britannici2
(LUK BENIES/AFP/Getty Images - MARCO BERTORELLO/AFP/Getty Images – BENJAMIN CREMEL/AFP/Getty Images)

Perché i ciclisti britannici sono così forti

Quest'anno tre di loro hanno vinto Giro, Tour e Vuelta: c'entrano i soldi e una grande intuizione della federazione britannica

di Gabriele Gargantini

Il 16 settembre il britannico Simon Yates ha vinto la Vuelta di Spagna, dopo che a luglio il britannico Geraint Thomas aveva vinto il Tour de France, dopo che a maggio il britannico Chris Froome aveva vinto il Giro d’Italia. Quest’anno tre diversi corridori britannici hanno quindi vinto i tre grandi giri del ciclismo su strada: le competizioni più lunghe e difficili del mondo, che richiedono uno sforzo che dura tre settimane e migliaia di chilometri.

Non era mai successo che tre corridori dello stesso paese vincessero nello stesso anno Giro, Tour e Vuelta. Ma i dati notevoli non si fermano qui: contando anche le vittorie degli anni precedenti di Froome e del britannico Bradley Wiggins, è dal maggio 2017 che un ciclista non britannico non vince un grande giro, e l’unico non britannico a vincere un Tour dal 2012 a oggi è stato Vincenzo Nibali nel 2014. I britannici hanno vinto nove degli ultimi venti grandi giri; dopo che per tutto il Novecento e per gran parte di questo secolo non ne avevano vinto nemmeno uno. Non ne hanno vinto nessuno dei primi 259, e ora ne hanno vinti 9 degli ultimi 20.

Come è successo che un paese senza grande tradizione ciclistica sia riuscito a vincere le più complicate corse ciclistiche al mondo? La risposta ha a che fare con il concetto di marginal gains ,”guadagni marginali”, e ovviamente con i soldi, ma anche con tante giuste e lungimiranti scelte su come guadagnarseli e investirli. Inizia però da un altro ciclismo, quello su pista.

Nel 1992 alle Olimpiadi di Barcellona il britannico Chris Boardman vinse la medaglia d’oro nell’inseguimento individuale, il primo oro olimpico del ciclismo britannico in 72 anni. Ma quella medaglia fu causa di un talento individuale, non di una pianificazione di altro tipo. Il Regno Unito aveva pochi e vecchi velodromi e nemmeno uno olimpico, al coperto. Peter King, capo della federazione ciclistica britannica dal 1997 al 2008, disse che prima del suo arrivo la federazione «era in totale bancarotta» e «non poteva essere gestita peggio», e che stava messa così male che non si poteva che fare meglio. Negli anni Novanta venne costruito a Manchester il primo velodromo britannico al coperto (anche perché il Regno Unito voleva ospitare le Olimpiadi del 2000, poi assegnate a Sydney) e nel 1997 venne introdotto un fondo governativo chiamato UK Sport, finanziato in gran parte con gli introiti della lotteria nazionale.

Uk Sport, che è ancora attivo, è un fondo che riguarda tutti gli sport britannici, e funziona in modo semplice: chi vince prende soldi; chi non vince, no. A fine anni Novanta la federazione ciclistica britannica riuscì, anche grazie a un paio di medaglie vinte alle Olimpiadi di Atlanta, a farsi dare un po’ di soldi. Li usò, per prima cosa, per investire su cose diverse dalla formazione degli atleti. La federazione mise infatti grande attenzione ai guadagni marginali: guardò come, con la meccanica, l’aerodinamica, la nutrizione, la tecnologia, la biomeccanica, la psicologia e la scienza in generale era possibile ottenere piccoli miglioramenti in ogni ambito possibile, dalla forma di un manubrio al giusto momento in cui far fare colazione a un atleta. Invece che partire dagli atleti, partì da tutto quello che ci stava intorno.

