“Lavoro per una società di consulenza”

Cosa vuol dire, precisamente, una frase che tutti noi – consulenti esclusi – si sono sentiti dire almeno una volta

Tokyo, 29 dicembre 2019 (The Yomiuri Shimbun via AP Images )
Tokyo, 29 dicembre 2019 (The Yomiuri Shimbun via AP Images )

Una società deve aprire una rappresentanza fiscale in un altro paese, un’altra deve invece decidere se fare o non fare un investimento. Un’azienda ha molti uffici in posti diversi che faticano a comunicare tra loro, generando inefficienze, e un’altra ancora non riesce a rendere abituali i propri clienti. Queste aziende non hanno al loro interno le competenze necessarie per affrontare la situazione, non hanno il tempo di farlo o non hanno nemmeno chiaro quale sia il problema. Quindi possono rivolgersi a una società di consulenza: persone esterne all’azienda che per mestiere identificano il problema, forniscono pareri e analisi su come risolverlo, in modo il più possibile oggettivo e di conseguenza – quando tutto va come deve andare – suggeriscono come far andar meglio le aziende. Le società di consulenza possono anche contribuire, quando richiesto, alla realizzazione delle soluzioni stesse.

Le consulenze
Gli ambiti di intervento del consulente possono essere ordinari o straordinari, e sono comunque molto diversi tra loro, così come lo sono i problemi. Semplificando, ci sono quattro tipologie di consulenza: la consulenza strategica, quella operativa, quella IT (Information Technology) e infine la consulenza finanziaria. E ci sono società e consulenti esperti in ciascuno di questi settori.

La consulenza strategica è richiesta quando un’azienda deve fare delle scelte strategiche di indirizzo, per esempio acquisire o meno un’altra società, fare o non fare una fusione e così via. Si usano dei consulenti, dunque, per avere un’analisi più precisa della propria situazione e del mercato, e avere maggiori informazioni che aiutino i dirigenti a decidere se fare o non fare quella scelta.

La consulenza operativa ha invece l’obiettivo di verificare se gli obiettivi di un’azienda sono stati raggiunti e di trovare strategie per migliorarne l’efficienza. In questo caso il consulente esamina le attività a vari livelli, analizza dove vengono messe le risorse, controlla i tempi, i rapporti con i clienti, e così via: individua le criticità e suggerisce soluzioni per superarle.

La consulenza nell’ambito Information Technology assiste invece l’azienda nella valutazione delle strategie tecnologiche, con l’obiettivo di allineare la tecnologia usata al processo aziendale, e migliorarla. Esistono anche consulenti IT operativi che eseguono materialmente le attività. Un esempio: quando si compra una società, dopo i consulenti già eventualmente interpellati per fare quell’acquisizione, è necessario integrare la nuova società e ci sono tutta una serie di cose da sistemare, a partire dai diversi software utilizzati.

La consulenza finanziaria, infine, è quella che forse si è sviluppata di più negli ultimi anni. Ne esistono principalmente tre tipi: il “risk management” misura e gestisce i rischi; la finanza d’impresa aiuta il cliente a gestire correttamente il capitale o a valutare gli investimenti; e la ristrutturazione aziendale serve, appunto, alla ristrutturazione delle strategie e delle varie attività di un’azienda.

Chi sono?
Quando si parla di consulenza strategica pura, ci sono tre società che occupano la gran parte del mercato mondiale: Boston Consulting Group, McKinsey e Bain & Company, le cosiddette Big Three o MBB. Sono multinazionali molto influenti: McKinsey venne fondata nel 1926 da un professore dell’Università di Chicago, la Boston Consulting Group da un ex venditore di Bibbie porta a porta e Bain & Company dall’unione di sette soci. La loro struttura organizzativa, pur con alcune differenze, presenta delle caratteristiche simili: esiste la cosiddetta “casa madre”, che costituisce il centro dell’attività, ed esistono società controllate e collegate di dimensioni più piccole. La casa madre è la responsabile delle consulenze per tutta l’azienda, ma una volta ottenuta la commissione affida il lavoro alle società minori, le quali si differenziano per specifiche aree di intervento.

Ciascuna ha sedi in decine di paesi, con migliaia di dipendenti, società affiliate e centri di studio e ricerca su vari temi e collegamenti con le università. Tutte hanno diramazioni così vaste e un vincolo di riservatezza così rigido, esteso spesso anche agli ex dipendenti, che intorno alla loro attività vengono ciclicamente sollevati dubbi e accuse di conflitto di interessi. McKinsey, ha detto per esempio al New York Times Janine R. Wedel, una docente della George Mason University, è una «potenza nascosta e che non deve rendere conto a nessuno» e che è «depositaria delle informazioni più sensibili di cui dispongono i governi e altre società».

