C’era Grandmaster Flash a Milano

Una notte con uno degli inventori dell'hip hop, quello di "The Get Down", che ha fatto un dj set e a un certo punto ha messo "Danza Kuduro"

Grandmaster Flash nel 2014 a New York. (Bryan Bedder/Getty Images for Starz)
Grandmaster Flash nel 2014 a New York. (Bryan Bedder/Getty Images for Starz)

«È quello della serie di Netflix», ha urlato a un certo punto una ragazza sui vent’anni nell’orecchio di un suo coetaneo, ieri sera all’Armani Privé a Milano, dove ha fatto un dj set Grandmaster Flash. Quello della serie di Netflix The Get Down, appunto. Uno dei tre-quattro nomi che si citano quando si citano gli inventori dell’hip hop, soprattutto.

Il ragazzo ha risposto con una faccia perplessa, ma non sembrava badarci troppo. A occhio, era un sentimento piuttosto diffuso: una rilevante parte di chi ieri sera è andato a ballare in una delle discoteche più elitarie e alla moda di Milano non era lì per Grandmaster Flash, e probabilmente non sapeva neanche chi fosse Grandmaster Flash. Molti altri lo sapevano, invece, e hanno passato l’ora e mezza in cui ha messo la musica a pubblicare storie su Instagram e a scattargli foto, attaccati alla sua consolle in mezzo alla sala. Lui non ci faceva caso. Le sue interazioni con il pubblico si sono limitate a due frasi, ripetute quasi ossessivamente e con minime variazioni. “Milanomilanomilano”, una. “Putyourhandsupintheair”, due.

La cosa che ha fatto Grandmaster Flash per essere quello della serie di Netflix e uno dei tre-quattro nomi che si citano quando si citano gli inventori dell’hip hop è stato principalmente decidere, a un certo punto, intorno alla metà degli anni Settanta, di mettere fisicamente le mani sopra i vinili che suonavano sui giradischi e vedere quello che succedeva. A guardare le cose da qui, l’hip hop era nato pochi anni prima, anche se allora non lo sapevano. Ufficialmente nel 1973, precisamente l’11 agosto 1973, al 1520 di Sedgwick Avenue, nel Bronx a New York, dove il dj Kool Herc organizzò la prima festa hip hop della storia. Era una musica nuova, che allora non era ancora cantata e che aveva i suoi interpreti nei dj, che stavano sperimentando i modi migliori per far ballare la gente inventandosi cose con i giradischi per fare suonare meglio i dischi funk e soul.

Grandmaster Flash, che quando nacque nel 1958 si chiamava Joseph Saddler, crebbe nel Bronx degli anni Sessanta, che una quantità spropositata di violenze, droga, razzismo e gang criminali avevano trasformato in un quartiere sventrato, con i palazzi distrutti e incendi quotidiani. Da bambino era appassionato di elettrodomestici da smontare e cose che giravano, soprattutto quelle cose nere che suo padre metteva su un aggeggio che avevano in cucina quando tornava da lavoro. L’aggeggio girava e faceva uscire dei suoni: «Lo trovavo molto intrigante», dice in Hip Hop Evolution, un documentario di Netflix. Una volta cresciuto cominciò a rovistare tra la spazzatura in cerca di giradischi, amplificatori, casse e qualsiasi altra cosa che potesse essere messo insieme per costruire una postazione da dj. Ne uscivano dei suoni terribili, «ma ci andava piuttosto bene».

La frontiera in quel momento era mischiare insieme una canzone e l’altra senza pause, per evitare che la gente smettesse di ballare quando si cambiava un disco con un altro. Alla radio sfumavano le canzoni, mentre Kool Herc aveva inventato un modo rivoluzionario: faceva suonare la parte delle canzoni funk in cui c’erano solo la batteria e il basso su due vinili identici sui due piatti della sua postazione. Poi, con il mixer, passava da uno all’altro, estendendo quella parte strumentale e creando una nuova canzone. L’intuizione di Kool Herc è considerata da molti il momento fondativo dell’hip hop. Per far sì che la puntina del giradischi cominciasse a suonare il disco nel punto giusto, Kool Herc e gli altri dj spostavano l’asta. Era un guaio: se non si era precisi si cominciava nel punto sbagliato, svelando l’inganno.

Grandmaster Flash provò a lasciare ferma l’astina e spostare con la mano il disco, riportandolo al punto giusto. Segnando con un pastello il punto esatto in cui cominciava il beat, la transizione da un disco all’altro era praticamente perfetta. Si potevano creare loop infiniti dello stesso pezzo di una canzone: una cosa che sarebbe tornata utile, diciamo, nei successivi quarant’anni di musica. La soluzione era fare una cosa che in teoria non si doveva fare: toccare e scarabocchiare i vinili li rovinava. Ma era l’unico modo. Grandmaster Flash, che molti considerano una specie di scienziato musicale per il suo interesse per l’aspetto tecnologico del mestiere del dj, aveva trasformato i giradischi in uno strumento. Senza contare che facendo girare con la mano i vinili veniva fuori un suono strano e molto musicale: ma in realtà l’invenzione dello scratch, come viene chiamata la tecnica, se la contendono in diversi. Grandmaster Flash è uno di questi, e lui non è esattamente schivo quando si tratta di rivendicare il suo contributo alla musica: «Oggi vedo i dj fare cose incredibili. (…) Sarebbe totalmente impossibile farle senza quello che ho inventato io».

