Otto slogan politici che ce l’hanno fatta

Frasi che per qualche motivo sono rimaste nell'immaginario comune, nel bene e nel male: come "Aiutiamoli a casa loro"

Negli ultimi giorni, complice anche l’inizio dell’estate e la conseguente penuria di notizie, si è parlato molto di comunicazione politica, di quella efficace e di quella che invece ha meno successo. Tutto è partito da uno slogan, “aiutiamoli a casa loro”, tradizionalmente utilizzato dalla destra, ma che il PD ha usato in una sua “card” diffusa su Facebook e poi subito ritirata, citando un brano del nuovo libro del suo segretario Matteo Renzi. Secondo molti esperti, in quella circostanza il PD ha sbagliato strategia: riprendere esattamente uno slogan dei propri avversari, infatti, rischia di legittimarli e dà l’impressione all’elettore di essere all’inseguimento e non più in grado di guidare il dibattito pubblico. Partendo proprio dalla storia di “aiutiamoli a casa loro” abbiamo raccolto otto slogan politici che, per qualche ragione – positiva o negativa – hanno lasciato un segno nel paese e che, in alcuni casi, sono finiti nel linguaggio comune.

«Aiutiamoli a casa loro»
In sostanza significa che il modo migliore per gestire in maniera umanitaria l’immigrazione è contribuire allo sviluppo dei paesi di origine delle migrazioni stesse; in pratica è diventato spesso un modo per limitarsi a dire che bisogna impedire alle persone in difficoltà dal venire in Italia (insomma, non è esattamente lo slogan di chi chiede di aumentare i fondi per i paesi in via di sviluppo e la cooperazione internazionale). È più facile a dirsi che a farsi, ma questo non toglie che sia tecnicamente un ottimo slogan: arriva dritto al punto – “gli immigrati non li vogliamo” – e in maniera positiva, proponendo di “aiutarli” sì, ma da un’altra parte. Provate a immaginare quanto sarebbe invece inefficace lo stesso messaggio senza la parte positiva: «Ributtiamoli in mare» o addirittura «Lasciamoli affogare».

Probabilmente è proprio per la doppia valenza del messaggio che Renzi ha deciso di includerlo nel suo nuovo libro, “Avanti”. La pubblicazione del post su Facebook che conteneva un’anticipazione con la frase in questione, però, ha immediatamente generato una forte reazione critica, proprio perché oramai il messaggio è associato alla destra radicale. Non è facile stabilire l’origine di questo slogan che, in questa forma così breve ed efficace, sembra diffuso soprattutto in Italia (anche se il concetto è condiviso dalla destra in gran parte del mondo). Gli archivi dell’ANSA riportano questa frase per la prima volta nel 1997, quando venne usata come titolo di una mozione del consiglio regionale del Piemonte, all’epoca governato da Forza Italia e Lega. Probabilmente però, in una forma o in un’altra, lo slogan era utilizzato fin all’inizio degli anni Novanta, quando in Italia iniziarono ad arrivare numerosi gruppi di migranti, provenienti da Albania e Nord Africa.

«Prima il Nord/gli italiani»
La Lega Nord è stata fin dai suoi inizi un partito molto prolifico di slogan orecchiabili, a volte decisamente poco eleganti. Recentemente ha utilizzato uno di quegli slogan che ciclicamente ricompaiono nel discorso pubblico di ogni paese: “Prima i/il”, seguito dalla cosa che dovrebbe avere la priorità su tutto. La Lega stessa, nel giro di pochi anni, ha utilizzato questo slogan in due modi radicalmente diversi. Durante il congresso del 2012, nel pieno dello scandalo sui rimborsi che coinvolse la famiglia Bossi, il nuovo segretario federale Roberto Maroni adottò lo slogan “Prima il Nord!” per simboleggiare il ritorno del partito alle sue radici federali e indipendentiste, che erano state in buona parte accantonate nei lunghi anni trascorsi al governo.

