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  • Mercoledì 13 giugno 2018

Che fine hanno fatto le “icone” del design italiano

Durante il Novecento moltissimi prodotti di aziende italiane sono diventati noti e riconoscibili in tutto il mondo, e oggi non succede più: un libro prova a spiegare perché

L'allora presidente del Consiglio Matteo Renzi a Palazzo Chigi insieme al CEO di Apple Tim Cook, nell'atto di donargli una moka Bialetti, il 22 gennaio 2016 (ANSA/PALAZZO CHIGI)
L'allora presidente del Consiglio Matteo Renzi a Palazzo Chigi insieme al CEO di Apple Tim Cook, nell'atto di donargli una moka Bialetti, il 22 gennaio 2016 (ANSA/PALAZZO CHIGI)

Quando si parla di design italiano si pensa spesso a certi oggetti in circolazione da molto tempo: per esempio, la vecchia Fiat 500, la lampada Arco di Achille Castiglioni o la moka Bialetti. Se ci si sforza di pensare a oggetti sempre molto famosi più recenti, può venire in mente lo spremiagrumi disegnato per Alessi da Philippe Stark nel 1990, ma poche altre cose con meno storia: sembra che a un certo punto le aziende italiane che si occupano di design non siano più riuscite a creare prodotti facilmente riconoscibili e memorabili. Alla questione ha dedicato una riflessione la critica di design Chiara Alessi – tra l’altro bisnipote di Alfonso Bialetti, inventore della moka, e di Giovanni Alessi Anghini, fondatore di Alessi – in un libro di poco più di cento pagine ma ricco di considerazioni interessanti, di cui pubblichiamo l’introduzione.

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Il 22 gennaio 2016 l’allora premier Matteo Renzi riceve a Palazzo Chigi Tim Cook, Ceo di Apple. Al termine dell’incontro gli regala una moka Bialetti, celebre icona della creatività italiana. Stando alle foto che testimoniano l’evento, la moka viene consegnata in quello sbiancato nuovo packaging dove solo il logo segna una continuità con l’originale. All’interno ci sarà una caffettiera con un manico ammorbidito nella forma per assomigliare di più a un forzuto braccio antropomorfo e satinato per migliorarne il grip; la valvola, che un tempo era in ottone, ora sarà in acciaio e anche il pomello del coperchio avrà delle scanalature che non c’erano nella versione storica che riprendeva la citazione decò delle due piramidi unite nella base; infine, il logo dell’omino coi baffi, Renato Bialetti, dalla base dove era destinato a estinguersi con l’annerimento della fiamma, in questa versione contemporanea sarà passato a trionfare illeso nella parte superiore.

Dalla fine degli anni Ottanta quel logo non appartiene più alla famiglia che per prima ha inventato la caffettiera e poi ne ha fatto un bestseller; dal 2010 la nuova proprietà ha spostato definitivamente tutta la produzione, chiudendo per sempre lo stabilimento nel Cusio che l’aveva prodotta per circa settant’anni e modificando irrimediabilmente alcuni dettagli fondamentali dell’oggetto. Quella che Matteo Renzi ha messo nelle mani di Tim Cook è, nei fatti, insomma, una specie di riproduzione autorizzata, firmata Bialetti. Eppure nulla le toglie il titolo di icona italiana del design.

Sarebbe stato meglio che Renzi, ammesso di trovarlo, avesse regalato a Cook un esemplare storico? Ma avrebbe avuto senso regalare qualcosa che, con quelle fattezze, non era più in produzione se il suo compito era rappresentare un prodotto italiano? E poi, anche l’originale prodotta da Renato Bialetti fino agli anni Ottanta è a sua volta una riproduzione dell’originaria moka disegnata da Alfonso Bialetti (che, diversamente da quella che conosciamo, in principio aveva il manico molto più corto e in legno e la base con il diametro della parte terminale a contatto con la fiamma più piccolo di quello che venne poi realizzato per la commercializzazione del bestseller). No, lo staff di Renzi che ha scelto questo omaggio magari non ha avuto buon gusto, ma non ha sbagliato: anche quella moka è un’icona. Forse persino un’icona del made in Italy, sebbene sia difficile ormai trovarne in circolazione di ancora prodotte totalmente in Italia.

Verrebbe da dire che l’iconicità della moka risieda quindi piuttosto che nelle strette caratteristiche fisiche del prodotto (dettagli, dimensioni, luogo di produzione) in quelle macro, evidenti anche a livello bidimensionale (“caffettiericità” per così dire, profilo, logo). Che, cioè, l’iconicità in questo caso risieda nell’iconicizzabilità, ossia nel fatto che nella sua silhouette sia riconoscibile proprio il prodotto che tutti abbiamo in mente quando pensiamo alla moka, e in più che sia garantita dal marchio originale (ci sono copie ottime circolanti in tutto il mondo di questa o altre icone del design che però sono dei falsi perché non siglati dall’azienda autorizzata a produrre l’icona e quindi, di fatto, non sono icone, ma copie di un’icona). In più però poi questa sagoma deve tornare tridimensionale e possibilmente funzionale: se Renzi avesse regalato una bella immagine della moka Bialetti, avrebbe regalato un’icona di un’icona. Almeno in questo, per il momento, la scelta è ancora sensata. Ed è salva l’icona: gli appassionati continueranno a cercare nei mercatini, anche digitali, la versione originaria da museo del design, sempre più rara e sempre più costosa, e l’azienda proprietaria del marchio Bialetti produrrà la versione aggiornata di quel mito, che per alcuni sarà più o meno ben fatta, per altri non avrà differenze significative. Ma vincerà – almeno nell’esempio riportato – il nome impresso. Tanto che oggi dire “la Bialetti” fa pensare solo e subito alla moka, come se le due cose si corrispondessero.

