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  • Sabato 12 maggio 2018

Si vota in Iraq: vincerà l’Iran?

Si rinnova il Parlamento, per la prima volta dopo la sconfitta dell'ISIS, e a giocarsela sono soprattutto tre coalizioni sciite amiche del governo di Teheran

Due poliziotti iracheni a un seggio elettorale (AP Photo/Nabil al-Jurani)
Due poliziotti iracheni a un seggio elettorale (AP Photo/Nabil al-Jurani)

Oggi in Iraq si è votato per rinnovare il Parlamento, che a sua volta eleggerà il primo ministro e il presidente. Sono le prime elezioni parlamentari che si tengono in Iraq dalla sconfitta dello Stato Islamico (o ISIS) e le quarte dall’intervento americano del 2003 che provocò la caduta dell’ex presidente iracheno Saddam Hussein. Sono particolarmente importanti, soprattutto per due ragioni: perché serviranno a capire se la politica irachena si stia davvero allontanando dal modello settario che ha condizionato ogni voto negli ultimi 15 anni (quindi sciiti che votano sciiti, sunniti che votano sunniti e curdi che votano curdi); e perché saranno centrali per vedere quanta influenza avrà l’Iran nella politica dell’Iraq dei prossimi anni. I risultati sono attesi per lunedì.

Il Parlamento iracheno ha 329 seggi, 88 dei quali destinati alle donne (cioè il 27 per cento del totale) e altri 9 alle minoranze religiose. L’Iraq ha un sistema parlamentare, quindi funziona in maniera simile a quello italiano: il Parlamento vota la fiducia al primo ministro ed elegge il presidente, il quale però ha poteri piuttosto limitati. Il sistema politico, invece, segue da molto tempo linee etniche-religiose piuttosto marcate. Le principali liste elettorali si dividono in coalizioni sciite (gli sciiti in Iraq sono la maggioranza), sunnite e curde.

Uno degli aspetti che ha condizionato di più la politica irachena degli ultimi 15 anni – e che spiega molto anche delle elezioni in programma oggi – è l’influenza dell’Iran in Iraq. Per molto tempo, fino al 2003, anno dell’invasione militare americana in Iraq e della caduta dell’ex presidente iracheno Saddam Hussein, i due paesi avevano mantenuto relazioni pessime: dal 1980 al 1988, per esempio, combatterono una guerra molto violenta e secondo molti inutile. Con la rimozione di Hussein dal potere, gli Stati Uniti cominciarono ad appoggiare in Iraq governi guidati da musulmani sciiti, come la maggioranza della popolazione irachena, i quali però fin da subito aprirono a relazioni molto strette con l’Iran, anch’esso paese sciita. L’influenza iraniana in Iraq cominciò ad aumentare grazie soprattutto agli ingenti investimenti nell’economia post-bellica e alla creazione di milizie sciite appoggiate dal governo di Teheran e incaricate di colpire sia i sunniti che i soldati americani che erano rimasti in Iraq dopo la fine della guerra.

Questa influenza è aumentata ulteriormente negli ultimi anni con la guerra contro lo Stato Islamico, gruppo che è stato creato nelle province occidentali dell’Iraq, quelle a maggioranza sunnita, e che è anche grande nemico dell’Iran (l’ISIS ha fatto anche alcuni attentati terroristici in Iran). I consiglieri militari iraniani e le milizie sciite appoggiate dall’Iran sono state molto importanti per sconfiggere lo Stato Islamico in Iraq: e ora quelle stesse milizie hanno trovato il modo di presentarsi alle elezioni e puntano a diventare la coalizione più votata del paese.

Quella che rappresenta le milizie sciite è una delle cinque coalizioni sciite che si presentano alle elezioni. Si chiama Fatah ed è guidata da Hadi al Amiri, leader della potente milizia Badr. Durante gli anni di governo di Saddam Hussein, Amiri fece attività politica di opposizione in esilio dall’Iran, costruendo stretti legami con le Guardie rivoluzionarie, potente corpo militare di élite iraniano molto vicino agli ultraconservatori. Una vittoria di Amiri, sostengono diversi analisti, sarebbe di fatto una vittoria dell’Iran.

