Siamo tornati a vestirci di piume

Gli abiti piumati sono di moda ma hanno una lunga storia, da Robin Hood alle signore che giravano coi pappagalli impagliati sul cappello

Kaia Gerber alla sfilata di haute couture di Valentino, 4 luglio 2018
(Vittorio Zunino Celotto/Getty Images)
Kaia Gerber alla sfilata di haute couture di Valentino, 4 luglio 2018 (Vittorio Zunino Celotto/Getty Images)

Come il tulle e il leopardato, le piume sono tornate di moda da qualche anno e non sono ancora scomparse dalle sfilate e dalle vetrine dei negozi. Il loro impiego su vestiti, borse e scarpe non è un’invenzione recente, e secondo alcuni storici risale addirittura alla preistoria: T Mag – il mensile di lifestyle del New York Timesha raccontato quand’è iniziato, com’è cambiato e che forme ha oggi, quando alcune grosse aziende, tra cui Asos, hanno deciso di abbandonarlo per ragioni etiche.

Piume al Festival del cinema di Venezia:

Già uno studio condotto dalla Sezione di Paleontologia dell’Università di Ferrara pubblicato nel 2011 sostenne che l’uomo di Neanderthal, vissuto tra i 400 e i 40mila anni fa, prelevava le piume di grossi uccelli, come avvoltoi, aquile e cuculi, per usarle come decorazioni. Millenni dopo, nei tempi antichi, gli uomini e le donne si adornavano con le piume degli uccelli che trovavano in giro, per bellezza o durante i rituali. Spesso erano solo i più ricchi a poterlo fare, per esempio nell’Antico Egitto i nobili indossavano abiti drappeggiati con disegni complessi, frange e piume, e copricapi piumati; a Roma le donne portavano ventagli fatti di piume di pavone e i soldati indossavano alcuni tipi di elmo piumato, come quello Montefortino portato anche da Cesare, che aveva un pennacchio. Nel Medioevo donne e uomini continuarono a ornare alcuni cappelli di piume, come il bycocket, che ha forma di becco ed è quello, stando alla leggenda, di Robin Hood.

Le cose cambiarono con la scoperta del Nuovo Mondo, quando gli Europei abbandonarono le piume degli uccelli familiari per quelle degli esemplari esotici. A inizio Cinquecento le piume si vedevano raramente ma in pochi anni divennero un accessorio indispensabile per chi voleva ostentare potenza, ricchezza e modernità. Nei primi anni del secolo i ricchi borghesi delle città commerciali avevano già iniziato a ornare i cappelli di piume di pappagalli, gru e rondini. Nel 1522 l’ultima nave sopravvissuta alla spedizione di Ferdinando Magellano, la Victoria, ritornò in Spagna portando con sé alcuni esemplari di uccelli del Paradiso, originari della Nuova Guinea: le loro lunghe piume multicolori, spiega la giornalista Ligaya Mishan sul T Mag, fecero nascere il desiderio di ricoprirsi di penne esotiche e stravaganti e diedero il via a quello che l’università di Cambridge definisce un “impazzimento per le piume”.

Durante il Rinascimento riguardò soprattutto gli uomini: re Enrico VIII d’Inghilterra era noto per i suoi copricapi piumati mentre una volta Matthäus Schwarz, autore di quello che è considerato il primo libro di moda della storia, indossò un cappello con 32 piume di struzzo alto quasi mezzo metro e largo quasi un metro. Più i piumaggi erano stravaganti ed eccessivi più indicavano l’appartenenza di chi li portava alla classe agiata, centenaria o nata ai tempi delle Conquiste: erano il simbolo del potere che si estendeva oltremare. Anche gli artisti le indossavano spesso, come dimostrano molti dipinti e autoritratti, per rivelare il loro spirito eccentrico e creativo e alcuni comuni, come quello di Augusta, vietarono ai contadini e ai borghesi di indossare quelle di alcuni uccelli particolarmente pregiati.  Nel 1573 la moda era così diffusa che il dizionario di fiammingo e francese pubblicato dallo stampatore Plantin prevedeva delle parole per chi non si vestiva di piume: “senza piume” o “spiumato”. Intanto anche la lavorazione delle piume divenne un affare in mezza Europa, da Praga a Madrid.