Grandmaster Flash oggi non mette più i dischi. O meglio, non li ha messi ieri sera all’Armani Privé. Tutta la musica l’ha messa dal suo computer, e sui piatti dei suoi due giradischi ha tenuto gli stessi vinili che ha usato solo per fare del timido scratch qua e là. Sui vinili non c’era il nome del disco, ma una G, una M e un lampo. Le stesse cose che c’erano scritte sul suo cappellino, e sulle maniche della sua felpa nera, sul cui retro invece c’era scritto GRANDMASTER FLASH, con vicino un lampo. Si è fatta notare soprattutto un’enorme cicatrice trasversale che ha sul collo, sulla quale Google non offre spiegazioni, ma che nei video d’epoca non aveva.

Ha cominciato a suonare in anticipo, poco prima dell’una di notte, con “Good Times” degli Chic, e ha continuato con una lunga serie di classiconi senza mai spingersi fuori da quelle che potrebbero essere le canzoni di una playlist qualunque degli anni Settanta e Ottanta di Spotify. “Rapper’s Delight”, che i veri pionieri dell’hip hop odiarono quando uscì nel 1980, poi “Let’s Dance”, “Another One Bites the Dust”, “That’s the Way”, “I’m Coming Out”, “Upside Down” (due canzoni dello stesso artista di fila!), “Billy Jean”, “Blame It On the Boogie”, “Under Pressure”. L’unica canzone da meno di dieci milioni di visualizzazioni su YouTube che ha messo è stata “Apache” della Incredible Bongo Band, che non è comunque esattamente un oscuro pezzo underground.

In mezzo “Milanomilanomilano”, “Putyourhandsupintheair”, qualche scratch. Forse gli è stato chiesto di infilare un evergreen dietro l’altro, forse ha imparato nelle decine di set che fa ogni anno in giro per il mondo che è il miglior modo di portare a casa la serata, in quei contesti in cui la maggior parte delle persone non è lì per te. Anche se la miniera di canzoni semisconosciute e riempipista che sono stati gli anni Settanta avrebbe offerto materiale per ballare anche al ragazzo che si è poi allontanato dalla sua coetanea, ha perso in fretta la faccia perplessa e ha guadagnato con fare esperto il bancone del bar.

Quando non ha guardato il computer, Grandmaster Flash ha tenuto uno sguardo un po’ perso nel vuoto, ma si capiva che era concentrato. Non è uno di quelli che ti dà l’impressione di divertirsi come un matto quando mette i dischi, ma neanche di quelli che si capisce vorrebbero essere da un’altra parte. Gli under 25 con le felpe, quelli con le barbe che facevano le storie su Instagram, quelli con il cocktail in mano che usavano Shazam per riconoscere “Tom’s Diner”, quelli coi capelli bianchi e vestiti bene, le donne sopra i trent’anni vestite meglio, hanno ballato tutti, molto. Paradossalmente una delle canzoni che ha riscosso meno entusiasmi è stata “The Message”, che di Grandmaster Flash e il suo gruppo, i Furious Five, è la canzone più famosa, la prima canzone rap con un testo di denuncia sociale. Si è fatto in tempo appena a cantare il primo “don’t push me, ‘cause I’m close to the edge”, che l’ha cambiata per mettere “Stayin’ Alive” dei Bee Gees.

Poi quando erano più o meno le due meno un quarto la serata ha preso una piega inaspettata, che a guardar bene forse ha chiuso il cerchio. “Jenny from the Block” è stata un primo segnale, che ha in qualche modo annunciato una serie di canzoni molto tamarre, che hanno incontrato i favori dei molti che non notavano niente di strano in Grandmaster Flash che mette “Destination Calabria” e “Danza Kuduro”. È anche uscito dalla comfort zone, chiedendo “letsmakesomenoise”. Poi è tornato un po’ nel suo, con i Cypress Hill e Kanye West: verso le due e mezza ha ringraziato chi era venuto con il minor numero di parole possibili, si è fatto un paio di foto con un paio dei molti che ne volevano una, e se n’è andato. È arrivato un ragazzo giovane nella postazione accanto a quella che aveva usato lui, e ha messo qualche secondo di “Hey Joe” e di “Back in Black”. Dopo qualche sguardo smarrito è partita “Passionfruit” di Drake, e tutti hanno socchiuso gli occhi e fatto di sì con la testa.