• Libri
  • Domenica 9 giugno 2019

Di orsi polari, notizie false e problemi veri

Un estratto da "The Game Unplugged", lo spin-off dell'ultimo libro di Alessandro Baricco sul cambiamento digitale

di Matteo De Giuli

(National Geographic)
(National Geographic)

L’editore Einaudi/Stile Libero ha pubblicato una raccolta di saggi di autori diversi dedicati ai temi del cambiamento digitale e pensati come risposte e arricchimenti al libro di Alessandro Baricco The Game, pubblicato lo scorso ottobre. Il nuovo libro si chiama The Game Unplugged, e i testi vanno dall’analisi di alcuni specifici aspetti di internet, ai racconti autobiografici di rapporti con la Rete, alle riflessioni più eterogenee. Uno degli articoli più interessanti, di Matteo De Giuli, è più legato all’attualità e mette in relazione il tema della difficoltà della comunicazione e del coinvolgimento del pubblico sui temi del riscaldamento globale con i meccanismi attraverso i quali si diffondono le informazioni sui social network e i media digitali. Comincia così.

*****

Il 5 dicembre 2017, Paul Nicklen, uno dei fotografi più famosi al mondo, pubblica un video su Instagram. In un’isola della tundra canadese senza neve né ghiaccio, un orso polare magrissimo rovista tra due fusti di latta arrugginita sperando di trovare qualcosa da mangiare. Ha il pelo a chiazze, i muscoli in atrofia, le zampe gonfie e la bava alla bocca. «Ecco che aspetto ha la fame», scrive Nicklen nella didascalia. Secondo gli scienziati la popolazione di 25.000 orsi polari rischia l’estinzione entro la fine del secolo. Per sconfiggere l’apatia e convincerci a fare qualcosa – è il ragionamento di Nicklen – forse dobbiamo iniziare a immaginarceli tutti e 25.000 così.
Il 7 dicembre, il sito statunitense di National Geographic riprende il video, ci inserisce una funerea melodia al pianoforte e aggiunge una didascalia sopra le immagini: «Ecco che aspetto ha il cambiamento climatico». Le parole «cambiamento» e «climatico» sono in risalto, colorate con il giallo tipico della testata.
Così impacchettato il video è pronto per diventare virale. Oggi è il contenuto più condiviso di sempre di National Geographic: 2,5 miliardi di visualizzazioni. Sgomitando per avere qualche visita in più rispetto agli altri siti, giornali e riviste rilanciano il video con titoli carichi di pathos: «Piangerete anche voi guardando un orso polare ucciso dai cambiamenti climatici».

Mentre il video continua a circolare, la verità raccontata da quelle immagini inizia a sfaldarsi. I primi dubbi, avanzati praticamente subito dai quotidiani canadesi, si diffondono grazie agli interventi di qualche biologo marino su Twitter. L’orso non sta morendo per colpa del ghiaccio scomparso: in quelle isole, d’estate, il ghiaccio non c’è mai stato. Probabilmente l’animale ha qualche malattia, forse un tumore, oppure si è ferito a una zampa e per questo non riesce più a cacciare. Il destino di quello specifico orso, insomma, non è colpa del riscaldamento globale – e d’altra parte quella frase, «Ecco che aspetto ha il cambiamento climatico», Paul Nicklen non l’ha neanche mai scritta.

Già il 12 dicembre la BBC pubblica un articolo che mette in chiaro le cose. National Geographic, con più lentezza, alla fine ammetterà di aver forzato la mano, con un lungo pezzo di scuse e spiegazioni. Troppo tardi, perché nel frattempo centinaia di negazionisti climatici si sono fiondati sulla vicenda, eleggendola a esempio tonante delle mistificazioni dei media mainstream. Giornalisti e scrittori, in combutta con gli scienziati di tutto il mondo, mentirebbero sull’effettiva gravità delle questioni ambientali, per interessi personali, ideologici, economici e politici. «Ecco perché non possiamo fidarci di voi» è uno dei commenti con più like al video, oggi.