Come tutte le mode anche questa cadde in disuso e a metà Seicento le piume restarono soltanto nelle divise dei corpi militari. Ancora oggi in Italia gli Alpini hanno un cappello con la piuma nera, di corvo, per i soldati, di aquila marrone per i sottoufficiali e di oca bianca per i superiori; i bersaglieri indossano un copricapo piumato inizialmente di cappone nero per le truppe e di struzzo color verde chiaro per gli ufficiali, che ora è di piume di Gallo d’India per tutti.

In Francia la moda ritornò per tutti ai tempi del Re Sole, nel resto del mondo proseguì quasi solo tra le donne, con copricapi esagerati ed elaborati. Spesso erano composizioni di parrucche e piume di struzzo, emu, anatra o pavone. Il London Times scriveva che in Regno Unito «ai tempi della regina Charlotte (1744-1818) le ragazze portavano un’unica piuma di struzzo troneggiante ma negli anni seguenti il numero di piume richieste aumentò». «La regina Vittoria odiava le piume piccoline» e durante il suo regno se ne portavano solitamente tre, quella al centro più alta, le donne sposate avevano invece diademi piumati. Anche la regina Maria Antonietta era un’appassionata del genere, che venne spazzato via dalla Rivoluzione francese con la sobrietà del gusto neoclassico. Poi arrivò la Restaurazione, che riportò i sovrani ai loro troni e con loro gli eccessi; in epoca Vittoriana sui cappelli delle donne potevano spuntare non solo composizioni di piumaggi ma anche interi uccelli impagliati. Nel 1886 un ornitologo raccontò di aver contato, durante una passeggiata a Manhattan, New York, 700 cappelli, 525 dei quali con sopra piume o uccelli.

I copricapi piumati raggiunsero l’apice con la vita in città: erano visti come un modo per riavvicinarsi alla natura ma ebbero disastrose conseguenze sull’ambiente. Gli uccelli erano considerati una risorsa illimitata e in pochi anni 67 specie si ritrovarono a rischio di estinzione, tra cui il gabbiano reale e la spatola rosata, dal piumaggio rosa; le piume di egretta, candide o nere, costavano più dell’oro. La situazione era peggiorata dal fatto che gli uccelli venissero cacciati quando il piumaggio raggiungeva lo splendore, ovvero nel periodo dell’accoppiamento, impedendo che si riproducessero o lasciando orfani i loro pulcini. Tra gli anni Settanta e Ottanta dell’Ottocento nacque in Regno Unito un movimento di protesta e di sensibilizzazione contro l’uccisione degli uccelli per le piume; spesso usava toni misogini, che attribuivano la strage alla vanità delle donne. Tra il 1869 e il 1880 il Parlamento britannico approvò quattro leggi per proteggere gli uccelli del Paese ma che non garantirono protezione a quelli esotici. Intanto a quei tempi a Londra erano impiegati nella lavorazione delle piume circa 20mila donne e duemila uomini.

Un movimento di sensibilizzazione simile era nato anche negli Stati Uniti e nel 1905 le Suffragette americane fondarono la Audubon Society, un’associazione ambientalista dedita alla protezione della natura che organizzò un imponente boicottaggio delle piume: produttori e negozianti definirono le sostenitrici “estremiste”, i politici si preoccuparono della potenziale perdita di posti di lavoro. Le piume erano lavorate soprattutto da immigrate italiane sfruttate: guadagnavano 2,50 dollari a settimana, l’equivalente di 75 dollari attuali. Le suffragette diedero il loro contribuito anche alla moda con un cappellino che venne chiamato audobonnet e che prevedeva solo un nastro di seta. Negli stessi anni la stilista francese Coco Chanel fece diventare popolari i suoi cappellini di paglia ornati solo di una piuma, oppure di nastri e fiori di raso, considerati scarni per l’epoca.

