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  • Venerdì 14 aprile 2017

Dobbiamo preoccuparci della Corea del Nord?

Negli ultimi giorni la tensione con gli Stati Uniti è aumentata, dopo le voci di un nuovo test nucleare e di un eventuale attacco preventivo americano

(JUNG YEON-JE/AFP/Getty Images)
(JUNG YEON-JE/AFP/Getty Images)

Negli ultimi giorni giornalisti ed esperti di Corea del Nord hanno notato un aumento della tensione fra il paese, governato da una dittatura di ispirazione socialista, e gli Stati Uniti, il principale alleato di paesi confinanti e vicini come la Corea del Sud e il Giappone. È dovuto soprattutto alle voci circolate negli ultimi giorni sul fatto che la Corea del Nord potrebbe effettuare un nuovo test di un’arma nucleare sabato 15 aprile, nel 115esimo anniversario della nascita di Kim Il-sung, fondatore della dinastia regnante e nonno di Kim Jong-un, l’attuale capo dello stato. È da alcune settimane, però, che la situazione sembrava essere peggiorata.

Il nuovo segretario di stato americano Rex Tillerson, nominato dall’amministrazione di Donald Trump, durante una visita in Giappone a metà marzo aveva spiegato che l’approccio diplomatico tenuto negli ultimi anni dagli Stati Uniti per “denuclearizzare” la Corea del Nord ha sostanzialmente fallito, e aveva parlato dell’ipotesi di un preemptive attack, cioè un attacco che anticipi quello nemico in risposta a una chiara minaccia (di cui però non ha specificato la natura). Qualche giorno fa, inoltre, gli Stati Uniti hanno deciso di spostare alcune navi militari che si trovavano nei pressi di Singapore nella parte occidentale dell’oceano Pacifico, cioè vicino alla Corea del Nord. Ad aggiungere incertezza, il presidente Donald Trump non sembra avere un’idea precisa della complessità del problema, nonostante lo citi spesso durante interviste e dichiarazioni pubbliche: qualche giorno fa ha ammesso di averla intuita dopo un colloquio privato col presidente cinese Xi Jinping, e da sempre parla della questione in termini generici che lasciano un po’ spiazzati gli esperti di relazioni internazionali e di Corea del Nord.

Tutto questo però è avvenuto prima che si diffondessero le voci su un nuovo test nucleare, che a sua volta ha generato nuovi timori e voci non confermate: stamattina Agence France-Presse riporta alcune dichiarazioni di un consigliere di politica estera della Casa Bianca secondo cui è possibile che un nuovo test sia imminente, e che la Casa Bianca sta già considerando alcune opzioni militari. Insomma, dobbiamo aspettarci che succeda qualcosa?

Come siamo arrivati a questo punto
Negli ultimi anni gli Stati Uniti e il resto dei paesi occidentali hanno adottato nei confronti della Corea del Nord la cosiddetta “strategia della pazienza”: guardare, aspettare e anticipare il collasso del paese. La “strategia della pazienza” si basa sulla convinzione che il regime nordcoreano prima o poi crollerà, schiacciato dai problemi tipici di un regime repressivo che si basa su un sistema economico che non funziona più.

Il punto è che finora questo collasso non è mai avvenuto, e ormai di crisi la Corea del Nord ne ha passate parecchie: la terribile carestia degli anni Novanta, due successioni alla guida del paese, le moltissime sanzioni dal 2006 ad oggi. Eppure il regime ha sempre retto senza dover rinunciare allo sviluppo del suo programma nucleare, anche grazie all’appoggio della Cina, che pur mostrandosi insofferente verso la crescente aggressività nordcoreana non sembra ad oggi intenzionata a stravolgere le sue politiche (forse spaventata dalle conseguenze sociali ed economiche in caso di guerra fra le due Coree). Con Kim Jong-un al potere, fra l’altro, l’aggressività retorica del paese è aumentata, così come il numero di test nucleari effettuati: tre test su cinque fra quelli effettuati nella storia della Corea del Nord sono avvenuti da quando Kim Jong-un è salito al potere.

