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  • Venerdì 26 luglio 2019

Sei famose “maledizioni” sportive

Storie che i tifosi si raccontano per giustificare decenni di sconfitte e sfortune, da leggere mettendo da parte la razionalità

Un gatto nero davanti alla panchina dei Chicago Cubs nel 1969 (AP Photo/Dave Pickoff, File)
Un gatto nero davanti alla panchina dei Chicago Cubs nel 1969 (AP Photo/Dave Pickoff, File)

Il tifo sportivo, soprattutto negli sport di squadra più antichi e popolari, è spesso un fenomeno irrazionale che si allontana dagli aspetti prettamente sportivi e assume altri significati, culturali e di appartenenza. In pochi altri ambiti si riuniscono regolarmente così tante persone di diverse estrazioni sociali, che bene o male fanno le stesse cose per qualche ora. Negli stadi, fra migliaia di spettatori, sono ancora permessi comportamenti che non verrebbero tollerati in altri ambiti della società civile, e anche per questo in molte realtà si fanno ancora i conti con episodi violenti e di intolleranza. La natura del tifo, tuttavia, crea anche identità collettive associate a colori, tradizioni e leggende sportive, come le “maledizioni” che impedirebbero a certe squadre di vincere, popolari soprattutto nei campionati nordamericani. Siamo tutti d’accordo che per smettere di perdere basti vincere, e che non ci siano “incantesimi” di alcun tipo, ma quando i digiuni di vittorie diventano decennali, o addirittura centennali, i tifosi smettono di spiegarseli con la sola logica e creano storie spesso affascinanti.

La maledizione dei Black Sox
Rotta (1919-2005)

I White Sox fotografati durante un interrogatorio nel 1921 (AP Photo)

Nel 1919 le squadre della Major League, il più importante campionato di baseball al mondo, ritrovarono i loro giocatori di ritorno dalla guerra in Europa. Le più quotate per la vittoria erano Boston Red Sox, New York Giants, Philadelphia Athletics e Chicago White Sox. Quest’ultimi conclusero la stagione regolare con il record di vittorie della loro lega e il secondo di tutto il campionato, ma avevano un problema: il loro proprietario, Charles Comiskey, autentica istituzione del baseball americano. Comiskey era noto per l’estrema attenzione con la quale gestiva i conti della squadra e si era guadagnato la fama di grande avaro. I suoi giocatori erano ritenuti generalmente sottopagati, per essere una delle squadre più vincenti e popolari del campionato, e non avevano alcun potere contrattuale: in quegli anni infatti se rifiutavano un contratto potevano perdere automaticamente il diritto di giocare tra i professionisti e rimanere a lungo senza squadra.

Nello stesso anno Arnold Rothstein, esponente di spicco della mafia ebraica newyorkese, ritenuto uno dei primi – se non il primo – ad aver sfruttato le opportunità create dal proibizionismo negli Stati Uniti, venne al corrente del crescente malumore fra i giocatori dei White Sox. Sfruttando il risentimento nei confronti del proprietario, pagò otto di loro per lasciare vincere le finali del campionato del 1919 agli avversari, i Cincinnati Reds. Dalla combine nacque poi uno scandalo nazionale che per la cultura sportiva americana divenne la “maledizione” dei Black Sox, i calzini bianchi anneriti dalla truffa. Dopo i fatti del 1919 la squadra di Chicago tifata dall’ex presidente Barack Obama impiegò 40 anni per tornare a giocare le World Series e addirittura 86 per vincerle di nuovo.

Qui la storia completa dello scandalo dei Black Sox.

La maledizione del Bambino
Rotta (1918-2004)

Babe Ruth nel 1935 (General Photographic Agency/Getty Images)

Dopo aver vinto cinque volte le World Series all’inizio del Novecento, i successi dei Boston Red Sox si interruppero dal 1918 per ben 86 anni, un periodo di sfortune e depressione che divenne leggendario nel baseball americano e noto anche come la “maledizione” del Bambino, perché attribuito superstiziosamente alla decisione inaspettata di vendere il grandissimo campione Babe Ruth (detto Bambino) alla squadra rivale dei New York Yankees nel 1919. Dal suo arrivo, gli Yankees cominciarono peraltro a vincere e non smisero più, diventando la squadra di maggior successo di sempre, mentre lui divenne un vero e proprio eroe della cultura sportiva americana.

