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  • Martedì 25 settembre 2018

Il primo esordio di Belleville

Un'allieva della Scuola Belleville racconta come è nato "Se mi guardo da fuori", il suo romanzo appena pubblicato da DeA Planeta

Un dettaglio della copertina di "Se mi guardo da fuori" di Teresa Righetti, il primo romanzo uscito dalla Scuola Belleville
Un dettaglio della copertina di "Se mi guardo da fuori" di Teresa Righetti, il primo romanzo uscito dalla Scuola Belleville

Sabato 29 settembre la scuola Belleville di Milano apre al pubblico dalle 17.00 alle 22.00 per l’Open Night della Scuola annuale di Scrittura e dei corsi serali: Scrittura, Copywriting, Editing e Giornalismo. Partecipano Walter Siti, Marco Rossari, Federico Baccomo, Luca Sofri e il Post, Marco Ferri, Edoardo Brugnatelli, Cristina Tizian. Qui c’è la pagina dell’evento su Facebook.

Belleville festeggia anche il suo primo esordio letterario: il 4 settembre è uscito Se mi guardo da fuori, il romanzo di Teresa Righetti nato sui banchi della Scuola annuale dove insegnano, tra gli altri, Walter Siti, Bianca Pitzorno, Laura Pariani, Giacomo Papi, Sandrone Dazieri.

Nel testo che segue Teresa racconta la nascita della storia, il lavoro con gli insegnanti tra l’autunno 2016 e l’estate 2017, l’editing sotto la guida di Stefano Izzo, responsabile della narrativa italiana DeA Planeta.

Se mi guardo da dopo di Teresa Righetti

Ho iniziato a scrivere un giorno che faceva freddo, non ricordo di preciso dove – ero in un bar.

Alla Belleville avevo un quaderno nero con degli appunti scritti qua e là, e due pagine con un grafico di linee e punti sopra e sotto: c’erano x e y numerate che avevano senso solo per me, e sotto poche righe tracciate a matita.

Quando si elaborano dei progetti all’interno di una scuola di scrittura, se ne parla continuamente. Facevamo lezione in una stanza sottoterra. Io avevo sempre freddo e ascoltavo i progetti degli altri con una sorta di invidia benevola – ma perché non ci ho pensato prima io? –, me ne stavo lì zitta con il mio quadernetto pieno delle immagini che avevo rubato dalla mia vita e dalla vita degli altri e che sembrava impossibile potessero mai prendere forma. Se mi chiedevano – e tu cosa vuoi scrivere? – lo aprivo alla pagina del grafico, dicevo – pensavo di raccontare questo e quello –, avevo delle storie che speravo diventassero dei racconti. Mancava sempre: la cornice giusta, della coerenza, una voce, un punto di vista.

Stefano Izzo, che insegnava editing il venerdì mattina alle nove, ha sempre sostenuto che questa cosa dei racconti non aveva nessun futuro; diceva – Inventati un personaggio forte e portalo dentro il mondo che vuoi descrivere, e vedrai che poi non sarà tanto importante quali storie racconterai. Ho abbandonato l’idea della raccolta di racconti perché sono una persona insicura. Serena – che è la protagonista del mio romanzo e non sono io – è nata da un vuoto che non sapevo riempire.

Il giorno in cui ho iniziato Se mi guardo da fuori ho scritto mezza pagina fitta fitta e l’ho fatta leggere a Francesco, che il suo romanzo l’aveva già quasi finito e non ce la faceva più a sentirmi lamentare di non riuscire a buttare giù nemmeno due righe. Lui ha detto – Finalmente – e poi – È buono. Ho scritto tre capitoli slegati l’uno dall’altro che non avevano più niente a che fare con le storie che pensavo di voler raccontare: parlavano di momenti che avevo vissuto molto tempo prima e che non sapevo nemmeno di ricordare così bene.

Se n’è parlato con Walter Siti un martedì pomeriggio, dopo pranzo. Gli avevamo mandato delle pagine che lui avrebbe commentato a lezione. Ricordo i suoi baffi dietro la scrivania, e le sue mani sui fogli che aveva corretto – una sensazione di attesa ansiosa che provavo seduta tra i miei compagni in seconda fila, e una sorta di imbarazzo infantile. Francesco aveva ragione, con quel è buono: Siti ha detto – Inizio dal testo su cui non ho nulla da dire, perché potrebbe essere l’estratto di un romanzo già pubblicato. Parlava di quello che adesso è il terzo capitolo di Se mi guardo da fuori. Sono andata avanti da lì e non mi sono più fermata. Il potere dell’autorità.

Il corso è finito che faceva caldo. Ci preparavamo a presentare i nostri progetti davanti a editor e agenti letterari, e il mio romanzo aveva una solida ossatura e molti più capitoli di quelli che avrei mai pensato di riuscire a scrivere. Ero entusiasta. Il giorno dopo la presentazione, Stefano – che non era più il mio professore di editing e ora è il mio editor – mi ha chiamata e ha detto – Non ci ho mai creduto (intendeva: al tuo romanzo), ma hai convinto anche me, lo pubblichiamo insieme? (Intendeva: questo romanzo.) Fino alla settimana prima era convinto che a Serena mancasse una voce, che non ci fosse una trama e nemmeno un’ambientazione forte. Era sempre venerdì mattina e io me n’ero tornata a casa piangendo.

Se mi guardo da fuori l’ho finito in un anno e quel primo capitolo è l’ultimo che ho mandato a Stefano. L’ho riscritto tre volte prima di esserne soddisfatta.

Ogni tanto ricevevo delle mail – come precede? Procedeva sempre piano e male, andavo in casa editrice con il terrore che mi si dicesse che dovevo cambiare tutto. L’ufficio di Stefano è in una stanza ad angolo, con grandi vetrate su ogni lato. Lui mi tranquillizzava appena entravo, e poi ce ne stavamo lì a commentare quanto fossi indecisa su alcune parti e quanto lui fosse dubbioso su altre – mi leggeva le espressioni che lo entusiasmavano di più e certi concetti su cui pensava dovessi insistere. Milano quasi non c’era – prima di quei momenti. Ne è derivata un’uniformità che non sapevo di poter costruire, perché non riuscivo a guardare tutto nell’insieme.

L’insicurezza che mi frenava dall’iniziare a scrivere mi ha resa permeabile a tutte le critiche: pensavo che sarei stata troppo affezionata a quello che avevo scritto per riuscire, alla fine, a tagliare e aggiungere e correggere. È stato più facile di quanto credessi. 

I ringraziamenti sono la cosa più vicina alla realtà di tutto il mio romanzo. Il resto è vero e sincero.