Logo-PRIMA-IL-NORD

Lo slogan è così semplice ed efficace che è sopravvissuto anche al cambio di indirizzo politico del partito. Con l’elezione di Matteo Salvini al congresso straordinario del 2013, la Lega Nord ha iniziato un difficile, e al momento solo parzialmente fruttuoso, processo di trasformazione in partito nazionale e non più solo del Nord. Allo slogan di Maroni ne venne affiancato un altro, “Prima gli italiani!”. Con l’ultimo congresso, che ha sancito il dominio di Salvini sul partito, il vecchio slogan è stato ufficialmente sostituito.

«Anche i ricchi piangano»
“Los ricos también lloran”, “Anche i ricchi piangono”, è una telenovela messicana andata in onda in Italia per la prima volta nel corso degli anni Ottanta, ottenendo un enorme successo. Alle elezioni del 2006, dopo cinque anni di governo Berlusconi, Rifondazione Comunista, il più grande partito della sinistra radicale italiana, fu convinto a entrare nell’Unione, la grande alleanza anti-berlusconiana che comprendeva più di una dozzina di partiti diversi, e poi a sostenere il governo Prodi. Col passare dei mesi dentro Rifondazione molti cominciarono ad agitarsi e chiedere misure drastiche, invece che continui compromessi con gli alleati della coalizione. Mentre si discuteva la legge finanziaria, allora, il partito decise di riprendere il titolo della telenovela arrivata in Italia un trentennio prima, trasformandolo in un auspicio.

RICCHI

La campagna fu molto criticata, anche perché mostrava evidentemente un’intenzione punitiva nei confronti dei “ricchi” (e a leggere i giornali dell’epoca, era considerato “ricco” chiunque possedesse un SUV, per esempio). Gli alleati accusarono Rifondazione di spaventare gli elettori moderati favorendo così Berlusconi. Il governo Prodi fece comunque una pessima fine e alle successive elezioni politiche del 2008 l’alleanza di cui faceva parte Rifondazione, la “Sinistra Arcobaleno”, prese pochissimi voti e restò fuori dal Parlamento.

«Un milione di posti di lavoro»
È forse lo slogan politico per eccellenza nella storia del nostro paese, così citato e preso in giro da divenire a un certo punto inutilizzabile (o quasi). Fu usato per la prima volta da Silvio Berlusconi il 24 febbraio del 1994, un mese dopo il famoso video in cui annunciava la sua intenzione di partecipare alle successive elezioni politiche. La promessa è poi tornata in varie forme, come nel 2001, quando nel “Contratto con gli italiani” firmato nello studio di Bruno Vespa, Berlusconi annunciò che avrebbe creato un milione e mezzo di posti di lavoro.

Berlusconi non riuscì mai a mantenere la sua promessa, e nel 2011 il suo terzo governo si concluse con una netta perdita di occupati rispetto a quando si era insediato. Matteo Renzi è stato più prudente: soltanto lo scorso primo luglio ha detto che l’attuale legislatura potrebbe concludersi con un aumento di un milione di posti di lavoro rispetto a quando lui è salito al governo, nel febbraio del 2014. Al momento, secondo l’Istat, i posti di lavoro creati in questo periodo sono circa 800 mila.

«Ce lo chiede l’Europa»
È un altro slogan molto celebre che ora però si può utilizzare quasi soltanto in senso negativo (come quando Renzi dice “non facciamo questo o quello perché ce lo chiede l’Europa“). Lo slogan divenne celebre nel corso dell’estate del 2011, quando la BCE inviò una lettera al governo italiano con una serie di raccomandazioni da adottare in politica economica. L’espressione è stata successivamente associata al governo di Mario Monti, accusato di essere molto vicino alle istituzioni europee e attento alle sue richieste. Monti, però, ci tiene a sottolineare che non la utilizzò mai.