La federazione decise anche di puntare quasi tutto sul ciclismo su pista, tralasciando quello su strada. Nel ciclismo su pista, meno imprevedibile di quello su strada, c’era più spazio per migliorare con i guadagni marginali e, dato che è considerato secondario rispetto a quello su strada, c’era anche meno competizione e minore divario con le competenze delle nazionali più forti. La pista fu scelta anche per un altro e molto più semplice motivo: c’erano più medaglie olimpiche a disposizione, perché la pista comprende più discipline.

Nel 1998 la federazione ciclistica britannica fece a UK Sport una presentazione in Power Point in cui dichiarava di voler diventare entro il 2012 la più forte nazionale del ciclismo su pista, partendo quasi da zero. Fu evidentemente molto convincente e ottenne fondi sufficienti per finanziare il suo programma, riuscendo a raggiungere il suo obiettivo con diversi anni di anticipo. Già nel 2008, alle Olimpiadi di Pechino, la squadra britannica di ciclismo fu nettamente la migliore: ottenne 14 medaglie complessive, di cui 8 d’oro (7 delle quali ottenute nel ciclismo su pista). Già quattro anni prima delle Olimpiadi di casa, a Londra, la federazione ciclistica aveva ampiamente raggiunto il suo obiettivo dimostrandosi totalmente dominante. Il forte ciclista su pista francese Arnaud Tormant disse nel 2008: «La Gran Bretagna è l’unica squadra professionistica del ciclismo su pista. Tutti gli altri sono amatori».

La nazionale britannica è stata la più forte del ciclismo olimpico anche nel 2012 e nel 2016, vincendo in entrambe le occasioni 12 medaglie. Il ciclismo su pista britannico è la disciplina sportiva del paese che meglio ha sfruttato il programma UK Sport. Come scrisse nel 2012 il New York Times: «Più vincevano e più soldi facevano. Più soldi facevano e più il programma si faceva scientifico ed evoluto. Più il programma migliorava, più si vinceva».

Bradley Wiggins (il primo britannico a vincere il Tour de France, nel 2012), Geraint Thomas e Adam Yates arrivano tutti dal ciclismo su pista: Yates è stato campione del mondo nella corsa a punti (ed è passato piuttosto giovane al ciclismo su strada), Thomas ha vinto due ori olimpici, Wiggins ne ha vinti cinque. Ma il ciclismo su strada è più importante e quindi difficile di quello su pista, e passare da un velodromo alla salita dell’Alpe d’Huez non è così semplice.

Il passaggio dei successi britannici dalla pista alla strada è soprattutto merito di Dave Brailsford, un convinto sostenitore dei guadagni marginali: «Si riduce tutto al fatto che se isoli ogni singolo fattore che compone l’andare in bicicletta e lo migliori dell’1 per cento, quando rimetti insieme tutti quei fattori avrai un significativo miglioramento» disse nel 2012 alla BBC. Nei primi anni del 2000 Brailsford, che aveva studiato psicologia e scienza dello sport, ebbe ruoli sempre più importanti nella federazione ciclistica britannica e nel 2009 trovò numerosi sponsor per fondare una squadra professionistica di ciclismo su strada: lo Sky Professional Cycling Team, ora noto come Team Sky, o più semplicemente come “la Sky”. L’idea era di chiedere soldi agli sponsor (per una squadra privata) anziché ottenerli da una federazione (per una nazionale), facendo però la stessa identica cosa. Scomporre, studiare e migliorare.

Il Team Sky riuscì, anche in questo caso bruciando i tempi di qualche anno rispetto alle previsioni, a vincere il Tour de France nel 2012, con Wiggins. Fatta eccezione per la vittoria di Nibali, da allora la squadra è riuscita ogni anno a vincere la più importante competizione del ciclismo mondiale: quattro volte con Froome (che non arriva dal ciclismo su pista) e quest’anno con Thomas. È un risultato sorprendente anche se si pensa a tutto quello che – avversari a parte – può andare storto in tre settimane di corsa su strada. Alla Sky non va quasi mai niente storto. Probabilmente perché la squadra studia ogni aspetto della corsa, delle biciclette e dei corridori come nessuna squadra aveva mai fatto prima, al punto da essere stata criticata per il modo analitico e secondo molti poco emozionante con cui corre ogni corsa.

