La storia della liberazione di Auschwitz

Il 27 gennaio di 75 anni fa i soldati dell'Armata Rossa misero fine al più grande omicidio di massa della storia avvenuto in un unico luogo

Una foto scattata subito dopo la liberazione dai soldati dell'esercito sovietico nel gennaio del 1945: un gruppo di bambini indossa le uniformi del campo (AP Photo)
Una foto scattata subito dopo la liberazione dai soldati dell'esercito sovietico nel gennaio del 1945: un gruppo di bambini indossa le uniformi del campo (AP Photo)

Il 27 gennaio del 1945, 75 anni fa, i soldati sovietici dell’Armata Rossa liberarono il campo di sterminio nazista di Auschwitz, in Polonia, che era stato evacuato in precedenza. Quel giorno finì il più grande omicidio di massa della storia avvenuto in un unico luogo. Negli anni in cui il campo fu operativo vi furono rinchiusi 1,3 milioni di persone, e ne sopravvissero poche migliaia. Sui numeri non ci sono certezze, ma secondo i dati dell’US Holocaust Memorial Museum le SS tedesche uccisero almeno 960 mila ebrei, 74 mila polacchi, 21 mila rom, 15 mila prigionieri di guerra sovietici e 10 mila persone di altre nazionalità.

Molti vennero uccisi nelle camere a gas o sommariamente, altri morirono a causa delle malattie contratte nel campo, per la fame o a causa dei lavori massacranti a cui venivano sottoposti, mentre altri ancora furono uccisi nel corso di esperimenti medici in cui venivano utilizzati come cavie. In ricordo della liberazione di Auschwitz, nel 2005 l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha istituito la cosiddetta “Giornata della memoria”, una ricorrenza per commemorare tutte le vittime dell’Olocausto.

La storia del campo

Dopo l’invasione della Polonia da parte della Germania nel settembre del 1939 – che segnò l’inizio della Seconda Guerra Mondiale – e dopo l’invasione dell’Unione Sovietica da parte dei tedeschi (giugno 1941), le SS iniziarono a mettere in pratica operazioni di eliminazione di massa di intere comunità di ebrei. Nel 1941 fu introdotto l’uso di camere a gas mobili montate su autocarri e i nazisti aprirono diversi campi di sterminio. Un ruolo fondamentale nella cosiddetta “soluzione finale” lo svolse il campo di concentramento di Auschwitz, in Polonia. Faceva parte di un complesso più grande che comprendeva anche il campo di sterminio di Birkenau e il campo di lavoro di Monowitz. Ad Auschwitz-Birkenau, alla fine della primavera del 1943, funzionavano quattro camere a gas che utilizzavano la sostanza tossica nota come Zyklon B.

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Il campo di Auschwitz – detto Auschwitz I – era prettamente un campo di concentramento (Konzentrationslager) che poteva contenere circa 20mila prigionieri al massimo e fungeva da centro amministrativo di tutto il complesso. Qui erano detenuti principalmente prigionieri politici polacchi, prigionieri di guerra sovietici, criminali comuni tedeschi, prostitute, omosessuali, testimoni di Geova ed ebrei. Qui si stima che vennero uccise in tutto circa 70mila persone. Era all’ingresso di questo campo, inoltre, che si trovava la celebre scritta  “Arbeit macht frei” (“Il lavoro rende liberi”).

Il campo di Birkenau – detto Auschwitz II – si trovava a circa 3 km dal campo principale e poteva contenere fino a 100mila prigionieri: era invece un campo di sterminio vero e proprio (Vernichtungslager), ed è qui che venne rinchiusa e uccisa la maggior parte dei prigionieri ebrei. Monowitz – anche detto Auschwitz III – era invece un campo di lavoro (Arbeitslager) dove i prigionieri venivano sfruttati per lavorare alla costruzione di una nuova grande fabbrica chimica denominata Buna Werke, che però non entrò mai in produzione.

La liberazione di Auschwitz

Nell’estate del 1944, l’offensiva sovietica portò l’esercito fino alla Vistola, a circa 200 chilometri dal campo di concentramento di Auschwitz e all’inizio del 1945 ebbe inizio l’Operazione Vistola-Oder, l’offensiva dell’Armata Rossa per muovere verso il cuore della Germania. A quel punto, i vertici nazisti si resero conto della necessità di procedere con lo smantellamento del lager. Le forze sovietiche entrarono nel campo di Majdanek, vicino a Lublino, Polonia, nel luglio del 1944. Nell’estate del 1944, l’Armata Rossa conquistò anche le zone in cui si trovavano i campi di sterminio di Belzec, Sobibor e Treblinka. Nel novembre del 1944, due mesi prima della liberazione, il ministro dell’interno nazista Heinrich Himmler ordinò di distruggere le camere a gas di Birkenau rimaste ancora in funzione (ma non quelle di Auschwitz) e il 17 gennaio del 1945 ad Auschwitz venne fatto l’ultimo appello generale dei prigionieri.