La domanda che varrebbe invece la pena di farsi, non è quindi se la moka Bialetti sia ancora autorizzata al titolo di icona del design italiano, che è più che legittimo e continuerà a esserlo, o addirittura a quello di made in Italy, ma, piuttosto, perché non ci sia un sostituito contemporaneo tra gli oggetti di design italiano che possa aggiornarne il ruolo, o “rottamarla”, direbbe qualcuno. Perché l’ex premier che ha fatto dello svecchiamento uno dei suoi cavalli di battaglia e mandato in pensione la storica polaroid sostituendola con un modello digitale recente (è stato l’oggetto di un suo famoso intervento del 2012 alla Leopolda), regala al CEO di una delle aziende più innovative del mondo, un oggetto nato nel 1933 per rappresentare l’Italia? Perché quando, anche i più “sulpezzisti” tra noi, fanno appello alla recente memoria per rintracciare delle icone contemporanee del design italiano fanno una gran fatica?
Si parla spesso di “icone del proprio tempo”: la cosa paradossale è che proprio oggi, nell’epoca del trionfo delle iconcine – anche i bambini che non hanno mai avuto a che fare con i loro corrispondenti tridimensionali (si pensi alla cornetta del telefono, per esempio, che la generazione dei miei figli non ha mai visto) li sanno interpretare e “trascinare” con naturalezza – il design non abbia prodotto nessun “oggetto icona” che dia l’impressione di essere duraturo ed estroflesso come quelli nati in passato.

Perché, dunque, non abbiamo più nuove icone del design italiano?

La risposta più immediata, ma pure parzialmente scorretta, è la facile imputazione al fattore tempo: saremmo storicamente troppo vicini alla produzione materiale in cui siamo immersi per poterne definire l’iconicità.

Se il fatto che intercorra un certo tempo concorre a confermare l’iconicità di alcuni oggetti e a irrobustirla, non è vero tuttavia che serva necessariamente una specifica distanza storica per individuare le icone. Che l’iPhone sia un oggetto icona del design si può dire senza grandi dubbi e senza che sia passato molto tempo dalla sua comparsa sul mercato. (In realtà nel capitolo Le icone sono una cosa comune vedremo che a essere icona, piuttosto che l’iPhone, o l’iPod, è la Apple stessa).

Qualche tempo fa (28 luglio 2016), proprio la Apple a Cupertino ha festeggiato la vendita del suo miliardesimo iPhone. Allora è il successo planetario che fa un’icona e che nella crisi attuale della manifattura italiana fatica a replicarsi? Anche se molte icone hanno riscosso un successo planetario, nemmeno questa è la risposta definitiva: innanzitutto ci sono oggetti venduti in centinaia di migliaia o milioni di pezzi che non sono affatto icone, e poi ci sono oggetti icone che non hanno poi venduto granché (molti hanno in mente la libreria “Carlton” di Ettore Sottsass per Memphis, ma quanti la hanno in casa?), o che viceversa, erano già icone prima di imporsi sul mercato e poi hanno venduto e continuano a vendere in quanto icone (per esempio lo spremiagrumi “Juicy Salif” di Starck che oltre a essere un best seller è anche un long seller, caratteristica che, come vedremo, non è poi così tipica per tutte le icone).

È allora una questione di comunicazione? Le icone si costruiscono a tavolino, si annunciano con elaborate campagne stampa e poi calano dall’alto degli uffici marketing nelle case o nelle tasche dei consumatori, utenti, pubblico? Questo è quello che piacerebbe riuscire a fare agli uffici marketing forse, ma purtroppo non è nemmeno così. Tant’è che spesso nelle aziende italiane i responsabili delle scelte dei prodotti sono gli stessi da anni e, a meno che non ipotizziamo un generale collasso intellettuale di queste menti, non si spiegherebbe come mai fino a dieci o quindici anni fa ogni azienda aveva nel proprio catalogo almeno un’icona, mentre oggi si fa fatica a traghettare i pochi prodotti nuovi davvero simbolici in un immaginario collettivo in grado di riconoscerli a prima vista.

La risposta alla domanda sul che fine hanno fatto le icone, quindi, ha piuttosto a che fare con altro.

In primo luogo c’è un banale problema di sovraffollamento iconico: non solo non abbiamo nuove icone, ma abbiamo una storia piena di “vecchie” icone. E mentre difendiamo il passato di queste ultime, sostenere un futuro per le new entry sta diventando sempre più complesso.

