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  • Domenica 21 maggio 2017

Le “organizzazioni benefiche” che fanno la guerra

Sono composte da volontari stranieri e oggi combattono contro l'ISIS in Siria e in Iraq: ma fanno una cosa buona?

Due ex marines americani durante alcuni scontri contro lo Stato Islamico vicino a Tal Tamr, (UYGAR ONDER SIMSEK/AFP/Getty Images)
Due ex marines americani durante alcuni scontri contro lo Stato Islamico vicino a Tal Tamr, (UYGAR ONDER SIMSEK/AFP/Getty Images)

Negli ultimi anni sono stati migliaia i “foreign fighters”, cioè i combattenti stranieri, che sono andati in Medio Oriente per unirsi alle diverse guerre che si stanno combattendo nella regione. La maggior parte di loro si è unita allo Stato Islamico (o ISIS), un gruppo che ha basato parte della sua fortuna sulla capacità di attrarre gli stranieri con una propaganda molto efficace. Altri si sono uniti alla divisione di al Qaida in Siria, che nel corso del tempo ha cambiato nome diverse volte e che ora si chiama Tahrir al Sham. Altri ancora, un numero più esiguo, sono andati in Siria e in Iraq a combattere contro le forze jihadiste: si sono uniti alle milizie curde, assire e yazide nelle loro guerre contro lo Stato Islamico e altri gruppi estremisti che predicano il jihad, la guerra santa. Di loro non si sa molto, sono stati studiati e osservati poco, anche perché le legislazioni nazionali si sono concentrate a punire chi andava a combattere con lo Stato Islamico (anche in Italia, come dimostra la condanna per terrorismo contro la “foreign fighter” Maria Giulia Sergio).

Questi combattenti si sono organizzati in parte entrando direttamente in contatto con le milizie anti-ISIS locali, soprattutto con i curdi siriani e iracheni, in parte attraverso le cosiddette “combat charities”, cioè organizzazioni benefiche che si occupano di fare la guerra; sono state definite così da Pavol Kosnáč, un esperto di studi religiosi dell’Università di Bratislava che ha anche pubblicato uno studio (PDF) sul sito del think tank americano Brookings Institution. Le “combat charities” sono particolarmente interessanti perché fanno parte di un fenomeno in crescita, un’evoluzione di una tendenza più generale di cui si parla ormai da diversi anni e che sta cambiando il modo di combattere: la cosiddetta “privatizzazione della guerra”. Sono interessanti anche perché hanno sollevato molti dubbi sulle implicazioni legali ed etiche delle loro attività: si può operare come un’organizzazione benefica facendo la guerra? Nemmeno se si combatte contro i “cattivi” per eccellenza, come i jihadisti o lo Stato Islamico? Non è facile rispondere a questa domanda, ma intanto partiamo dall’inizio: di cosa stiamo parlando di preciso?

Come suggerisce l’espressione, per “privatizzazione della guerra” si intende quel processo per cui la guerra non è più combattuta solo dagli Stati o dalle milizie appoggiate da una o dall’altra forza in campo, come era una volta, ma anche da soggetti privati, imprese che forniscono servizi di diverso tipo con lo scopo di guadagnare qualcosa. Queste imprese militari private, che si sono sviluppate in particolar modo dopo la fine della Guerra Fredda, sono moltissime in tutto il mondo: si occupano non solo di trasporti e logistica ma anche di operazioni di intelligence, di addestramento e di combattimento vero e proprio. La più famosa, sulla quale sono stati scritti articoli di giornale e libri, è certamente l’americana Blackwater, che tra le altre cose è stata coinvolta in un processo relativo all’uccisione di 14 iracheni a Baghdad nel 2007, una delle storie più gravi e controverse della guerra in Iraq. Le imprese militari private si possono vedere come una specie di reincarnazione moderna dei vecchi corsari e mercenari: soggetti privati che facevano la guerra per soldi.

Le “combat charities” sono un’ulteriore evoluzione della privatizzazione della guerra. Come detto, non sono particolarmente studiate. Sono soggetti privati che, almeno sulla carta, forniscono assistenza militare e politica a gruppi armati deboli o a minoranze etniche che cercano di resistere a massacri compiuti da altri, come lo Stato Islamico. Sono una cosa relativamente nuova, del Ventunesimo secolo, e si differenziano dalle tradizionali imprese militari private per diversi aspetti: non hanno scopo di lucro e i combattenti che selezionano sono volontari che non prendono uno stipendio. Chiedono l’adesione a un certo codice di comportamento e i loro membri sono motivati da cause ideali, non da prospettive di guadagno.

In Siria e in Iraq operano diverse “combat charities”, tra cui Sons of Liberty International (SOLI). SOLI è la più vecchia e riconosciuta “combat charities” del mondo. Fu fondata dall’americano Matthew VanDyke, che nel 2011 decise di unirsi ai ribelli libici nella loro guerra contro l’ex presidente Muammar Gheddafi. VanDyke fu però catturato dalle forze lealiste e fu tenuto per diverso tempo in una prigione di Tripoli. Riuscì a scappare e a unirsi a un gruppo di ribelli solo dopo l’inizio dei bombardamenti autorizzati dall’ONU; provò a creare una milizia anti-Assad in Siria, senza successo, e poi cominciò a intrecciare legami con diverse milizie assire che combattevano soprattutto contro lo Stato Islamico. Da queste attività nacque SOLI, che fin da subito non ebbe grossi problemi a trovare volontari: fecero richiesta in 1.500, VanDyke ne scelse solo 10, per lo più ex membri dei Marines e delle forze speciali. Tutti dovevano essere motivati dal desiderio di aiutare i gruppi più deboli e perseguitati dallo Stato Islamico. Kosnáč ha scritto che tra le altre cose SOLI ha aiutato le milizie assire a essere riconosciute dal governo centrale iracheno e a farsi prendere più seriamente dal governo del Kurdistan iracheno. VanDyke ha detto che SOLI non sarebbe finita nel circolo senza fine delle attività delle ONG tradizionali, che forniscono essenzialmente aiuto umanitario:

«Noi insegniamo loro come eliminare il pericolo e come garantire la sicurezza nella loro città o regione, così che non debbano scappare. Vogliamo operare in modo da andarcene il prima possibile, per occuparci di un’altra missione. Un modo che cura la malattia, non il sintomo. Non vogliamo creare un rapporto di dipendenza con la popolazione locale, un circolo nel quale loro hanno bisogno di noi e noi raccogliamo soldi per loro come fanno molte ONG.»

I problemi dell’attività delle “combat charities”, così come dei contractors delle imprese militari private, sono anzitutto di natura legislativa. I loro membri non si possono considerare civili, visto che prendono parte direttamente ad attività militari, ma non si possono nemmeno considerare soldati a tutti gli effetti, e quindi in teoria non sottostanno alle norme internazionali che disciplinano il comportamento dei soggetti che combattono una guerra. È un tema ingarbugliato, che si mischia con le differenze tra le varie legislazioni nazionali, sul quale il diritto internazionale sta cercando di adeguarsi, ma non è facile. Un altro problema è legato alla complessità delle guerre che si stanno combattendo in Siria e in Iraq. Molte delle “combat charities” che stanno operando in questi paesi hanno a loro volta ideologie e obiettivi specifici e ben definiti: SOLI per esempio è un gruppo cristiano, altri sono di ispirazione marxista. Il pericolo è aggiungere nuove influenze straniere a guerre che coinvolgono già moltissimi interessi diversi, promossi dalle varie potenze schierate da una parte o dall’altra.