Perché la letalità da coronavirus è così alta in Italia

C'entrano l'età media della popolazione e le strutture sociali, secondo due ipotesi circolate molto negli ultimi giorni: per risposte definitive occorreranno più dati

(ANSA / PAOLO SALMOIRAGO)
(ANSA / PAOLO SALMOIRAGO)

Dall’inizio dell’attuale epidemia, in Italia sono morte 1.809 persone con COVID-19, la malattia causata dal coronavirus (SARS-CoV-2). La maggior parte dei decessi si è verificata in Lombardia con 1.218 morti, seguita dall’Emilia-Romagna con 284 e dal Veneto con 63. Secondo i dati aggiornati a questa mattina, l’Italia è il secondo paese al mondo per decessi legati al coronavirus, dopo la Cina che da inizio gennaio ne ha fatti registrare 3.213. Epidemiologi e analisti si interrogano da diversi giorni su cosa abbia determinato i molti decessi nel nostro paese, e le ipotesi più condivise sono legate all’età media della popolazione, più alta in Italia rispetto a quella di diversi altri paesi in cui si è diffusa l’epidemia.

Cosa dice l’Istituto Superiore di Sanità
Nel suo bollettino diffuso domenica 15 marzo, l’Istituto Superiore di Sanità (ISS) ha fornito i dati su 1.625 decessi. Il dato più rilevante è la letalità complessiva, cioè la percentuale di decessi tra i casi rilevati di COVID-19: 7,2 per cento. È un dato piuttosto alto se confrontato con il tasso di letalità globale dell’attuale epidemia, tra l’1 e il 5 per cento a seconda delle stime. Se si osservano i dati per fasce di età, si ottiene un quadro più preciso, soprattutto su quanto incidano i decessi tra i più anziani.

La letalità nella fascia di età compresa tra 70 e 79 anni è pari al 12,5 per cento, mentre nella successiva tra gli 80 e gli 89 è del 19,7 per cento. Se si mettono insieme queste due fasce di età si ottiene il numero più alto di decessi tra i 1.625 analizzati dall’ISS. Il tasso di letalità diventa ancora più alto tra gli ultra novantenni (22,7%), ma il dato è meno rilevante considerato che interessa un gruppo di persone più ristretto.

A oggi all’ISS non risultano morti per COVID-19 tra pazienti al di sotto dei 29 anni. Nella fascia tra i 30 e i 39 anni sono stati rilevati 4 decessi e il tasso di letalità è dello 0,3 per cento. La malattia si conferma quindi rischiosa soprattutto per le persone sopra i 70 anni, età che implica spesso la presenza di altre patologie che possono compromettere l’efficacia delle terapie.

Sul totale di 1.625 morti, quasi il 60 per cento erano di sesso maschile e il restante 40 per cento di sesso femminile. Se si divide per genere, la letalità tra le donne è quindi inferiore rispetto ai maschi. Nella fascia tra i 70 e gli 80 anni i soggetti di sesso maschile sono in maggioranza, mentre nella fascia sopra i 90 anni accade il contrario. Questo dato riflette grossomodo la struttura demografica della popolazione italiana, con le donne che mediamente vivono più a lungo.

Dati e discrepanze
Farsi un’idea sull’andamento di un’epidemia non è semplice, soprattutto ai suoi inizi: il modo di raccogliere i dati differisce tra i vari paesi coinvolti, ci sono spesso discrepanze e numeri che vengono rivisti, man mano che le rilevazioni diventano più accurate. Anche tenendo conto di tutti questi fattori, l’Italia spicca comunque per un tasso di letalità alto e fuori scala rispetto a quelli degli altri paesi.

Una possibile spiegazione riguarda il modo in cui sono eseguiti i test per determinare chi sia affetto da coronavirus o meno. Nella maggior parte delle regioni italiane la verifica viene eseguita esclusivamente sugli individui che mostrano di avere sintomi come febbre, tosse e difficoltà respiratorie. Ci sono però numerose testimonianze che indicano una ridotta verifica tra le persone che si ammalano e restano in autoisolamento a casa, soprattutto tra le fasce di popolazione più giovani e meno a rischio. Il numero di infetti è quindi sicuramente superiore a quello comunicato ogni giorno dalla Protezione Civile, e di conseguenza si può immaginare che la letalità sarebbe nel complesso più bassa se fossero eseguiti più test (per contro, si avrebbero più casi positivi segnalati ogni giorno).

Età e COVID-19
Jennifer Beam Dowd, epidemiologa e demografa dell’Università di Oxford, ha realizzato insieme a un gruppo di colleghi un interessante studio preliminare sul caso italiano, per capire come un’alta percentuale di anziani sulla popolazione possa influire sul tasso di letalità. Lo studio è stato pubblicato in anteprima, in attesa di una verifica alla pari e della sua successiva pubblicazione su una rivista scientifica.