Oggi, molte delle aziende manifatturiere del design lavorano in termini di efficienza più che di efficacia: si preoccupano, cioè, più di emergere nell’attualità che nella storia, trascurando che la pervasività ha il tempo come matrice fondamentale. Si è parlato molto negli ultimi anni della questione dell’obsolescenza programmata, tardiva scoperta anche del giornalismo d’inchiesta che ha rilevato come molti prodotti (in verità specialmente quelli tecnologici) nascano con in sé già un coefficiente di morte, anzi con il preciso mandato inscritto nel loro DNA di scadere presto per poter essere rimpiazzati dal nuovo. Anche una nuova corrente della cultura della sostenibilità nell’ambito dei prodotti ha, in qualche modo, nuociuto alla loro longevità: sostituendo più spesso gli oggetti che ci circondano, avremo maggior garanzia che i nuovi siano migliori dal punto di vista del consumo e delle emissioni, per esempio, o della funzionalità, dell’ergonomia o della producibilità, o del risparmio (assommando, per esempio, in un unico device molte funzioni) con innumerevoli vantaggi sotto il profilo ecologico: prodotti più efficienti “inquinano” di meno. Ma sono programmati per estinguersi velocemente, per essere sempre aggiornati. Questi oggetti sono quelli che Gillo Dorfles chiamerebbe dei “funzionoidi” che hanno un legame quasi unicamente opportunistico con chi li usa: esistono per la loro funzione. E persa quella non hanno nessuna ragione di persistenza nel tempo.

Accanto a questa, fondamentale, c’è poi la questione della rispondenza tra l’icona, il suo tempo e il nuovo tempo (vedi capitolo Le icone producono futuri anteriori). Il design italiano non sembra più produrre oggetti che, persa la loro funzione primaria immediata (che oggi spesso, per altro, è delegata al digitale), siano in grado di perpetrare una funzione secondaria o terziaria in un nuovo tempo o spazio, così da poter garantire quel rapporto con il nuovo tempo che è un’attestazione di iconicità. Ma non solo il design italiano non sembra in grado di conferire iconicità – gesti, stili e simboli – a un oggetto, ma neppure attuare quel processo di trasformazione e trasferimento del concetto di icona oltre l’oggetto, come è stato per esempio per l’iPod.

Un altro importante indiziato sulla fine delle icone (si vedrà in Le icone sono una cosa comune) è il pubblico e le sue capacità: mentre cresceva l’illusione di una creatività individuale diffusa che moltiplicava la produzione di oggetti, è venuto a mancare un immaginario competente collettivo sulle “cose”. Il punto quindi è se l’icona stessa di design non sia un fatto “storico”, passato, che oggi fatica a trovare un pubblico disposto a vedere, immaginare e pensare per icone che, vedremo, significa pensare con lo sguardo al futuro e oltre da sé, verso l’oggetto e oltre al soggetto. Tutto ciò, ammesso che, in quest’epoca narcisistica e di presente perenne, esista davvero un solido immaginario condiviso che permetta di pensare in termini di “pubblico”.

Poi c’è la questione della Moda, intesa proprio con la maiuscola: i tempi del design oggi sono divenuti quelli delle stagioni della moda: si parla di collezioni, di stagioni, si moltiplicano le fiere, con la conseguenza che i prodotti vengono rinnovati spessissimo, aggiungendone sempre di nuovi, aumentando l’offerta, archiviando rapidamente quelli dell’anno prima. La strategia è preoccuparsi del “lancio” – che anche a livello lessicale esibisce un senso ben diverso da quello tradizionale di “presentazione” – senza immaginare di sostenere con una prospettiva di ragionevole termine quello che accadrà, dove e come approderà questo o quel prodotto, perché si è già impegnati sul prossimo.

Infine, ma probabilmente andava posta all’inizio, la faccenda terminologica: la parola “icona” è figlia di un preciso momento storico essa stessa, in senso semiotico, che in questi 50 anni ha ampiamente spostato il suo referente avanti e indietro rispetto alla cultura materiale. E con essa la collocazione geografica: “design italiano”. Lo vedremo.

“Icone del design” e “icona italiana” non si corrispondono più, questo è il dato. Se si parla di icone del design, il CEO di Apple questa volta vince sul made in Italy, perché può regalare se non direttamente un’icona, il prodotto di un’icona contemporanea che il nostro ex premier non troverà con altrettanta incisività nell’inventario di attuali prodotti italiani di design.

Ma è finita l’epoca degli oggetti icona o è finita la stagione della cultura materiale italiana in grado di rappresentarla? Probabilmente entrambe le cose: da una parte sono mutati i contorni con cui si definisce un’icona oggi, gli oggetti e i soggetti deputati a definirla, dall’altra probabilmente le nuove icone si stanno producendo fuori dal design, fuori dall’Italia, fuori dagli oggetti.

Testo tratto da Le caffettiere dei miei bisnonni di Chiara Alessi (UTET)