Queste grandi società si sono costruite la loro reputazione lavorando per decenni con aziende di tutto il mondo, collaborando con le più importanti agenzie governative e con i governi (McKinsey, per dirne una piuttosto recente, ha ad esempio fornito consulenza all’Immigration and Customs Enforcement degli Stati Uniti durante l’attuale amministrazione Trump, su come aumentare i rimpatri dei migranti irregolari): stabilire quante e quali siano le collaborazioni non è però possibile, visto che queste multinazionali non rivelano i nomi dei loro clienti. Cosa che non permette di essere a conoscenza dei loro insuccessi come dei loro successi, né di comprendere con trasparenza gli enormi interessi che muovono, né come i partner che le compongono si dividano gli utili.

Tra le società più famose che offrono servizi di consulenza mista (revisione di bilancio, consulenza strategica, operativa, ecc.) ci sono invece le cosiddette Big Four: PricewaterhouseCoopers, Ernst & Young, Deloitte Touche Tohmatsu e KPMG, spesso composte, a loro volta, da altre società con specifiche competenze.

In Italia, secondo i dati più recenti di Confindustria Assoconsult (l’associazione che rappresenta le imprese di consulenza di management più importanti), questo settore è composto da quasi 23 mila imprese, che generano un fatturato di circa 4,5 miliardi di euro (in aumento dell’8,6 per cento rispetto al 2018) e impiegano 45 mila persone. È un settore molto frammentato, ma ci sono gruppi di grandi dimensioni che concentrano una quota di mercato pari quasi al 55 per cento e una miriade di piccole e micro imprese che compongono il 98 per cento delle aziende attive sul mercato stesso e che si dividono il resto. I progetti di consulenza legati all’IT sono oggi la tipologia più richiesta sul mercato italiano, ed è il settore industriale il principale utilizzatore dei servizi di consulenza.

Il prezzo medio di una giornata di consulenza è 780 euro, ma è molto elevato il divario nelle tariffe medie delle diverse classi dimensionali delle società di consulenza: le grandi vendono i propri servizi in media al 70 per cento di più delle micro: 905 euro al giorno contro 538 euro.

Il consulente
Andrea Iovene è un ex dipendente di una società di consulenza finanziaria e oggi è uno dei responsabili dell’Ipe (Istituto per ricerche ed attività educative). Ha scritto un libro intitolato Grazie… Le faremo sapere, il cui sottotitolo è molto esplicativo: Come affrontare i colloqui di selezione nelle società di consulenza.

Per inquadrare la figura professionale del consulente, Iovene spiega così cosa viene valutato durante un colloquio: «La parte tecnica per una figura neolaureata è pari al 20 per cento. Quello su cui veramente si dà una valutazione è il potenziale, inteso come insieme di soft skills: come cioè, di fronte a un problema complesso, il candidato destruttura quel problema e lo risolve pezzetto per pezzetto, come si presenta e comunica, come si relaziona, come reagisce quando è sotto pressione, come sa lavorare in un gruppo, e così via. Tutto questo è predittivo: serve cioè a capire se quando metterò il candidato di fronte a un cliente, quel cliente lo perderò oppure no».

I metodi per arrivare a fare queste valutazioni sono diversi, ma ciò che conta, spiega ancora Iovene, è il modo in cui si cerca di risolvere il caso: «Interessa la forma mentis, non tanto che quel caso venga risolto», e sarà il recruiter (il selezionatore di personale) a dare un giudizio, in base a parametri di valutazione soprattutto soggettivi. Sul sito italiano di Boston Consulting Group, nella sezione dedicata al colloquio, si dice esplicitamente che di fronte a un caso da risolvere «non ci sono risposte giuste o sbagliate: quello che valutiamo è il tuo modo di pensare, le tue capacità strategiche e la tua abilità nell’avvalorare le tue raccomandazioni».

Per quanto riguarda i titoli di studio necessari per fare questo mestiere, in Italia e in Europa contano molto una laurea in Economia o Ingegneria: «Ma vengono valutate molto bene anche le lauree in Matematica e in Fisica, mentre si hanno poche possibilità con una laurea nelle materie umanistiche, perché l’aspetto economico aziendale è poco conosciuto». La maggior parte della formazione avviene comunque lavorando, spiega Iovene: «Questo mestiere si impara con l’esperienza sul campo ed è fondamentale la reputazione che una persona si costruisce, così come i brand per i quali ha già lavorato».

Poiché non stiamo parlando di aggiustare un ponte, per cui ci serve sapere quanti bulloni sono necessari, ciascun consulente potrà avere visioni, principi e dunque proposte di risoluzione differenti: il lavoro di consulenza è insomma strettamente legato alla personalità di chi vi è coinvolto. In generale il consulente è un professionista a cui sono richieste competenze tecniche, ma soprattutto relazionali e comportamentali. Ed è un professionista senza obbligo di risultato, per il quale quindi conta moltissimo la reputazione: come un avvocato, lo paghi comunque anche se perdi la causa, con il rischio che se il risultato non c’è lui fatichi poi a trovare nuovi clienti.