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  • Martedì 9 gennaio 2018

Perché si parla della salute di Trump

Sulla stampa americana qualcuno comincia a suggerire – con preoccupazione e cautela – che qualcosa non vada nel suo comportamento

(SAUL LOEB/AFP/Getty Images)
(SAUL LOEB/AFP/Getty Images)

Nel settembre del 1987, quando era solo un famoso imprenditore edile di New York, Donald Trump fu ospite del Larry King Live Show, uno dei principali talk show trasmessi da CNN. Fra una domanda e l’altra, uno spettatore intervenne per chiedere a Trump perché non costruisse case popolari per le fasce più povere della popolazione di New York. Trump rispose evitando di affrontare il punto della domanda, ma condividendo parzialmente le preoccupazioni dello spettatore e mostrando una certa empatia: gli spiegò che lui o le autorità cittadine potevano fare ben poco, e lo invitava a prendersela col governo federale.

Trent’anni dopo, le risposte di Trump alle domande che gli vengono poste in contesti simili sono diventate molto meno sofisticate, e molto più secche e confuse. Questa, per esempio, è stata la risposta che Trump ha dato a un giornalista di Associated Press che qualche settimana fa gli chiedeva della sua proposta di costruire un muro al confine col Messico.

La gente vuole il muro. La mia base vuole il muro, lo vuole veramente – sei venuto a un sacco di miei comizi. Ok, la cosa che vogliono più di tutti è il muro. La mia base è una base davvero grande; credo che la mia base sia al 45 per cento. È buffo, sai. I Democratici avevano un grande vantaggio grazie al sistema elettorale. Un grande, grande vantaggio. Per un Repubblicano è davvero difficile vincere con questo sistema elettorale, e ve lo dico, la gente vuole vederlo. Vogliono vedere il muro.

La povertà di linguaggio di Trump e le sue digressioni continue sono state a lungo considerate una strategia di comunicazione, ma ultimamente la sua sintassi è peggiorata al punto che alcuni la considerano un indizio del fatto che Trump abbia sviluppato una qualche forma di malattia mentale legata all’invecchiamento, unita al suo comportamento instabile. A Washington se ne parla da settimane, e le voci sono diventate ancora più frequenti dopo l’uscita di un libro pieno di aneddoti preoccupanti sui primi mesi dell’amministrazione Trump. Lo stesso presidente Trump – che è stato il più anziano della storia statunitense al momento del primo insediamento – si è dovuto difendere da queste voci con un insolito tweet in cui ha difeso la sua stabilità mentale: e lo ha fatto definendosi un genio.

Negli ultimi due anni Trump è stato associato a diversi disturbi della personalità per via del suo atteggiamento costantemente sopra le righe; fra le altre cose è stato definito narcisista, megalomane, paranoico, e così via. Ultimamente le ipotesi sulla sua salute mentale si sono concentrate intorno ad alcuni disturbi neurologici, quindi decisamente più gravi, come la demenza senile o il morbo di Alzheimer. Uno degli articoli più citati in questi giorni l’ha scritto James Hamblin, ex medico radiologo e giornalista scientifico dell’Atlantic.

Al contempo diversi esperti di psicologia e medicina hanno avvertito infatti dei rischi che comporta fare delle diagnosi a distanza, sia per i loro colleghi sia per i giornalisti digiuni di concetti medici. La discussione intorno alla salute mentale di Trump sta anche provocando un dibattito più generico sul ruolo del presidente, e i bilanciamenti previsti dalle leggi americane in caso di situazioni estreme o particolarmente complicate.

Hamblin ricorda che dopo i 40 anni il cervello di ogni persona si riduce del cinque per cento ogni dieci anni, e che i danni più visibili dell’esterno sono quelli che riguardano il lobo frontale, che controlla funzioni indispensabili come il linguaggio e il movimento. Trump ha 70 anni, ed è normale che le sue funzioni psicomotorie non siano più brillanti come una volta. Il problema, però, è che negli ultimi mesi le sue condizioni sembrano peggiorate. Nelle sue frequenti apparizioni pubbliche, scrive Hamblin, Trump «salta da un pensiero all’altro; usa una serie fissa di aggettivi, spesso superlativi. Una buona fetta di quello che descrive è la cosa migliore o peggiore che abbia mai visto; terribile o meravigliosa; piccolissima o enorme». In molti lo hanno preso in giro per aver biascicato parole apparentemente senza senso nel discorso in cui ha dichiarato che intende considerare Gerusalemme la capitale di Israele: qualcuno ci ha visto dei preoccupanti sintomi di una malattia non ancora diagnosticata.