In sostanza, i critici della “strategia della pazienza” non dicono che il regime sicuramente non crollerà: sostengono però che non bisogna contarci troppo, perché non abbiamo informazioni sufficienti per capire cosa stia succedendo all’interno della società, dell’esercito e della classe dirigente nordcoreana.

Cosa sta succedendo
Nelle ultime settimane, grazie a un rinnovato interesse dell’amministrazione Trump sul tema, si sta parlando con sempre più frequenza dell’ipotesi di invadere la Corea del Nord, o quantomeno di attaccarla prima che possa dare seguito alle sue minacce. Al momento la più probabile è la seconda: sta circolando molto un articolo pubblicato ieri da NBC News secondo cui gli Stati Uniti sono pronti a bombardare la Corea del Nord nel caso ricevano informazioni su un imminente test nucleare (qui avevamo elencato i possibili obiettivi di un attacco preventivo di questo tipo). Sulla possibilità che questo test sia effettivamente condotto nei prossimi giorni però non ci sono molte informazioni: il gruppo di analisti North 38 ha spiegato a CNN che nelle ultime settimane c’è stata un’attività che fa pensare a un nuovo test nel sito di Punggye-ri – nel nordest del paese, lo stesso posto dove erano stati condotti gli ultimi due test nel gennaio e settembre 2016 – ma prevedere quando sarà effettuato è praticamente impossibile.

Molti analisti comunque concordano sul fatto che un eventuale attacco preventivo degli Stati Uniti o dei loro alleati creerebbe probabilmente più problemi di quanti ne risolverebbe. L’ha sintetizzato bene su Foreign Policy l’esperta di Corea del Nord ed ex ambasciatrice degli Stati Uniti all’Associazione delle Nazioni del Sud-est asiatico Nina Hachigian:

Quello che sanno Pyongyang, la Cina e gli alleati degli Stati Uniti oltre agli esperti americani di Corea del Nord dentro e fuori al governo – e che spero sappiano anche Trump e i suoi collaboratori – è che le opzioni militari in Corea del Nord sono molto meno chiare di quanto siano in Siria. Per prima cosa, non possiamo essere certi che un bombardamento aereo distrugga i laboratori e l’arsenale nucleare del paese, perché non conosciamo la posizione di tutti questo posti. E se non le distruggiamo tutte, la Corea del Nord potrebbe reagire usando un’arma nucleare o del materiale tossico.

Ma se anche le informazioni ottenute dall’intelligence fossero perfette, il problema principale rimane che Seul [la capitale della Corea del Sud] è nel raggio di un attacco della Corea del Nord, anche convenzionale. Il numero di persone colpite da un eventuale contrattacco della Corea del Nord sarebbe troppo alto. E una grossa campagna militare nella penisola coreana – qualsiasi intervento sul campo diventerebbe “grosso” – coinvolgerebbe la Cina e farebbe vacillare l’economia globale. Così come nel caso dell’Iraq, non abbiamo ancora la risposta a una domanda centrale: cosa succede dopo i bombardamenti? Quali sono le migliaia di tappe che portano da un attacco militare a una Corea unita e pacificata?

In caso di un attacco di questo genere, inoltre, gli Stati Uniti riceverebbero quasi certamente il sostegno dei loro alleati storici come Corea del Sud e Giappone, ma per evitare guai più grossi dovrebbero cercare una forma di collaborazione con la Cina. Steven Weber, un esperto di relazioni internazionali dell’università di Berkeley, in California, ha spiegato al Guardian che al momento i rapporti fra Stati Uniti e Cina non consentono di immaginare una soluzione del genere: «non credo affatto che siamo arrivati al punto in cui i due paesi si fidino l’uno dell’altro in maniera così profonda da reggere e mantenere quel tipo di relazione a lungo termine». «Il momento di twittare è finito», ha scritto ancora Hachigian: «il momento opportuno per fare una guerra nella penisola coreana non esiste. La migliore opzione è una combinazione di ulteriori sanzioni e di un’intensa, noiosa, frustrante attività diplomatica».