Riavvolgiamo il nastro. Il punto di partenza di questa storia sono tre punti che possiamo considerare saldi.
1. «Il riscaldamento del pianeta negli ultimi decenni è stato causato principalmente dalle attività umane che hanno aumentato la quantità di gas serra nell’atmosfera». Lo dico usando le parole di una dichiarazione congiunta delle Accademie delle Scienze di Brasile, Canada, Cina, Francia, Giappone, Germania, India, Italia, Regno Unito, Russia e Stati Uniti.
2. I primi effetti del riscaldamento globale si iniziano già a vedere, e tra questi c’è la sempre minore copertura dei ghiacci marini dell’Artide, registrata da decine di ricerche attendibili.
3. C’è una forte correlazione tra la moria di orsi polari e lo scioglimento dei ghiacci.
Quell’orso vagava in effetti in un’isola del Circolo polare artico, una delle prime zone a venir colpite dal soqquadro climatico di questi anni. La sua storia però aveva solo un rapporto di lontana parentela con il riscaldamento globale. Gli editor di National Geographic hanno manomesso il contesto di quel video per far credere che la misera sorte di quella bestia fosse invece parte della stessa narrazione dei tre punti elencati. Volevano portare visite al loro sito, ma possiamo immaginare che lo abbiano fatto almeno in parte in buona fede, cercando nell’orso un simbolo che desse «voce alla causa della comunità scientifica», per «sensibilizzare» i propri lettori. Alla fine, però, milioni di persone hanno scoperto che la cornice costruita attorno alle immagini di quel video era un inganno. Molti di loro magari avevano un’idea ancora vaga sui cambiamenti climatici e di sicuro almeno qualcuno di loro (qualche migliaia?) avrà finito per mettere in dubbio, assieme al video, la veridicità di quei tre punti saldi che in partenza sembravano intoccabili.

Il video dell’orso polare denutrito nasce su Instagram, diventa virale su Facebook, viene analizzato su Twitter e finisce per essere rovesciato nei commenti di YouTube. È un caso di studio interessante non solo per l’epic fail comunicativo, ma anche perché ci permette di riflettere su un paio di aspetti chiave che riguardano le difficoltà di comunicare i cambiamenti climatici online.

Davanti alle immagini.
Su Instagram il tempo di interazione con un contenuto, video o foto – più didascalia lunga a piacere, che in pochi leggono –, si può ridurre a meno di un secondo. Su Facebook, dove i testi non sono ancora così irrilevanti, il tempo medio di permanenza su ogni contenuto che scorriamo è comunque basso: meno di tre secondi (1,7 su app e 2,5 secondi su desktop, dati ufficiali di un paio di anni fa). Il dubbio, lecito, è che in questo flusso frenetico di informazioni sia impossibile strappare l’interesse degli utenti con temi come quelli climatici, che hanno bisogno di più di qualche secondo di spiegazione.

Nella gara per vincere la nostra attenzione funzionano bene i simboli, le immagini forti, sintetiche. E invece i cambiamenti climatici sono un oggetto strano: sono attorno a noi ma si muovono su scale temporali e spaziali per lo più lente e distanti, con conseguenze che vanno ancora al di là della nostra percezione quotidiana. Non possiamo davvero riassumerli in una foto. L’orso denutrito sembrava perfetto, sotto questo punto di vista, ma era un trucco. Con una strategia narrativa diversa, e abbandonando l’idea facile di poter avere una foto-manifesto da utilizzare, già da tempo decine di riviste, compresa la stessa National Geographic, utilizzano i social network, incluso Instagram, per raccontare problemi climatici anche complessi, e molti ricercatori e divulgatori usano le Instagram Stories (video di 15 secondi inanellati uno dietro l’altro, a cui è riservata una parte dello schermo, sulla app) per raggiungere un pubblico sempre più vasto.
Sottolineiamo anche un’altra cosa, per non cadere nella trappola del pessimismo digitale: svelare l’inganno del video è stata un’operazione orizzontale, collettiva, un movimento tipico delle dinamiche di Internet. Decine di persone hanno pescato questo contenuto superficiale, isolandolo dal rumore di fondo, e si sono messe ad approfondirlo. Grazie al dialogo hanno fatto chiarezza.

Fin qui le cose buone, che non possono però nascondere gli elementi di riflessione più problematici sul modo spesso sciatto in cui elaboriamo e diffondiamo l’informazione online. Appena pubblicato, il video è stato condiviso in massa. E possiamo presumere che una buona percentuale di chi per primo ha inoltrato quelle immagini ad amici e conoscenti fosse composta da persone convinte che i cambiamenti climatici sono un problema impellente: finalmente potevano giocare una carta emotiva forte contro i negazionisti e, fidandosi anche del marchio di National Geographic, non si sono fatti troppe domande (in che isola è stato filmato l’orso? Come mai ha le zampe gonfie? Che tipo di sofferenza può ridurre così un animale?) Dalla parte opposta dello schermo possiamo immaginare invece gli scettici dei cambiamenti climatici che all’inizio hanno istintivamente storto il naso, senza poter fare granché, e che poi, quando i primi dubbi più concreti sono iniziati ad affiorare (dubbi sollevati da scienziati che criticavano il video e non i cambiamenti climatici) sono saltati sulla sedia: ecco «la dimostrazione» che la «stampa internazionale» e la «scienza ufficiale» mentono.