Manifesto con ritratto Hadi Amiri durante una manifestazione a Baghdad, 7 maggio 2018 (AHMAD AL-RUBAYE/AFP/Getty Images)

Le altre due coalizioni che se la giocano con Fatah sono Nasr, guidata dall’attuale primo ministro Haidar al Abadi, e Dawlat al Qanun, guidata dall’ex primo ministro iracheno Nuri al Maliki. Sia Abadi che Maliki sono sciiti, ed entrambi fanno parte del partito politico Dawa, storica formazione sciita irachena che però negli ultimi anni si è mostrata molto divisa al suo interno (ed è per questo motivo che i suoi membri non si presentano tutti nella stessa lista). Ci sono comunque parecchie differenze tra Abadi e Maliki.

Maliki fu a capo del governo iracheno tra il 2006 e il 2014, periodo durante il quale sviluppò stretti legami con l’Iran e si rese responsabile di molte politiche settarie nei confronti della minoranza sunnita irachena (la marginalizzazione dei sunniti è considerata una delle cause più importanti della diffusione dello Stato Islamico in Iraq). Abadi, al governo dal 2014, ha cercato invece di invertire la tendenza, anche se con risultati non sempre soddisfacenti. Ha impostato la sua campagna elettorale sulla popolarità che gli è derivata dall’avere sconfitto lo Stato Islamico e oggi sta cercando di attirare i voti dell’elettorato sunnita delle zone dell’Iraq prima sotto il controllo dell’ISIS: è stato il primo candidato sciita a fare comizi anche in aree a maggioranza curda e sunnita, e non era mai successo prima.

Nuri al Maliki a Baghdad, nel 2015 (AHMAD AL-RUBAYE/AFP/Getty Images)

Le differenze tra Abadi e Maliki si rifletteranno anche sulle possibili alleanze internazionali dell’Iraq post-elezioni. L’impressione è che Abadi voglia tenere più porte aperte, per esempio mantenendo i legami con l’Iraq ma senza rinunciare all’alleanza con gli Stati Uniti, e magari tentando un riavvicinamento con l’Arabia Saudita; Maliki potrebbe puntare molto di più sull’alleanza con gli iraniani, come dopotutto era già successo in passato.

Haider al Abadi a Tokyo, il 5 aprile 2018 (KAZUHIRO NOGI/AFP/Getty Images)

Un’altra coalizione sciita piuttosto interessante è Sairoon, che unisce i cosiddetti “sadristi”, cioè i sostenitori del religioso sciita iracheno Muqtada al Sadr, con il Partito comunista iracheno, storica forza politica laica. Il Washington Post ha definito questa alleanza «straordinaria» e sorprendente, anche perché fino a non molto tempo fa Muqtada al Sadr veniva considerato uno dei leader religiosi sciiti più radicali di tutto il paese. Sairoon propone tra le altre cose di riformare il sistema di quote etnico-settario che è stato alla base di qualsiasi governo che c’è stato in Iraq dal 2003 ad oggi.

Moqtada al Sadr a Najaf, 15 aprile 2018 (HAIDAR HAMDANI/AFP/Getty Images)

Oltre alle coalizioni sciite, alle elezioni di oggi si presentano anche forze politiche curde e sunnite, che comunque non hanno possibilità di guidare un governo. L’influenza dei curdi, che era stata rilevante nella scelta del primo ministro nel 2010 e nel 2014, sembra oggi molto in calo. I curdi si presentano divisi, pagando le discussioni e le rivalità che sono emerse dal referendum sull’indipendenza del Kurdistan iracheno che si tenne nel 2017, nonostante fosse considerato illegale dal governo di Baghdad. Anche se vinse il sì, infatti, il referendum non ebbe alcuna conseguenza pratica e non fece altro che provocare la durissima reazione del primo ministro Abadi e del suo governo.

Difficoltà simili sono state registrate tra i sunniti, che non si sono accordati per presentarsi con una sola lista unitaria. Secondo al Jazeera, diversi sunniti di Mosul e di altre province irachene potrebbero anche decidere di votare per Abadi. Il rischio è che la partecipazione dei sunniti alle elezioni possa provocare una reazione violenta dell’ISIS, che come detto si alimenta dal senso di marginalizzazione delle comunità sunnite. Il 22 aprile scorso Abu al Hassan Muhajir, portavoce dell’ISIS, ha diffuso un messaggio in cui diceva: «Vi mettiamo in guardia dall’assumere debiti contro quelli che hanno commesso ogni forma di apostasia. I centri di votazioni e le persone al loro interno sono obiettivi delle nostre spade». L’ISIS ha già rivendicato diversi attacchi, oltre che l’omicidio del candidato parlamentare sunnita Farouq al Jabouri. Il governo iracheno ha già detto di avere preso misure di sicurezza eccezionali: ha chiuso i passaggi di confine e gli aeroporti 24 ore prima dell’apertura dei seggi.