Lo studio di Dowd e colleghi conferma che la COVID-19 pone un rischio molto alto per i più anziani, soprattutto nelle fasce tra 70-79 e 80-89 anni. In Italia quasi un quarto della popolazione ha più di 65 anni, e questo aumenta il rischio di un duro impatto della malattia sul nostro paese.

Il grafico qui sotto mostra la quantità di decessi per COVID-19 sul totale della popolazione. Allo stato attuale, l’Italia è il paese più a rischio proprio perché ha una popolazione tra i 70 e i 90 anni molto consistente.

Naturalmente i dati citati nello studio si riferiscono alla situazione attuale, che come abbiamo visto cambia all’aumentare dei nuovi positivi al coronavirus. Nel complesso, la ricerca segnala che comunque i paesi con un’età media più avanzata, come il nostro, dovranno adottare misure più drastiche per ridurre i contagi ed evitare stress eccessivi per le strutture sanitarie. I malati di COVID-19 anziani richiedono più assistenza in ospedale e hanno tempi di degenza lunghi, spesso in terapia intensiva, dove c’è scarsità di posti disponibili.

Dowd e colleghi hanno messo a confronto la provincia di Lodi e quella di Bergamo, per valutare l’andamento dei nuovi casi al variare delle restrizioni. Nel lodigiano si decise di isolare da subito i paesi con più casi, mentre nel bergamasco la stessa scelta fu adottata quasi due settimane dopo, quando era ormai evidente la diffusione del contagio. Il grafico qui sotto mostra come nel caso del lodigiano le restrizioni abbiano permesso di ridurre i nuovi contagi, mentre nella provincia di Bergamo sono aumentati enormemente (a oggi è quella con più casi segnalati in tutta Italia).

Comprendere quanto influisca la struttura demografica sulla letalità è importante non solo per l’Italia, ma anche per gli altri paesi che stanno per registrare un cospicuo aumento dei contagi. Il confronto con la Corea del Sud, dove sono stati registrati un terzo dei casi rispetto all’Italia a fronte di molti test in più eseguiti, consente anche di concludere che le differenze tra i gruppi di età sono consistenti, con molti meno casi che hanno interessato gli individui anziani sudcoreani rispetto a quelli italiani.

Struttura sociale
I dati demografici aiutano a comprendere il motivo dei maggiori contagi tra gli anziani solo fino a un certo punto: se da un lato è possibile che l’incidenza sia alta perché riguarda una fascia di popolazione più ampia di altri paesi, dall’altro non ci dice tutto sulle cause della diffusione dell’epidemia. Moritz Kuhn, docente di economia presso l’Università di Bonn (Germania), ha ipotizzato che sulla letalità possa influire la differenza nelle interazioni e nelle reti sociali tra diversi paesi, derivanti sia da cause culturali sia istituzionali e organizzative.

Kuhn ha identificato due paesi ipotetici, A e B.
In A quasi tutte le interazioni avvengono tra gruppi di persone sostanzialmente separati: la popolazione lavorativamente attiva da una parte, e quella più anziana e in pensione dell’altra.
In B, invece, le interazioni intergenerazionali sono più frequenti: i giovani vivono insieme agli anziani e se ne prendono cura, oppure gli anziani vivono separatamente, ma hanno più contatti con i giovani, per esempio per aiutarli con i figli piccoli negli orari lavorativi.

Kuhn è allora andato a vedere con un collega (Christina Bayer) la percentuale di individui tra i 30 e i 49 anni che vivono insieme ai genitori. Il dato varia notevolmente da paese a paese, ed è al di sopra del 20 per cento in paesi come l’Italia, la Cina, Singapore e il Giappone. Sono paesi simili al caso B e consentono, con un discreto grado di approssimazione, di mettere a confronto i livelli di interazione sociale tra le generazioni con il tasso di letalità registrato. Il confronto è riassunto nel grafico qui sotto, e l’Italia spicca nettamente rispetto agli altri paesi.

Secondo Kuhn, è probabile che l’effetto riscontrato ora sia temporaneo, e che le discrepanze tra i paesi diventeranno meno marcate quando il coronavirus si sarà diffuso maggiormente tra la popolazione. Anche in queste valutazioni i paesi con una consistente quota di anziani sono più esposti ad avere un tasso di letalità più alto, e questo dovrebbe indurre i governi ad assumere misure più adeguate per rallentare il contagio.

Dopo le prime settimane di gestione dell’emergenza sanitaria a Wuhan, l’epicentro dell’epidemia in Cina, divenne evidente che un’alta percentuale di nuovi contagi si stesse verificando nei nuclei familiari, complicando quindi la soluzione dell’isolamento e del distanziamento sociale. Per questo si decise di isolare i malati con sintomi lievi o poco gravi in strutture dedicate, riducendo il rischio di contagiare i familiari. Questa pratica si è rivelata determinante per ridurre il contagio e al tempo stesso lo stress delle strutture ospedaliere, che potevano dedicarsi per lo più ai casi gravi. In Italia attualmente non sono previste strutture alternative, con i malati con sintomi lievi o meno gravi che restano in famiglia, dove è difficile mantenere un buon isolamento.