• Mondo
  • Sabato 28 aprile 2018

L’incontro tra Corea del Nord e Corea del Sud, spiegato

Perché tutti quei sorrisi? È andato davvero così bene? E soprattutto: cosa succede adesso?

Il dittatore nordcoreano Kim Jong-un e il presidente sudcoreano Moon Jae-in durante l'incontro di venerdì. (Korea Summit Press Pool via AP)
Il dittatore nordcoreano Kim Jong-un e il presidente sudcoreano Moon Jae-in durante l'incontro di venerdì. (Korea Summit Press Pool via AP)

L’incontro di venerdì tra il dittatore della Corea del Nord Kim Jong-un e il presidente sudcoreano Moon Jae-in è stato descritto come “storico” dalla maggior parte dei media internazionali, e le immagini e i video degli abbracci, dei sorrisi e delle strette di mano tra i due leader sono stati accolti con grande soddisfazione dai sostenitori della pace tra le due Coree, formalmente in guerra dal 1950. L’incontro, e in particolare il momento in cui Kim ha preso per mano Moon “portandolo con sé” oltre il confine, ha sorpreso tutti per il clima gioviale e rilassato, che ha superato anche le aspettative degli osservatori più ottimisti.

Ma superata la comprensibile eccitazione iniziale, gli analisti si stanno confrontando sugli esiti concreti dell’incontro, interrogandosi sul fatto se siano all’altezza dell’entusiasmo generale delle ultime ore. In generale, gli esperti sembrano concordi su alcune cose: è stato davvero un incontro storico, nonostante ce ne fossero già stati altri in precedenza; è un passo diplomatico importantissimo per un clima più disteso, e crea le premesse per progressi reali verso la pace; la dichiarazione comune dei due leader non contiene nessun dettaglio e non rappresenta un gran risultato concreto; bisognerebbe essere scettici su cosa succederà ora; il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha una grande responsabilità.

Il dittatore nordcoreano Kim Jong-un e il presidente sudcoreano Moon Jae-in durante l’incontro di venerdì. (Korea Summit Press Pool via AP)

Perché tutti quei sorrisi
Soltanto pochi mesi fa, immagini come quelle di venerdì erano inimmaginabili: i test nucleari della Corea del Nord erano frequenti, e le tensioni con gli Stati Uniti sembravano aver raggiunto i massimi storici. Come ha scritto Nicolas Kristof sul New York Times, sono stati in realtà tra i fattori decisivi per arrivare dove siamo ora: Moon ne è stato talmente allarmato che ha accelerato gli sforzi diplomatici in occasione delle Olimpiadi e successivamente per l’incontro di venerdì. Ma come ha spiegato l’esperto di Corea del Nord di Associated Press Eric Talmadge, Kim è riuscito a presentarsi al summit in una posizione di forza: «non sta iniziando le trattative con il suo rivale per disperazione. Lo sta incontrando come leader di una potenza nucleare».

Sul sito del Center for Strategic & International Studies, think tank di politica internazionale americano, l’analista Victor Cha ha scritto che certamente l’incontro ha rilassato le tensioni accumulate nel 2017, anche se non è chiaro per quanto. Secondo Kristof bisognerebbe essere scettici, anche se sollevati e perfino ottimisti. Talmadge ha constatato che  l’incontro rappresenta una base solida per trattative future, e che iniziare con un incontro che stabilisca buoni rapporti personali tra i leader che dovranno affrontarle è «una mossa intelligente». Abbiamo anche scoperto, continua Talmadge, che Kim è molto bravo a prestarsi alle coreografie mediatiche.

I limiti e i problemi del summit
Il problema principale dell’incontro, però, è stata la dichiarazione di intenti comune, che prevede di formalizzare la fine della guerra tra le due Coree e un programma di denuclearizzazione, non dà nessun dettaglio su come questi due giganteschi obiettivi saranno raggiunti, né fornisce delle scadenze temporali che vincolino i due stati a portare avanti le negoziazioni. Un altro aspetto sottolineato dagli analisti è che dalle trattative attuali sembra essere stata completamente esclusa la questione dei diritti umani, gravemente e sistematicamente violati da decenni in Corea del Nord.

A non essere chiare, in ogni caso, sono soprattutto le reali intenzioni di Kim, e se sia davvero disposto ad accettare le condizioni che, per quanto sappiamo, gli imporranno Corea del Sud e soprattutto Stati Uniti. Sulla denuclearizzazione, per esempio: gli Stati Uniti vogliono che sia completa, verificabile e irreversibile. Kim invece ha sempre ritenuto che la Corea del Nord debba mantenere l’arsenale nucleare come deterrente nei confronti degli Stati Uniti: per evitare di fare la fine, ha detto pochi mesi fa un funzionario del ministero degli Esteri nordcoreano a Kristof, della Libia di Gheddafi o dell’Iraq di Saddam Hussein.

Il dittatore nordcoreano Kim Jong-un tiene per mano il presidente sudcoreano Moon Jae-in, mentre attraversano il confine tra le due Coree durante l’incontro di venerdì. (Korea Summit Press Pool via AP)

La dichiarazione firmata venerdì non contiene dettagli sulla natura del programma di denuclearizzazione della penisola coreana, e per quanto ne sappiamo Kim potrebbe essere disposto soltanto a interrompere temporaneamente il programma e i test, in cambio di una sospensione almeno parziale delle sanzioni e di aiuti economici. Il suo piano potrebbe essere quello di firmare vaghe dichiarazioni di intenti posticipando il momento di formalizzare i dettagli, consapevole che quel momento non arriverà e nel frattempo non ci saranno ispezioni: e sarebbe comunque un risultato in un certo senso positivo sia per la Corea del Nord che per gli Stati Uniti, secondo Kristof.

