Cosa vuol dire “collimare”

La seconda parola spiegata bene da Massimo Arcangeli, che è fatta così solo per un errore

di Massimo Arcangeli

Due oggetti collimano quando coincidono, combaciano al millimetro. Due idee o due opinioni collimano quando si corrispondono perfettamente, quando fra l’una e l’altra non c’è la minima differenza. Se quello che faccio non collima con quello che dico, se mi comporto diversamente da come sostengo di comportarmi, dimostro di essere incoerente, contraddico me stesso.

L’italiano collimare, all’inizio, significava soprattutto due cose:
1. Puntare uno strumento ottico (un cannocchiale, un mirino, ecc.) su un oggetto (un corpo celeste, un bersaglio, ecc.) in modo tale che il suo asse, verticale o orizzontale, sia allineato con esso;
2. Puntare in un’unica direzione, tirare dritto verso uno scopo, un obiettivo o altro.
Il primo significato è concreto, e può essere reso con un semplice ‘prendere la mira’. Il secondo è figurato, cioè astratto. Giordano Bruno, nel terzo e ultimo dei suoi dialoghi londinesi, usa la parola col secondo valore: «lo stimo pur troppo pratico in prender mira, in collimare, come dicono, al scopo» (De l’infinito universo e mondi, a l’illustrissimo signor di Mauvissiero, stampato in Venezia [ma Londra], s. n. t., 1584, p. 224).

Ma come si spiega la presenza di una lima, di un limare, in un verbo che suggerisce invece una relazione con le parole linea e allineare? Si spiega col fatto che collimare è nato da un errore. Collimare è il risultato, già in latino, dell’errata lettura di collineare (‘prendere la mira’ o ‘raggiungere il bersaglio’), usato anche da Cicerone, o meglio di colliniare, che si sarebbe aggiunto a collineare in un secondo tempo, nel latino tardo. L’errore, che sarebbe stato introdotto nel lessico tecnico dell’astronomia da Keplero, sembra si sia generato in testi manoscritti di Cicerone e Aulo Gellio e sia poi giunto, da quei testi, alle prime stampe delle opere dei due scrittori latini.
La ragione del passaggio da colliniare a collimare si può intuire facilmente, e risale a un tempo in cui le i erano sprovviste del punto superiore. L’espressione “mettere i punti (o i puntini) sulle i” racconta in sintesi la nascita di questa decisiva innovazione nell’attività di scrittura. Prima del XIV secolo il punto sulla i si metteva saltuariamente. La sua introduzione su larga scala si ebbe solo a partire da quel secolo, e la novità risultò utile a distinguere due i consecutive da una u (o uis da ius), oppure a evitare di confondere la i ripetuta (ii, iii) con altre lettere (come n, m, o la stessa u) formate da aste. Qualcuno, per l’assenza del puntino sulla i, potrebbe allora aver letto male colliniare; potrebbe aver preso due lettere, la n e la i seguente (ni), per una soltanto (m).

Attualmente il significato di collimare è un problema per non pochi giovani. In un test che ho sottoposto, nel 2011, a 196 studenti universitari del primo anno, la parola è diventata, per diversi fra loro, sinonimo di compensare (quattro casi; ess.: «Dobbiamo collimare le nostre lacune»; «Dovresti collimare il tuo debito in storia»; «Luca deve collimare il debito in francese»), di riempire (quattro casi; es.: «Collimare un vuoto»), di colmare (tre casi; ess.: «Devi collimare la lacuna in storia»; «Devo collimare il mio debito»).

Alla vigilia del Festival “Parole in cammino” che si è tenuto ad aprile a Siena, il suo direttore Massimo Arcangeli – linguista e critico letterario – ha raccontato pubblicamente le difficoltà che hanno i suoi studenti dell’università di Cagliari con molte parole della lingua italiana appena un po’ più rare ed elaborate, riflettendo su come queste difficoltà si estendano oggi a molti, in un impoverimento generale della capacità di uso della lingua. Il Post ha quindi proposto ad Arcangeli di prendere quella lista di parole usata nei suoi corsi, e spiegarne in breve il significato e più estesamente la storia e le implicazioni: una al giorno.