È inutile che scrivete #nofilter nelle vostre foto

Per come funzionano oggi gli smartphone, non esistono foto "originali" o "pure"

Annette Riedl/picture-alliance/dpa/AP Images
Annette Riedl/picture-alliance/dpa/AP Images

Su Instagram e Facebook capita spesso di imbattersi in fotografie descritte dai loro autori come #nofilter, senza filtri. Di solito sono fotografie di panorami, tramonti bellissimi e cieli con colori vivi e coinvolgenti; e l’espressione “no filter” serve a indicare che quelle fotografie sono presentate così come sono state scattate, senza correzioni e migliorie digitali. L’espressione “no filter”, in altre parole, viene usata per indicare fotografie che ritraggono la realtà così com’è, suggerendo per contrasto che le foto ritoccate siano in qualche modo meno veritiere. È un’idea che si è diffusa molto insieme alla diffusione delle fotografie fatte con gli smartphone, ma tradisce una scarsa consapevolezza di come funzioni davvero la fotografia digitale, che non si può quasi mai dire “senza filtri”.

Che diavolo è un filtro
Nella fotografia analogica, quella fatta con macchine fotografiche a pellicola, i filtri sono vetri colorati che vengono messi davanti agli obiettivi per cambiare il modo in cui la luce arriva sulla pellicola, influenzando quindi il risultato finale. I filtri – semplificando molto – possono essere per esempio usati per cambiare il colore del cielo, dare una tinta alla fotografia o evitare riflessi fastidiosi di qualunque tipo. Lo stesso utilizzo dei filtri esiste anche nella fotografia digitale, almeno quelle fatta con le macchine fotografiche: quando si parla di fotografia fatta con gli smartphone, invece, per filtri si intende qualcosa di molto diverso, almeno per quanta riguarda il funzionamento.

Gli effetti di un filtro fotografico tradizionale (Robert Emperley/Flickr/Creative Commons)

Quando si carica una foto su Instagram – solo per citare il più popolare social network per la condivisione di fotografie – si ha la possibilità di aggiungere dei “filtri” che cambiano la fotografia di partenza. Se ne hanno a disposizione decine, ognuno dei quali altera in qualche modo i colori originali, il contrasto o la luminosità dell’immagine. Alcuni filtri danno all’immagine l’aspetto di una vecchia fotografia, altri la trasformano in bianco e nero: in tutti i casi, però, i filtri producono una notevole alterazione della fotografia iniziale, che in molti casi rende più gradevole o notevole l’immagine di partenza.

L’uso dell’espressione “no filter” si è diffuso per indicare l’assenza di questo tipo di elaborazione digitale: da una parte c’è la foto originale, dall’altra c’è un filtro che la cambia per renderla migliore. Le foto “no filter”, invece, sono quelle “belle senza bisogno di filtri”. Chi pubblica la foto di un tramonto “no filter” sta suggerendo che quel tramonto fosse così anche dal vivo, e che non siano stati usati “trucchi” per migliorarne la resa fotografica.

E quindi dove sta il problema?
Tutte le foto digitali sono possibili tramite la “traduzione” in immagine delle informazioni raccolte dai sensori delle macchine fotografiche. Al netto delle differenze che esistono tra diversi sensori, quindi, ogni fotografia implica sempre un’elaborazione di qualche tipo, al punto che la stessa fotografia può apparire diversa su schermi diversi: perché anche ogni schermo “legge” e ripropone le stesse informazioni in modi diversi.

La foto che vediamo sullo schermo del nostro smartphone dopo averla scattata non è dunque una riproduzione diretta e senza mediazioni di quello che abbiamo davanti nel mondo reale. È invece già il frutto di tantissimi tipi di correzioni digitali, che vengono applicate automaticamente dai software dei nostri telefoni per rendere più belle le foto che vengono scattate. È un aspetto della fotografia digitale che si è fatto ancora più importante negli ultimi anni, grazie all’utilizzo di sofisticati sistemi di intelligenza artificiale negli smartphone più moderni. Per i telefoni più recenti di Apple e Google, considerati quelli con le fotocamere migliori, le innovazioni più grandi non hanno riguardato i sensori fotografici – e quindi la raccolta delle informazioni sulla luce che stanno alla base della fotografia – ma si sono concentrate sullo sviluppo degli algoritmi che prendono quelle informazioni e le trasformano in immagini visibili.

I software di fotografia degli smartphone, per esempio, cercano automaticamente di bilanciare la luminosità delle zone più luminose e di quelle più buie di un’immagine, in modo che nella foto siano visibili entrambe. Se questa prima elementare correzione non avvenisse, molte foto tenderebbero ad avere zone così luminose da risultare solo “bianche” e zone così scure da sembrare solo “nere”, senza distinzione di forme e soggetti. Questo bilanciamento, in alcuni casi, viene fatto mettendo insieme più di una foto: una in cui si veda bene ciò che c’è nelle zone più luminose e una in cui si veda bene ciò che c’è nelle zone d’ombra. I modelli più recenti di smartphone fanno la stessa cosa con decine di foto, scattate automaticamente e poi fuse insieme per ottenerne una.

(Una presentazione di Apple in cui veniva mostrato il modo in cui il software degli iPhone unisce automaticamente più immagini per crearne una)

Allora le foto sono meno vere?
Questo tipo di correzioni automatiche delle immagini non è niente di nuovo per chi si occupa di fotografia digitale. Anche chi scatta fotografie con grosse e costose macchine fotografiche digitali è abituato a passare diverse ore davanti al computer per correggere e migliorare le sue immagini, partendo dalle informazioni “grezze” raccolte dai sensori. Con gli smartphone, queste correzioni sono arrivate ad essere molte di più e si producono automaticamente: anche la prima foto che vediamo sullo schermo del telefono dopo aver scattato, dunque, è già ben più che “filtrata”. Questo a volte può produrre risultati più simili a ciò che vedevamo con gli occhi, mentre a volte produce immagini molto diverse.

Ma anche in questo secondo caso, non c’è nulla di davvero nuovo per quanto riguarda la fotografia. Anche la fotografia analogica implica sempre una certa trasformazione della realtà, che sia per via dell’obiettivo che si usa o della pellicola che si sceglie: non c’è mai stato un momento della storia della fotografia in cui le fotografie corrispondevano esattamente a ciò che mostravano. Le prime fotografie della storia, per il semplice fatto di essere in bianco e nero, non riproducevano ciò che vedeva l’occhio del fotografo che le aveva scattate, ma più in generale, la scelta di pellicole e l’uso di sistemi per manipolare la luce e cambiare le immagini sono stati tra gli elementi più importanti dello sviluppo della fotografia per tutto il Novecento.

Il problema dell’espressione “no filter” è quindi l’idea che esistano foto “originali”, che mostrano le cose così com’erano al momento dello scatto. Non c’è naturalmente niente di male nel descrivere così le proprie foto, basta sapere che non c’è nessuna vera differenza con quelle a cui i filtri e tutte le correzioni possibili sono state applicate in un secondo momento.