Per Trump le cose sono molto complicate
Proprio per questo, il compito che spetta ora a Trump è molto complicato. Lui e Kim dovrebbero incontrarsi a maggio, ma questa volta sarà più difficile risolvere tutto con una dichiarazione piena di buone intenzioni ma senza dettagli. La Corea del Sud farà pressioni perché sia un incontro altrettanto positivo e ottimista, ma l’obiettivo dichiarato di Trump è quello di trovare un accordo concreto sulla denuclearizzazione: e le due cose potrebbero non essere conciliabili.

Secondo il Wall Street Journal, Trump vuole chiedere a Kim un rapido smantellamento del programma nucleare, e non è disposto a ritirare le sanzioni finché non saranno provati dei progressi reali in questo senso. Come ha scritto Alex Ward su Vox, sono condizioni aggressive ma hanno senso: Trump non vuole fare concessioni per poi vedere la Corea del Nord tradire i propri impegni, com’è già successo in passato.

Gli Stati Uniti non conservano armi nucleari in Corea del Sud dagli anni Novanta, ma Kim potrebbe chiedere che la penisola coreana sia esclusa dall’ombrello atomico statunitense, cioè il suo paese sia completamente al sicuro dalle bombe americane: non è chiaro né come questo sia fattibile, né se Trump sia disposto a concederlo. Kristof crede che una soluzione potrebbe essere un’interruzione dei test e della produzione di plutonio da parte della Corea del Nord (un’eventuale interruzione del programma di arricchimento dell’uranio sarebbe più difficile da verificare), in cambio di una sospensione delle sanzioni. Ne beneficerebbero sia Trump che Kim, secondo Kristof, e anche il mondo intero. L’Occidente potrebbe prolungare questa strategia, sperando prima o poi in un collasso del regime.

Secondo Cha, comunque, a desiderare l’incontro e tutte le opportunità fotografiche che ne conseguiranno è soprattutto Kim, sempre per il discorso della legittimazione internazionale.

Com’era andata le altre volte
In passato c’erano già stati due incontri tra i leader della Corea del Nord e del Sud: nel 2000, tra Kim Jong-il (padre di Kim Jong-un) e il presidente sudcoreano Kim Dae-jung, a Pyongyang; e nel 2007, tra Kim Jong-il e Roh Moo-hyun. Il primo, storico incontro fu accolto da entusiasmi simili a quelli attuali, e in realtà gli esiti immediati furono più tangibili: fu negoziata la creazione di un parco industriale a Kaesong, una città della Corea del Nord che fino al 2016 ha ospitato industrie e lavoratori sudcoreani (fu chiuso dopo un test missilistico nordcoreano), l’apertura della Corea del Nord ai turisti del Sud e i ricongiungimenti di migliaia di famiglie separate dalla zona demilitarizzata. Anche allora, fu firmata una dichiarazione di intenti per la fine della guerra tra le Coree e la riunificazione della penisola, che ovviamente fu disattesa.

Il dittatore nordcoreano Kim Jong-il e il presidente sudcoreano Kim Dae-jung durante l’incontro del 2000 a Pyongyang. (Yonhap Pool Photo via AP, File)

Era il periodo della cosiddetta “Sunshine Policy”, la linea politica inaugurata nel 1998 da Kim Dae-jung e proseguita fino all’elezione di Lee Myung-bak nel 2008, che consistette in 8 miliardi di dollari di aiuti economici forniti dalla Corea del Sud a quella del Nord, e che valse il premio Nobel per la Pace a Kim Dae-jung. La Sunshine Policy fu celebrata e accolta come un progresso storico, ma oggi è considerata soprattutto un fallimento, visto che la Corea del Nord non mantenne le promesse di diventare un regime meno oppressivo e di interrompere il programma nucleare. Si scoprì anche che Kim Dae-jung pagò il dittatore nordcoreano 500 milioni di dollari per organizzare il summit del 2000.

Il presidente sudcoreano Roh Moo-hyun e il dittatore nordcoreano Kim Jong-il durante l’incontro del 2007. (Yonhap Pool Photo via AP, File)

L’incontro del 2007 fu organizzato tra gli altri proprio dall’attuale presidente Moon Jae-in, allora collaboratore di Roh Moo-hyun: per l’anno successivo era prevista una vittoria dei conservatori e la fine della Sunshine Policy, e i progressisti lo organizzarono per provare a indirizzare comunque il futuro dei rapporti con la Corea del Nord. Andò come previsto per quanto riguardò le elezioni, ma gli accordi – che erano stati in realtà piuttosto specifici – presi in quel summit vennero accantonati. Se secondo gli esperti delineare accordi economici nel summit di venerdì era effettivamente difficile, per via delle imponenti sanzioni internazionali sulla Corea del Nord, qualcuno si è chiesto come mai non siano stati ribaditi gli altri obiettivi concreti firmati nel 2007, che erano in linea con quelli – più vaghi – affermati venerdì.