Perché discutiamo dell’immunità di gregge

Nel Regno Unito si sta parlando di affrontare il coronavirus con priorità diverse, ma molti la giudicano una scelta troppo incerta e rischiosa

Oxford Circus, Londra, il 13 marzo (Dan Kitwood/Getty Images)
Oxford Circus, Londra, il 13 marzo (Dan Kitwood/Getty Images)

“Immunità di gregge” è un termine medico in circolazione da circa un secolo: si riferisce alla possibilità di immunizzare – solitamente attraverso un vaccino – una quota così alta di una popolazione che basti a evitare la diffusione del contagio anche per la restante parte, eliminando una malattia infettiva o limitando al minimo i rischi che comporta.
Se un gran numero di appartenenti a una popolazione è immune alla malattia, è il ragionamento che ci sta dietro, ci sono meno probabilità che altri individui suscettibili entrino in contatto con il virus, che non trovando quindi nuovi soggetti ricettivi circola meno, riducendo il rischio complessivo per la collettività.

La soglia minima dell’immunità varia a seconda degli agenti patogeni (come i virus). Per quelli a grande diffusione è intorno al 95 per cento. Dell’immunità di gregge si era parlato pubblicamente negli anni scorsi, per esempio, a proposito del morbillo e del rischio generato per tutti dai contrari alle vaccinazioni, e se ne sta riparlando molto negli ultimi giorni per l’epidemia di coronavirus.

Nel caso della malattia attuale (COVID-19) l’immunizzazione di una grande maggioranza della popolazione potrebbe essere raggiunta solo attraverso il suo contagio, non essendo ancora disponibili vaccini: e assumendo – ipotesi al momento tutta da verificare – che venire contagiati e guarire riesca a proteggere nel lungo periodo dal coronavirus e dalle sue eventuali varianti.

A mettere al centro della discussione l’immunità di gregge sono stati soprattutto – negli ultimi due giorni – gli interventi di esponenti del governo britannico e di suoi consulenti scientifici, che l’hanno rivendicata come strategia da adottare in parziale alternativa a quella seguita da Cina e Italia, fatta di misure drastiche di isolamento della popolazione per ridurre il rischio dei nuovi contagi (la maggior parte dei paesi del mondo sembra invece essersi mossa fino agli ultimi giorni in modi piuttosto improvvisati, senza grandi valutazioni sul lungo periodo).

Per questi paesi, Italia compresa – ferma restando una necessaria duttilità rispetto alle evoluzioni dello scenario e alle variabili al momento ignote – l’obiettivo delle estese e severe quarantene ordinate è di rallentare la diffusione del contagio in modo da poter gestire (e idealmente guarire) con le proprie strutture sanitarie più malati possibili. Questo obiettivo “protettivo” mette a sua volta in conto che un risultato finale possa essere l’immunità di gregge, seppure in un tempo piuttosto lungo. Il rallentamento dei contagi consente di prendere tempo per gestire i malati – nonché l’emergenza sociale creata dal prolungato isolamento – senza sovraccarichi eccessivi per gli ospedali, fino a che non venga reso disponibile un vaccino, scadenza su cui non ci sono tempi chiari.

Per i pareri che sembrano al momento sostenere l’azione del governo britannico (pur con incertezze e precarietà), invece, l’immunità di gregge attraverso la diffusione del contagio sembra essere l’obiettivo prioritario, mediata da interventi di contenimento destinati solo alla popolazione più a rischio. Come ha scritto in un thread su Twitter lo psicologo del comportamento sociale Ian Donald, questo è però un progetto che ha bisogno di continui assestamenti e di un coordinamento molto raffinato: l’idea è gestire contemporaneamente la diffusione “innocua” del contagio presso la gran parte della popolazione che non dovrebbe correre rischi gravi (da qui la scelta del governo di non chiudere le scuole) e anche la quarantena e la tutela medica per gli individui a rischio o i malati gravi.

Le obiezioni a questo progetto sono molte, e molte ne stanno arrivando in queste ore. Una è semplicemente politica e si riferisce alla difficoltà di gestione, anche in termini di comunicazione, di una simile complessa strategia da parte della leadership britannica. Lo studioso di modelli matematici Adam Kucharski, spesso citato e interpellato in questi giorni nel Regno Unito e altrove, si è detto a disagio con il messaggio che l’immunità di gregge sia l’obiettivo principale, spiegandolo anche lui in alcuni tweet. Un’altra riguarda il discostarsi di questo approccio da quello seguito dagli altri paesi, e da quelli promossi dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (che infatti lo sta criticando): con rischi di mancato coordinamento sulla riuscita di ciascuna delle iniziative nazionali. Un’altra ancora riguarda la sua attuabilità pratica in una situazione così di emergenza.

Diversi ricercatori e virologi, come Roberto Burioni in Italia, ricordano poi che il comportamento del virus è ancora così ignoto che un investimento sull’immunità di gregge attraverso il contagio appare completamente avventato. Molti hanno inoltre segnalato come i rischi maggiori di una gestione non perfetta di questo piano finiscano per correrli gli individui più vulnerabili, per i quali la priorità di protezione rischia di passare in secondo piano.

Per contro, i sostenitori di questo approccio che mira a raggiungere un obiettivo in tempi più rapidi (a costi potenzialmente alti di vite) sostengono che – seguendo le ipotesi formulate che prevedono che il virus contagi fino al 60-80 per cento della popolazione – la quarantena e le limitazioni estreme introdotte in Cina e in Italia non permetteranno che si raggiunga l’immunità di gregge se non in tempi lunghissimi, e se queste limitazioni venissero rimosse o attenuate prima (in presenza di risultati incoraggianti), l’accelerazione del contagio e le difficoltà di gestione dei malati tornerebbero immediatamente. E che quindi si debbano mettere in conto tempi molto lunghi, con tutte le conseguenze negative che si possono immaginare.

A fare la differenza sul lungo periodo sarebbe l’eventuale scoperta di un vaccino, e i suoi tempi; a farla sul breve potrebbero essere le malattie e le morti da coronavirus nel Regno Unito nei prossimi giorni e settimane, e le reazioni pubbliche a “perdere un proprio caro”, come ha annunciato giovedì Boris Johnson in un video molto ripreso dai giornali di mezzo mondo.