Secondo la storica della moda Kimberly Chrisman-Campbell, a inizio Novecento venivano uccisi ogni anno circa 300 milioni di uccelli usati nella moda parigina; soltanto nel 1902 in Francia venne venduta una tonnellata e mezza di piume di egretta, l’equivalente di 200 mila uccelli. Nel 1912 un cappello costava l’equivalente di circa 450 euro e in quell’anno vennero importate in Regno Unito piume di struzzo per il valore di 190 milioni di euro attuali. Le cose, perlomeno in Regno Unito, cambiarono dopo la Prima guerra mondiale, quando crollarono le importazioni dalla Francia, uno dei posti principali dove lavoravano i plumassier, cioè gli artigiani delle piume: passarono da 2,2 milioni di sterline nel 1913 a 200mila nel 1920. Un po’ c’entrava la guerra e un po’ le campagne ambientaliste, che iniziavano a dare risultati concreti anche negli Stati Uniti: qui nel 1918 venne approvato il Migratory Bird Treaty Act, che vietò la caccia, l’uccisione e il commercio di uccelli migratori, garantendo piena protezione a piume, uova, nidi di oltre 800 specie. Molte specie di uccelli selvaggi si ripopolarono, sui cappelli comparvero piume di galli, polli e struzzi e non più di egrette, cigni, aquile o colibrì. Negli anni Venti la moda si alleggerì e le piume, soprattutto di struzzo, restarono nei boa e nelle fascette legate in testa delle flapper, le ragazze disinibite degli anni Venti.

Oggi le aziende di moda usano solo piume di uccelli allevati per la carne, che sono quindi un prodotto di scarto dell’industria alimentare; oppure vengono prelevate da uccelli vivi, come gli struzzi, a cui crescono in continuazione. Esistono anche piccoli allevamenti, particolarmente attenti al benessere degli animali, che vendono soltanto le piume raccolte dalla muta dei loro uccelli, cioè quelle che perdono al cambio di stagione e che vengono sostituite da altre. Negli ultimi anni alcune grosse aziende, tra cui Asos e Topshop, hanno comunque deciso di non vendere più piume e prodotti che le contengono.

Nonostante siano prodotti di origine animale, le piume non hanno ancora fatto nascere un dibattito paragonabile a quello sulle pellicce e sulle pelli, anche perché in alcuni casi non è necessario uccidere gli uccelli per ottenerle. Nonostante questo PETA, una delle maggiori associazioni animaliste al mondo, le condanna come risultato di una pratica crudele e ha denunciato in numerosi rapporti maltrattamenti anche sugli struzzi. Tra questi alcuni riguardavano allevamenti del Sudafrica, che fornisce circa il 60 per cento delle piume di struzzo di tutto il mondo, che sono tra le più usate. In generale «le piume degli struzzi sono come la lana per le pecore» spiega Hazel Jonker, iscritta ai Verdi e moglie del proprietario di uno dei più antichi e grandi allevamenti di struzzi del Sudafrica, noto anche per la cura con cui tratta i suoi animali.

Le piume sono ricomparse nelle sfilate di prêt-à–porter (cioè i vestiti da portare ogni giorno) dell’autunno 2017 (che presentavano le collezioni per la primavera/estate del 2018) soprattutto di Saint Laurent, Maison Margiela e Moschino. Si sono viste nella haute couture, cioè l’alta moda francese, del 2018 e poi sono spuntate ovunque nelle successive collezioni prêt-à–porter per l’autunno e l’inverno scorsi e nella stagione haute couture per l’inverno, soprattutto con Valentino, Fendi, Chanel e Armani Privé. Secondo la rivista Glamour il grande ritorno delle piume è merito della collezione primavera/estate 2019 dello stilista statunitense Marc Jacobs (presentata nel settembre 2018 a New York), ricca in piumaggi multicolori.

Da lì le hanno indossate cantanti, modelle e influencer del momento, da Kendall Jenner a Zendaya, da Gigi Hadid a Beyoncé, e sono spuntate tra i consigli per la nuova stagione di tutte le riviste e i siti di moda.

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