Lamentarsi di un ristorante, è meglio al ristorante

Già, perché quelle che pubblichiamo online non sono "critiche", ma "lamentele", spiega il critico del New York Times: e se vogliamo che servano a qualcosa, meglio esporle subito

Lo chef francese Laurent Petit con altri due chef nel suo ristorante "Le Clos des Sens" ad Annecy, in Francia
(ROMAIN LAFABREGUE/AFP/Getty Images)
Lo chef francese Laurent Petit con altri due chef nel suo ristorante "Le Clos des Sens" ad Annecy, in Francia (ROMAIN LAFABREGUE/AFP/Getty Images)

Pete Wells, che è un famoso critico gastronomico del New York Times, ha scritto un articolo per consigliare come lamentarsi di un ristorante quando qualcosa non va, perlomeno se volete ottenere qualcosa e non solo sfogarvi.

Wells descrive un meccanismo in cui è facile riconoscersi: quando un ristorante ha deluso le vostre aspettative – perché i piatti non erano buoni o non lo erano abbastanza, perché il conto era eccessivo o il personale lento – ve ne uscite in silenzio, non lasciate nessuna mancia e sfogate l’indignazione con messaggi agli amici e furiose recensioni online. Che sia la pagina Facebook del locale, siti appositi come TripAdvisor e Yelp, o il proprio profilo Instagram, ci sono sempre più luoghi dove esprimere opinioni e disappunto. «Si dà il caso che io sia pagato per criticare», scrive Wells, «e quindi vorrei criticare questa sciocchezza: no, non tutti sono un critico. Quello che state facendo là fuori, online e nel mondo reale, è un’altra cosa: è lamentarvi».

Un critico, spiega Wells, non scrive per sfogarsi – o soltanto per quello – ma, mettendo insieme la sua esperienza e quella degli altri, cerca di stabilire un sistema di valori che chi legge può condividere, contestare o provare a capire: «Lamentarsi è facile come respirare, fare critica è una vera sofferenza. Questa, ovviamente, era una lamentela». Non che le lamentele non abbiano conseguenze positive. Per prima cosa – scrive Wells citando Robin Kowalski, professoressa di psicologia alla Clemson University – bisogna suddividere le lamentele tra quelle strumentali a ottenere un risultato, e quelle che si riducono a uno sfogo liberatorio. Anche gli sfoghi liberatori hanno un’utilità concreta, pur non risolvendo le ragioni dell’insoddisfazione: uno studio di Kowalski ha dimostrato che un quarto d’ora dopo aver scritto della propria scontentezza, ci si sente emotivamente meglio. Nonostante questo, Wells resta convinto che il modo migliore di lamentarsi non sia davanti alla tastiera ma davanti ai camerieri, allo chef o al proprietario del ristorante.

Certo, non è facile: lo stesso Wells ammette di evitare pavidamente il confronto e riservare le critiche alle recensioni. Lamentandosi direttamente però si può ottenere subito qualcosa: per esempio un risotto rifatto dopo che si era mandato indietro uno troppo salato, o che venga rimosso dal conto un piatto mai ordinato, o semplicemente scuse mortificate del responsabile. Se il coraggio non ve lo dà neanche un vantaggio immediato, pensate allora che state facendo qualcosa di buono per i prossimi clienti e per il ristorante: spesso le lamentele sono l’unico modo che ha per verificare la soddisfazione dei clienti.

Confidando nella loro buona volontà, anche i ristoratori possono fare qualche sforzo e informarsi sui piatti lasciati a metà, anziché ignorarli. Melinda Shopsin, una regista che lavora anche nella cucina del suo ristorante di famiglia a New York, ricorda che la madre chiedeva sempre ai clienti se il cibo fosse rimasto nel piatto per sazietà o insoddisfazione, e in questo caso lo assaggiava davanti a loro. Spesso questi assaggi sono fatti di nascosto dagli chef in cucina, in cerca di una risposta.

Quando volete lamentarvi, fatelo con gentilezza: le lamentele cortesi sono un grosso favore che fate ai ristoranti. E più le critiche sono minuziose, meglio è: non limitatevi a sbottare con un  grossolano “è immangiabile!” ma addentratevi nei particolari, che si tratti di cottura, sapore, consistenza o retrogusto. A volte anche lamentarsi a torto serve: Shopsin ricorda che quando iniziò a servire le migas, un piatto spagnolo a base di pane raffermo, molti clienti si lamentavano del coriandolo, che però è previsto nella ricetta. Shopsin capì che non era un ingrediente che piaceva a tutti e iniziò a chiedere ai clienti se preferivano le migas con o senza.

La vita del critico gastronomico del New York Times