La SS cominciarono a evacuare il campo a metà gennaio 1945. Migliaia di prigionieri furono uccisi mentre altri, circa 60 mila, furono costretti a un’evacuazione forzata e a prendere parte a quelle che sarebbero poi divenute famose come “marce della morte”. Le marce procedevano in due diverse direzioni: verso nord-ovest, fino a Gliwice, per 55 chilometri lungo i quali venivano raccolti anche i prigionieri dei sottocampi dell’Alta Slesia Orientale (Bismarckhuette, Althammer e Hindenburg); e verso ovest, per circa 60 chilometri, in direzione di Wodzislaw. Durante il cammino, le SS spararono a chiunque cedesse e non fosse più in grado di proseguire: è stato calcolato che circa 15 mila prigionieri siano morti durante queste marce. Chi sopravviveva veniva invece caricato su treni merci e portato nei campi di concentramento in Germania.

Il 27 gennaio quando verso mezzogiorno le prime truppe sovietiche del generale Kurockin entrarono ad Auschwitz trovarono circa 7 mila prigionieri che erano stati lasciati nel campo. Molti erano bambini e una cinquantina di loro aveva meno di otto anni (erano sopravvissuti perché erano stati usati come cavie per la ricerca medica). I sovietici trovarono anche cumuli di vestiti e tonnellate di capelli pronti per essere venduti. E poi occhiali, valigie, utensili da cucina e scarpe: il museo di Auschwitz, tra le altre cose, possiede più di 100 mila paia di scarpe.

L’arrivo dei soldati russi è stato descritto da Primo Levi nel primo capitolo di La Tregua, intitolato “Il disgelo”. Levi si trovava nel lager di Monowitz:

La prima pattuglia russa giunse in vista del campo verso il mezzogiorno del 27 gennaio 1945. Fummo Charles ed io i primi a scorgerla: stavamo trasportando alla fossa comune il corpo di Sòmogyi, il primo dei morti fra i nostri compagni di camera. Rovesciammo la barella sulla neve corrotta, ché la fossa era ormai piena, ed altra sepoltura non si dava: Charles si tolse il berretto, a salutare i vivi e i morti.

Erano quattro giovani soldati a cavallo, che procedevano guardinghi, coi mitragliatori imbracciati, lungo la strada che limitava il campo. Quando giunsero ai reticolati, sostarono a guardare, scambiandosi parole brevi e timide, e volgendo sguardi legati da uno strano imbarazzo sui cadaveri scomposti, sulle baracche sconquassate, e su noi pochi vivi.

A noi parevano mirabilmente corporei e reali, sospesi (la strada era più alta del campo) sui loro enormi cavalli, fra il grigio della neve e il grigio del cielo, immobili sotto le folate di vento umido minaccioso di disgelo.

Ci pareva, e così era, che il nulla pieno di morte in cui da dieci giorni ci aggiravamo come astri spenti avesse trovato un suo centro solido, un nucleo di condensazione: quattro uomini armati, ma non armati contro di noi; quattro messaggeri di pace, dai visi rozzi e puerili sotto i pesanti caschi di pelo.

Non salutavano, non sorridevano; apparivano oppressi, oltre che da pietà, da un confuso ritegno, che sigillava le loro bocche, e avvinceva i loro occhi allo scenario funereo.

(…) Charles ed io sostammo in piedi presso la buca ricolma di membra livide, mentre altri abbattevano il reticolato; poi rientrammo con la barella vuota, a portare la notizia ai compagni. Per tutto il resto della giornata non avvenne nulla, cosa che non ci sorprese, ed a cui eravamo da molto tempo avvezzi.

(…) Il mattino ci portò i primi segni di libertà. Giunsero (evidentemente precettati dai russi) una ventina di civili polacchi, uomini e donne, che non pochissimo entusiasmo si diedero ad armeggiare per mettere ordine e pulizia fra le baracche e sgomberare i cadaveri. Verso mezzogiorno arrivò un bambino spaurito, che trascinava una mucca per la cavezza; ci fece capire che era per noi, e che la mandavano i russi, indi abbandonò la bestia e fuggì come un baleno. Non saprei dire come, il povero animale venne macellato in pochi minuti, sventrato, squartato, e le sue spoglie si dispersero per tutti i recessi del campo dove si annidavano i superstiti.

A partire dal giorno successivo, vedemmo aggirarsi per il campo altre ragazze polacche, pallide di pietà e di ribrezzo: ripulivano i malati e ne curavano alla meglio le piaghe. Accesero anche in mezzo al campo un enorme fuoco, che alimentavano con i rottami delle baracche sfondate, e sul quale cucinavano la zuppa in recipienti di fortuna. Finalmente, al terzo giorno, si vide entrare in campo un carretto a quattro ruote, guidato festosamente da Yankel, uno Häftling: era un giovane ebreo russo, forse l’unico russo fra i superstiti, ed in quanto tale si era trovato naturalmente a rivestire la funzione di interprete e di ufficiale di collegamento coi comandi sovietici. Tra sonori schiocchi di frusta, annunziò che aveva incarico di portare al Lager centrale di Auschwitz, ormai trasformato in un gigantesco lazzaretto, tutti i vivi fra noi, a piccoli gruppi di trenta o quaranta al giorno, e a cominciare dai malati più gravi.

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