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  • Lunedì 30 marzo 2020

Nella Striscia di Gaza il coronavirus potrebbe fare più male che altrove

È una delle aree più densamente popolate al mondo, con un sistema sanitario fatiscente: i casi ufficiali sono 9, quelli reali potrebbero essere molti di più

(AP Photo/Adel Hana)
(AP Photo/Adel Hana)

Nelle ultime settimane la pandemia di coronavirus sta colpendo soprattutto i paesi occidentali, risparmiando – in parte, e per ora – la gran parte dei paesi meno sviluppati. Gli esperti si stanno chiedendo cosa potrebbe succedere se il contagio raggiungesse aree più vulnerabili del pianeta, ma c’è un posto in particolare in cui la potenziale diffusione del coronavirus è stata descritta come «una catastrofe» e «un disastro»: la Striscia di Gaza.

Le ragioni sono soprattutto due. La prima è che nel pezzo di terra fra Israele ed Egitto – controllato dal 2007 dal gruppo politico-terrorista Hamas – due milioni di persone abitano una superficie grande quanto un nono della Valle d’Aosta. La Striscia è uno dei posti più densamente abitati al mondo, dove isolarsi per fermare la catena di contagio del virus sarebbe assai complicato. La seconda ragione riguarda le condizioni fatiscenti del sistema sanitario locale: secondo i calcoli di Foreign Policy gli ospedali della Striscia dispongono soltanto di 70 posti letto di terapia intensiva – gli unici adatti a gestire un paziente in condizioni gravi – e oggi sono già in uso 45 dei 60 ventilatori disponibili, fa sapere l’Organizzazione mondiale della sanità (OMS).

«Non ci vuole molto perché il sistema, che per il momento sta reggendo, abbia notevoli difficoltà», ha detto a Foreign Policy Jamie McGoldrick, che coordina la task dell’OMS per la gestione del coronavirus in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza.

(Yousef Masoud/SOPA Images via ZUMA Wire)

Nelle scorse settimane l’embargo che Israele impone alla Striscia di Gaza dalla presa di potere di Hamas – e che secondo diversi pareri contribuisce a renderla uno dei posti più poveri e disagiati al mondo – era paradossalmente riuscito a proteggerla dal coronavirus. Le persone a cui le autorità israeliane permettono di entrare e uscire dalla Striscia sono pochissime, qualche migliaio di lavoratori in tutto e alcuni viaggiatori occasionali, e i punti di contatto col mondo esterno sono ridotti al minimo.

I primi due casi ufficiali di coronavirus sono stati individuati soltanto una decina di giorni fa: sono due uomini di 79 e 63 anni tornati da una conferenza religiosa in Pakistan. Sono stati messi in quarantena, così come i loro compagni di viaggio. Più o meno una settimana fa Hamas aveva preso diverse altre misure, fra cui la chiusura dei mercati scoperti, dei caffè e delle moschee, cioè i principali luoghi pubblici di ritrovo. Le scuole sono sospese da tempo, mentre in questi giorni alcune strade della città principale della Striscia sono state pulite.

(AP Photo/Adel Hana)

Non tutti però sono convinti che gli sforzi delle autorità locali siano stati sufficienti. Una giornalista di 30 anni, Nima Amraa, ha raccontato ad Associated Press di essere stata messa in quarantena da Hamas dopo un recente viaggio in Egitto. Ha detto di essere stata portata in un centro di isolamento messo in piedi in tutta fretta dentro a una scuola, e di aver dormito per dieci giorni in una stanza con cinque altre donne, con cui ha anche diviso un bagno: «mangiavamo insieme, e non c’era alcuna possibilità di isolarsi», ha raccontato.

In tutto Hamas ha attrezzato 18 centri di isolamento e ne sta costruendo due da zero, ma potrebbe già essere troppo tardi. Qualche giorno fa si è scoperto che sette guardie di sicurezza che lavoravano nel centro dove sono ospitati i primi due casi sono state trovate positive al coronavirus.

Non c’è modo di sapere a oggi quante persone siano state infettate. Al momento i casi confermati rimangono 9, ma Associated Press stima che soltanto il 20 per cento delle circa 1.700 persone che si trovano in quarantena siano state sottoposte al test. I kit per fare i cosiddetti tamponi sono ancora piuttosto rari: ne sono arrivati circa 200 dalle autorità israeliane e un migliaio dall’OMS.

Ci sono altre ragioni per pensare che gli abitanti della Striscia possano essere particolarmente vulnerabili durante un contagio, oltre alla scarsità di strumenti e alle condizioni elencate prima. Più di metà delle persone vivono al di sotto della soglia di povertà, anche se non è chiaro esattamente quante siano, e solo una famiglia su dieci ha accesso all’acqua potabile in casa. Il consumo di sigarette è molto più diffuso che altrove, il tasso di obesità piuttosto alto, ed è noto che nelle zone esposte a bombardamenti e altre violenze le persone soffrano più spesso di stress e altri problemi psicologici che possono indebolire le difese immunitarie.

Dall’altra parte, va detto che l’età media della Striscia è molto, molto bassa – mentre è noto che il coronavirus colpisce soprattutto le persone adulte – e che l’adozione di misure relativamente stringenti quando i casi ufficiali erano ancora pochi potrebbe avere contenuto i danni.

«La gente ha paura, le strade sono vuote», ha raccontato ad al Jazeera il nipote di uno dei due uomini risultati positivi di ritorno dal Pakistan: «A Gaza la situazione ricorda quella di una guerra».

Il principale mercato scoperto della città di Gaza fotografato il 27 marzo (AP Photo/Adel Hana)