Nel 2004 i Red Sox riuscirono nuovamente a vincere le World Series battendo i Cardinals di Saint Louis. Fu un evento sportivo e popolare memorabile, commentato e dibattuto con meraviglia ed eccitazione in tutti gli Stati Uniti. Nel resto del mondo, la straordinarietà dell’evento è stata citata nella serie televisiva Lost e nel film L’amore in gioco, adattamento americano del romanzo Febbre a 90° di Nick Hornby. La “maledizione” del Bambino venne definitivamente allontanata dalle nuove vittorie ottenute nel 2007, nel 2013 e nel 2018, grazie alle quali i Red Sox sono diventati la squadra di baseball più vincente del ventunesimo secolo.

La maledizione dello Yankee Stadium
Non riuscita (2008)

Gli operai disseppelliscono la maglia dei Boston Red Sox dallo Yankee Stadium (AP Photo/Frances Roberts)

Nel 2008 un operaio di origini italiane, Gino Castagnoli, impiegato nella costruzione del nuovo Yankee Stadium nel quartiere newyorchese del Bronx, seppellì sotto il cemento una maglia del giocatore dominicano David Ortiz, dei Boston Red Sox, acerrimi rivali degli Yankees fin dai tempi della “maledizione” del Bambino. La proprietà degli Yankees lo venne a sapere e con l’aiuto di altri operai del cantiere decise di mettere in scena una piccola cerimonia per il recupero della maglia. Ad aprile dello stesso anno gli operai scavarono con i martelli pneumatici nel punto dello Yankee Stadium dove Castagnoli, tifoso dei Red Sox, aveva seppellito la maglia sperando di portare sfortuna ai rivali: la trovarono sotto mezzo metro di cemento. La squadra decise successivamente di metterla in vendita e di devolvere il ricavato in beneficenza. L’anno dopo vinse le World Series.

La maledizione di Bela Guttmann
In corso (1962-)

Bela Guttmann tra i giornalisti allo stadio White City di Londra nel 1962 (Keystone/Getty Images)

Il 14 maggio 2014 la squadra di calcio portoghese del Benfica venne battuta a Torino dal Siviglia nella finale di UEFA Europa League. Fu l’ottava finale continentale consecutiva persa dal Benfica, la squadra di club ad aver perso più finali nella storia del calcio europeo. L’ultima vittoria internazionale dei portoghesi era stata quella nella Coppa dei Campioni del 1962, quando aveva battuto 5-3 il Real Madrid vincendo il trofeo per il secondo anno consecutivo.

Quando si parla delle frequenti sconfitte del Benfica nelle finali europee, spunta sempre fuori il nome di Bela Guttmann, l’allenatore ungherese di origine ebraica che allenò la squadra nel suo periodo di maggior successo. Guttmann era considerato un maestro della tattica, un fine psicologo e un grande intrattenitore, ma era anche un tipo un po’ strano: quando allenava il Servette in Svizzera, per esempio, si inventò di aver vinto il campionato italiano. Nel 1961 con i portoghesi vinse la Coppa dei Campioni. L’anno successivo si ripeté, grazie anche alla presenza del fuoriclasse Eusebio. Nella seconda stagione in campionato arrivò terzo. Quando gli chiesero come mai il campionato non era andato bene, rispose: «Il Benfica non ha il culo per sedersi su due sedie», una frase che diventò famosa tanto quanto la “maledizione” che lanciò poco dopo ai dirigenti.