In entrambi i casi in pochi hanno deciso di approfondire la questione, notare le sfumature, capire meglio, non giudicare. Non è colpa della rete: è un meccanismo di reazione umano che scatta davanti a informazioni forti e divisive. Ma è un istinto che spesso viene esaltato dalle dinamiche online, dalla velocità dell’informazione, dall’immediatezza di diffusione e dalla prontezza con cui, sui social network, le persone del nostro giro ci gratificano con un like quando esprimiamo un pensiero in cui si riconoscono.

Non vedere il riscaldamento globale.
Da qualche tempo il riscaldamento globale è diventato un problema più sentito e negli ultimi mesi è stato argomento di discussione politica a seguito delle manifestazioni ambientaliste organizzate da centinaia di migliaia di studenti in tutto il mondo. Ma a lungo, per anni, è stato un tema che non ha appassionato, e ancora adesso le notizie sul clima continuano a perdersi nel flusso dell’informazione, soprattutto online.
Perché? Una risposta completa è difficile da dare, ma proviamo a raccogliere qualche indizio.

Prima di tutto c’è la solita questione: il riscaldamento globale ha un incedere subdolo, è una deriva lenta, difficile da percepire. Non possiamo osservarlo in maniera diretta, dobbiamo leggerlo dalle statistiche, estrapolarlo dai grafici. A una nostra azione non corrisponde una reazione diretta e immediata, e questo ci ha permesso di fare finta, a lungo, che il problema non esistesse davvero: il nostro cervello non è costruito per tramutare in segnale di pericolo questo particolare campanello d’allarme.
Possiamo essere razionalmente preoccupati ma non visceralmente inghiottiti da una paura permanente. Ci porterebbe fuori di testa. L’istinto di sopravvivenza quotidiano, che ci permette di convivere anche con una minaccia costante, sta remando contro la nostra sopravvivenza sul lungo periodo, spingendoci a sottovalutare in maniera sistematica i problemi climatici. Secondo gli psicologi, si sarebbero ormai instaurate, nell’architettura del nostro cervello, una serie di dinamiche tipiche dei matrimoni che vanno a rotoli. Il diniego, per esempio: cerchiamo di tirare avanti ignorando o evitando di riconoscere alcuni fatti inquietanti che sappiamo essere veri, riguardo al cambiamento climatico, perché cerchiamo rifugio dalla paura e dal senso di colpa che generano.

Si è provato a dare una spiegazione dell’indifferenza climatica anche dal punto di vista culturale. Tra tante analisi, vale la pena citare quella di Zadie Smith, che in uno dei saggi di Feel Free rintraccia questa doppia fluttuazione: da una parte il relativismo del XIX secolo, che ci ha insegnato che molti dei principî che ci stavano più a cuore erano traballanti o illusori: abbiamo accettato che nulla è essenziale e che tutto cambia, «e questo in un certo senso ci ha tolto la forza di combattere». Dalla parte opposta ci sono rimaste invece quelle due o tre cose che istintivamente non abbiamo mai messo in discussione, come l’esistenza delle condizioni necessarie alla vita, o la stabilità del clima; sono tra le poche realtà che davamo per scontate, un dato di fatto permanente.

Da qui il paradosso per cui ancora oggi gran parte delle persone non crede che l’ambiente cambierà in maniera radicale i loro stili di vita, in futuro.
Viviamo nell’inerzia di una società costruita attorno ai combustibili fossili, e gli istinti e le abitudini che in questo sistema ci sono serviti per prosperare ci stanno portando alla distruzione. In mezzo a questo circolo di vergogna, negazione e autoflagellazione, è sbocciata in alcuni ambienti anche una naturale e profonda attrazione verso l’apocalisse. Nutriamo un certo fascino per la fine, siamo sedotti dalla tragedia suprema perché rende prevedibili le minacce pendenti a mezz’aria, dà un nome alla nostra mortalità, dà un volto concreto alle nostre fobie; l’ansia dell’incertezza svanisce.
Sono analisi psicologiche e sociologiche spesso qualitative, magari discutibili, alle quali si potrebbe replicare in ogni caso che la ricerca di una strategia per la lotta o la mitigazione dei cambiamenti climatici sarebbe dovuta essere un esercizio puramente razionale, una progettazione nata come conseguenza di una lettura lucida e fredda delle previsioni che ci dava la scienza. Davanti ai dati non ci dovrebbe essere spazio per le interpretazioni. E in parte è vero: il lato umano della faccenda, e l’inconcepibilità aliena del riscaldamento globale, non devono valere come alibi. Non eravamo destinati all’apocalisse, e se siamo finiti in piena crisi climatica ci sono delle responsabilità precise, politiche ed economiche.

Matteo De Giuli è nato a Roma nel 1985. È senior editor di il Tascabile, rivista di approfondimento culturale di Treccani. Collabora con Radio3, scrive per National Geographic Italia, il Venerdì e altre testate. Coautore, con Nicolò Porcelluzzi, di una newsletter che si chiama Medusa.

Tratto da The Game Unplugged, © 2019 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino