriche, i sindacati sostengono che i grandi marchi occidentali affronteranno la crisi più facilmente, potendo contare sugli aiuti finanziari dei governi e su maggiore liquidità. Una ricerca della Pennsylvania State University ha scoperto che quasi tutte le aziende occidentali si sono rifiutate di contribuire agli stipendi dei lavoratori bengalesi e che il 70 per cento di chi è stato licenziato non ha ricevuto la paga che gli era dovuta.

I grandi marchi occidentali sono in gravi difficoltà economiche e al momento sono pochi quelli che hanno promesso di rispettare gli accordi presi. H&M ha chiuso più di due terzi dei suoi 5.000 negozi in tutto il mondo e ha detto agli affittuari che potrebbero interrompere i contratti in anticipo rispetto al termine se le vendite non dovessero ripartire. Ha comunque promesso che accetterà e pagherà tutte le merci che sono già state fabbricate e quelle già in produzione; ha anche garantito che non contratterà sui prezzi degli ordini. Lo stesso ha fatto Inditex, il gruppo spagnolo che possiede tra gli altri Zara, Oysho e Massimo Dutti, e che chiuderà temporaneamente tutti i suoi 4.000 negozi.

Primark, una grossa catena di fast fashion irlandese, non prevede la vendita online e ha chiusi tutti i suoi 376 negozi in 12 paesi, con una perdita prevista di circa 740 milioni di euro al mese. Primark ha bloccato tutti i prossimi ordini perché, ha detto il direttore esecutivo Paul Marchant, «abbiamo grandi quantità di scorte nei negozi, nei magazzini e in consegna, per cui abbiamo pagato; se non bloccassimo nuovi ordini ci ritroveremmo con cose che non possiamo vendere».

Intanto in Bangladesh il governo ha stanziato un fondo di circa 540 milioni di euro per le industrie orientate all’esportazione, per pagare direttamente i lavoratori. Ora è importante, scrive il New York Times, che i finanziamenti arrivino davvero alle persone e che non vengano fatti passi indietro in materia di sicurezza: una situazione disperata può sfociare facilmente nello sfruttamento. Anche la conversione della produzione da vestiti a mascherine e tute protettive potrebbe essere un ulteriore rischio per le fabbriche e i lavoratori locali perché, spiega Huq, «avremmo bisogno di un aiuto sostanziale per riconvertire la produzione verso quei prodotti e bisognerebbe anche verificare la fonte di provenienza della materie prime: si tratta insomma di mettere in piedi un nuovo tipo di catena di approvvigionamento».

Negli ultimi anni in Bangladesh le condizioni di lavoro nell’industria tessile sono molto migliorate, in particolare dopo il crollo nel 2013 di un palazzo di nove piani nella capitale Dacca che ospitava molte fabbriche: morirono in tutto 1.129 persone. Da allora molte aziende di abbigliamento occidentale si sono impegnate a rifornirsi solo da imprenditori che garantivano ai lavoratori condizioni di sicurezza e paghe dignitose.