Di Froome si dice ad esempio che stia sempre a guardare il ciclocomputer sul manubrio che gli dice quanta potenza sta sviluppando con ogni sua pedalata (e lui sa, per quanto tempo può sviluppare una certa potenza). Anche quando Froome e Sky corrono in modo diverso e arrembante, come nella tappa che ha permesso loro di vincere il Giro d’Italia, lo fanno con una preparazione maniacale.

Cibo, battiti e pedalate dietro la vittoria di un Giro d’Italia

In generale il programma UK Sport è però stato criticato per la troppa enfasi che mette sulla vittoria e c’è chi vede con diversi dubbi il fatto che l’applicazione di Brailsford del concetto dei guadagni marginali – supportata da fondi, conoscenze e tecnologie che nessuna altra squadra possiede – possa portare a sfiorare e forse superare i limiti di ciò che è consentito. Negli anni ci sono state alcune controversie e indagini sia sulle nazionali britanniche di ciclismo su pista che sulla Sky, ma non ci sono stati grandi esiti e ogni vittoria della Sky è ritenuta legittima.

L’unico britannico ad aver vinto un grande giro non correndo per la Sky è Simon Yates, che ha solo 26 anni ed è considerato – insieme al fratello gemello Adam – uno dei corridori che potranno contendersi i grandi giri dei prossimi anni. Parlando di Adam e Simon, cresciuti nel velodromo di Manchester aperto nel 1994 – che fa parte di un grande centro polifunzionale in cui ci sono gli uffici sia della federazione ciclistica britannica che del Team Sky – Brian Cookson, ex presidente della federazione ciclistica britannica e dell’UCI (la federazione ciclistica mondiale) ha detto al Guardian che 25 anni fa pensare a un britannico che si giocava un grande giro era un’idea «ridicola». Ha aggiunto: «Gli Yates, soprattutto Simon, sono totalmente un prodotto del sistema. Se il velodromo non ci fosse stato non farebbero nemmeno questo sport. Ne sono completamente sicuro».

Il sistema ha anche portato molti altri risultati: le riviste, i podcast e le dirette televisive britanniche sul ciclismo stanno avendo ottimi risultati, con costanti crescite anno su anno. È britannica anche Rapha, che esiste solo dal 2004, ma è uno dei più apprezzati e influenti marchi di abbigliamento e accessori per biciclette: un mercato in cui ci sono aziende, molte delle quali italiane, che esistono da ben più di un secolo. Il Tour of Britain, la corsa a tappe britannica rilanciata nel 2004, sta diventando sempre più importante e seguita e negli ultimi anni il Tour de France è partito per due volte dal Regno Unito: nel 2007 da Londra e nel 2014 da Leeds. E si parla di piani per farci partire la Vuelta, nei prossimi anni. È intanto sicuro che nel 2019 i Mondiali di ciclismo su strada saranno ad Harrogate, nello Yorkshire. Notevoli risultati per il ciclismo britannico sono arrivati anche dalle competizioni femminili e da altre discipline diverse dalla strada e dalla pista. Il Regno Unito è spesso citato come modello di attenzione al ciclismo, inteso come sport, ma anche alla bicicletta come semplice mezzo di trasporto.

https://www.youtube.com/watch?v=5No4JELnhh0

Ci sono già alcuni giovani britannici molto promettenti – per esempio Tom Pidcock, che ha 19 anni, corre per la squadra di Wiggins e per ora fa soprattutto ciclocross – ma è probabile, per una semplice questione di numeri, che nei prossimi anni arriveranno altri forti corridori britannici. In un paio di decenni gli iscritti alla federazione ciclistica britannica sono passati da 14mila a circa 140mila.

Continua sul Post
Exit mobile version