Sembra quasi paradossale, quindi, che i primi ad utilizzare questo slogan furono invece propri i leader del centrodestra, molti dei quali oggi sono molto critici con l’Unione. Lo slogan venne introdotto nell’estate del 2011, poco prima dell’arrivo della lettera della BCE, quando il partito di Berlusconi cercava di convincere i suoi alleati della Lega Nord ad approvare una dura legge finanziaria che contenesse anche una riforma delle pensioni. Lo slogan era un modo per giustificare scelte impopolari ma giudicate necessarie per il futuro a medio-lungo termine del paese.

«Tutti a casa!»
È un’espressione diventata celebre con il film Tutti a casa del 1960, con Alberto Sordi e diretto da Luigi Comencini. All’epoca era il grido di esultanza con cui i militari italiani salutarono l’annuncio dell’8 settembre, in cui veniva annunciato l‘armistizio con gli alleati. È un grido molto amaro in realtà, come tutto il film di Comencini, poiché l’armistizio per molti militari non significò il ritorno a casa ma l’uccisione da parte dei tedeschi o lunghi anni di prigionia in Germania.

In anni recenti il grido è stato ripreso con successo, ma senza il risvolto amaro, dal Movimento 5 Stelle, che lo utilizza per comunicare la necessità di spazzare via l’attuale classe politica, considerata irrimediabilmente corrotta. Tutti a casa è anche il titolo di un documentario sul Movimento diretto da una regista danese.

No Global, No Tav, No Tap
Cominciò tutto nel 1999, con il libro No logo della giornalista e attivista canadese Naomi Klein, il testo che viene spesso considerato una delle pietre fondanti del movimento contro la globalizzazione. La formula “No logo”, dove al posto di “logo” viene messa la cosa contro la quale si vuole protestare, ha avuto particolare fortuna in Italia, dove non a caso il movimento contro la globalizzazione è conosciuto come proprio come “No global”.

NoTav
Un manifestante No Tav nella stazione di Bussoleno, in Val di Susa (AP Photo/Massimo Pinca)

Oggi è utilizzato soprattutto dalla sinistra radicale e in particolare dai movimenti che si oppongono a grandi opere per ragioni ambientali (come i No Tap o i No Muos o i No Triv, oltre ai celebri No Tav). In almeno un caso, però, è stato utilizzato anche dalla destra radicale, in particolare dai movimenti “sovranisti” contrari alla moneta unica, i cosiddetti “No Euro”.

«Uno vale uno»
Probabilmente molti non sanno che la storia recente di questo slogan risale alla fondazione del Partito Democratico, nel corso del 2007. All’epoca era in corso la difficile fusione dei Democratici di Sinistra, gli eredi del Partito Comunista Italiano, con la Margherita, il partito creato dagli eredi della sinistra della Democrazia Cristiana. Decidere come questa unione sarebbe dovuta avvenire non era un tema facile. L’allora presidente del Consiglio, Romano Prodi, un politico con un forte ascendente su tutto il centrosinistra, propose il principio “una testa un voto”. Il nuovo partito non sarebbe dovuto nascere distribuendo incarichi e posizioni sulla base della forza relativa dei partiti, ma lasciando la parola agli iscritti in modo democratico, per esempio con le primarie, cosicché ogni attivista venisse conteggiato in maniera non differente da tutti gli altri.

Lo slogan di Prodi serviva per risolvere una faccenda interna del centrosinistra: una cosa di partito. Il concetto che esprimeva però, cioè che tutti i membri di una formazione politica hanno uguale dignità, era molto forte. Per questo motivo è stato ripreso come tema centrale del Movimento 5 Stelle fin dalle sue prime manifestazioni politiche nel 2010 (la prima volta in cui l’espressione compare sul blog di Beppe Grillo). Lo slogan venne messo in musica e divenne l’inno ufficiale del Movimento. Sette anni dopo, con il Movimento oramai più strutturato e con una leadership più definita, anche se ancora abbastanza caotica, “Uno vale uno” è un’espressione che si sente usare sempre meno, anche a causa dei numerosi casi di espulsione e degli arbitri compiuti da Grillo e dal suo staff, che hanno permesso agli avversari di rigirare lo slogan contro lo stesso Movimento.