Alla fine della stagione 1961/62 Guttmann chiese ai dirigenti del Benfica un premio per la vittoria della Coppa dei Campioni, la seconda in due anni, ma la società si rifiutò. Guttmann decise così di andarsene – da tempo circolavano voci, da lui alimentate, su un suo trasferimento in Inghilterra – e disse ai dirigenti: «Da qui a cento anni nessuna squadra portoghese sarà due volte campione d’Europa e il Benfica senza di me non vincerà mai una Coppa dei Campioni». La prima affermazione non si rivelò vera: il Porto ha infatti vinto due volte la Coppa dei Campioni, nel 1987 e nel 2004. Ma la seconda è ancora lì, e i tifosi del Benfica temono che possa andare avanti fino al 2062.

La maledizione di Billy Goat
Rotta (1945-2016)

Sam Sianis, figlio del fondatore del locale Billy Goat di Chicago (AP Photo)

Durante le World Series del 1945 William Sianis, proprietario del locale Billy Goat Tavern e tifoso dei Cubs, fu allontanato dalle tribune del Wrigley Field di Chicago. Sianis era solito portarsi in tribuna anche una capra, una trovata goliardica con cui promuoveva la sua attività commerciale. Quella volta però i suoi vicini di posto si lamentarono dell’odore dell’animale, che fu cacciato dalle tribune insieme al suo proprietario. Uscendo dallo stadio, Sianis disse: «Quei Cubs, non vinceranno mai più». Anni dopo la famiglia di Sianis sostenne che mandò anche un telegramma al proprietario dei Cubs, Philip K. Wrigley, in cui scrisse: «Perderete queste World Series e non ne vincerete mai più. Non vincerete mai più le World Series perché avete insultato la mia capra».

I Cubs, squadra della terza città più grande degli Stati Uniti, non vinsero le World Series per 108 anni, riuscendo a interrompere la “maledizione” soltanto nel 2016, dopo aver provato in tutti i modi a farsi perdonare. Intere generazioni di tifosi non videro mai la loro squadra vincere un campionato. Dal 1945 al 2016 non ci arrivarono nemmeno vicini, mancando sempre la qualificazione alle World Series. I tifosi dovettero invece assistere alla vittoria nel 2005 dei rivali cittadini, i White Sox, peraltro anche loro dopo un lunghissimo digiuno. Nel 2015 i Cubs arrivarono alle finali di lega, perdendole, e lo stesso successe nel 2003, ai tempi della famosa partita persa anche a causa dell’errore di Steve Bartman, il tifoso che intralciò un giocatore finendo con il rovinare la partita e la sua vita. L’anno dopo un ristoratore di Chicago comprò la pallina intercettata da Bartman per oltre 100.000 dollari, e dopo averla messa in mostra per un po’, decise di distruggerla con una scarica elettrica sperando di rompere la “maledizione” e guadagnare un po’ di pubblicità.

La maledizione del Colonnello
In corso (1985-)

Una statua del Colonnello Sanders all’esterno di un KFC (Getty Images)

Nel 1985 i tifosi della squadra di baseball di Osaka degli Hanshin Tigers festeggiarono tutta la notte la vittoria del loro primo campionato giapponese. Durante i festeggiamenti un gruppo di tifosi passò davanti a un ristorante della catena americana di fast food Kentucky Fried Chicken e, chissà per quale motivo, alcuni di loro decisero di sollevare la statua del fondatore della catena, il colonnello Harland Sanders, posta all’esterno del locale e gettarla nel fiume Dotonbori. Da quella notte gli Hanshin Tigers passarono un ventennio terribile in cui conclusero quasi tutti i campionati fra gli ultimi posti. Tornarono a giocare le finali soltanto nel 2003, ma furono battuti da Fukuoka, e poi nel 2005, ma furono battuti da Chiba. Nel 2009 alcuni operai ritrovarono la statua del colonnello Sanders sul letto del fiume. Questa venne recuperata e portata dai tifosi dei Tigers a un monaco di un santuario shintoista nei pressi del loro stadio a Osaka. Il monaco dichiarò rotta la “maledizione”, ma nonostante questo i Tigers stanno ancora aspettando una vittoria.