Hamblin ricorda che difficoltà psicolinguistiche di questo tipo sono visibili nello stadio iniziale del morbo di Alzheimer: lo stesso che l’ex presidente Ronald Reagan annunciò di aver contratto nel 1994, ma che secondo uno studio dei suoi discorsi era iniziato negli ultimi anni del suo mandato. Hamblin non è il solo a pensare che Trump possa avere l’Alzheimer o stia dimostrando una qualche forma di demenza senile: un centinaio di professionisti che si occupano di disturbi mentali ha co-firmato un comunicato secondo cui Trump si stia «disfacendo», mentre secondo il libro di cui tutti parlano in questi giorni, Fire and Fury, tutti i suoi collaboratori hanno notato che negli ultimi tempi ripete sempre le stesse cose, a distanza di dieci minuti. Conclude Hamblin:

«Se i discorsi limitati e iperbolici di Trump fossero una calcolata mossa politica – in una recente intervista col New York Times ha ripetuto per 16 volte l’espressione “nessuna collusione”, secondo alcuni per una specie di strategia pubblicitaria – di conseguenza una volta ogni tanto dovremmo intravedere degli squarci di ciò che sta dietro le quinte. Oltre a ripetere semplici sequenze per condizionare le masse, come “nessuna collusione”, Trump dovrebbe almeno dare qualche intervista in cui mette insieme frasi complesse, per esempio per convincere gli americani che secondo lui non c’è stata alcuna collusione».

Invece non succede: lo stile e i toni di Trump invece sono sempre gli stessi, con lievi variazioni, sia che parli a un comizio davanti a migliaia di sostenitori, sia che tenga una conferenza stampa dopo un importante incontro con i membri della sua amministrazione, sia che parli faccia a faccia con un giornalista.

Ma Hamblin è anche arrivato alla conclusione che non è possibile realizzare una diagnosi senza avere un rapporto diretto con Trump, conclusione a cui erano già arrivati alcuni commentatori più prudenti. Fra di loro c’era anche Noah Feldman, che insegna diritto costituzionale all’università di Harvard e aveva accusato i professionisti che si occupano di malattia mentale e che hanno commentato la salute di Trump di «usare a proprio vantaggio il proprio status professionale per “diagnosticare” la sua salute mentale a fini politici». Scrive Feldman:

«Descrivere il presidente come un matto è un modo per provare a interrompere la conversazione politica, e non di alimentarla. Contraddice un obiettivo fondamentale in una democrazia, cioè il dialogo e la partecipazione: e non la diagnosi senza appello. Appiccicare etichette, anche dal punto di vista pseudoscientifico, è un pericolo per il funzionamento della democrazia»

Altri ancora hanno fatto notare che Trump da due anni conduce una vita che definire “stressante” è un eufemismo: ha condotto e vinto una campagna elettorale serratissima, in cui ha dovuto tenere comizi e riunioni e interviste ogni giorno, e da quando è diventato presidente le pressioni e responsabilità sono aumentate. Trump inoltre, come sanno tutti i giornalisti che hanno a che fare con lui, dorme poco e mangia malissimo.

Il fatto che al momento sia impossibile diagnosticare un eventuale peggioramento delle condizioni di salute di Trump – il presidente non è tenuto a nessun controllo psicofisico di alcun tipo – non esclude che in futuro possano essere introdotti dei bilanciamenti per evitare situazioni come questa. Hamblin fa notare che al giorno d’oggi persino gli addetti alla missilistica dell’esercito vengono valutati tre volte al mese per testare le loro abilità, e per mantenere il loro lavoro devono ottenere più del 90 per cento in ogni test.

In linea teorica esiste uno strumento per rimuovere un presidente sulla base di una valutazione medica esterna: il 25esimo emendamento della Costituzione statunitense prevede che un presidente possa essere rimosso se «non è in grado di adempiere ai poteri e ai doveri della sua carica». La possibilità che questo accada, però, è molto remota: la richiesta deve essere avanzata dal vicepresidente e dalla maggioranza dei segretari – cioè i “ministri” del governo federale – o in alternativa da una commissione di esperti di medicina nominata dal Congresso. Né il vicepresidente Mike Pence né i segretari – nominati dallo stesso Trump – sembrano anche solo lontanamente intenzionati a farlo. Inoltre, se anche nel caso Pence e i segretari decidessero di invocare il 25esimo emendamento, Trump potrebbe obiettare di essere ancora in grado di fare il presidente: a quel punto per rimuoverlo servirebbero i due terzi dei voti sia alla Camera sia al Senato, persino più voti che per approvare un impeachment.

Nel 1994, dopo l’annuncio di Ronald Reagan, il suo predecessore Jimmy Carter invitò la comunità medica a proporre un meccanismo per valutare la salute psicofisica di un presidente, ma il suo suggerimento non venne mai raccolto. Nelle scorse settimane il deputato Democratico Jamie Raskin ha fatto circolare un disegno di legge per introdurre un comitato governativo che valuti la salute del presidente, ma la sua proposta non andrà molto lontano.