Quali sono le accuse di Report contro Eni

Ha parlato ancora di una presunta tangente pagata sulla licenza di un giacimento nigeriano, e ha insinuato un coinvolgimento anche nel salvataggio dell'Unità

L'ex amministratore delegato dell'Eni, Paolo Scaroni. (ANSA/MASSIMO PERCOSSI)
L'ex amministratore delegato dell'Eni, Paolo Scaroni. (ANSA/MASSIMO PERCOSSI)

Lunedì sera la trasmissione di Rai 3 Report ha trasmesso un servizio in cui approfondisce la storia di una presunta tangente pagata da Eni, la società petrolifera italiana a partecipazione statale, per l’acquisto della licenza di estrazione su un giacimento petrolifero in Nigeria nel 2011. La trattativa è oggetto di un’indagine della procura di Milano, che lo scorso febbraio ha chiesto il rinvio a giudizio dell’attuale amministratore delegato di Eni Claudio Descalzi, dell’ex amministratore delegato Paolo Scaroni e di una decina di altre persone, compreso Luigi Bisignani, definito spesso “faccendiere” e finito in mezzo a molti scandali negli ultimi anni. L’accusa è concorso in corruzione internazionale. Report si era già occupato della vicenda nel 2015, e in quell’occasione si era parlato soprattutto delle risposte al servizio che Eni diede su Twitter contemporaneamente alla messa in onda di Report, cosa che è accaduta anche questa volta.

La tesi alla base delle accuse di Report è che il miliardo di dollari pagato da Eni insieme alla società anglo-olandese Shell per acquistare la licenza sia finito tramite una complicata rete di intermediari a una società controllata da Dan Etete, ministro del Petrolio nigeriano ai tempi dell’acquisizione, che ne avrebbe poi disposto per i propri interessi. Report sostiene anche – presentando in questo caso prove molto più deboli – che circa 50 milioni di euro siano tornati a disposizione di Scaroni, che li avrebbe usati per pagare i funzionari e le autorità che avevano facilitato la trattativa.

Il giacimento in questione si chiama OPL245, ed è al largo delle coste della Nigeria. Alla base dell’inchiesta di Report c’è la testimonianza di Vincenzo Armanna, ex dirigente di Eni che si occupò dell’acquisizione del giacimento. Armanna ha parlato al giornalista Luca Chianca, che ha curato il servizio, del ruolo centrale avuto nella trattativa da Emeka Obi, un intermediario nigeriano che rappresentava il ministro del Petrolio Etete. Secondo Armanna il coinvolgimento di Obi fu voluto da Scaroni: altre fonti contattate da Report hanno confermato che Etete voleva parlare direttamente con Eni, ma che l’azienda volle coinvolgere Obi. Armanna ha detto che nell’azienda c’erano molti dubbi su Obi, che non rappresentava nessuna delle parti nigeriane coinvolte nella trattativa e avrebbe dovuto gestire sui suoi conti il miliardo di dollari oggetto della transizione. Report non ha chiarito con precisione il ruolo di Obi, ma ha presentato il suo caso probabilmente per dare conto della complessità di rappresentanti e intermediari che hanno partecipato all’operazione.

Report ha parlato anche con Luigi Bisignani, che era stato coinvolto nell’intermediazione ma che a un certo punto temeva che il suo incarico potesse saltare, perché Scaroni voleva trattare direttamente con il governo nigeriano. In un’intercettazione telefonica trasmessa da Report, Descalzi rassicura Bisignani sul suo coinvolgimento, ma Armanna ha spiegato che in realtà Descalzi – che era vice direttore generale – non poteva andare contro la volontà dell’amministratore delegato Scaroni, che voleva condurre la trattativa a modo suo. Secondo la tesi di Report, Obi avrebbe rappresentato «gli interessi occulti di Scaroni, e forse anche quelli di Bisignani (…), oltre che quelli del ministro Etete». Da un certo punto in poi, comunque, la trattativa proseguì senza intermediari: Obi ha fatto causa ad Etete, ottenendo oltre cento milioni di dollari per il suo compenso nei mesi di trattativa con Eni.

Gli avvocati di Eni hanno sostenuto che i soldi pagati dall’azienda siano stati versati direttamente in un contro del governo nigeriano: Report però nega questa tesi, sostenendo che i soldi siano stati versati su un conto della banca JP Morgan. Un ulteriore passaggio dei soldi dell’acquisto, secondo la ricostruzione di Report, sarebbe avvenuto con l’intermediazione del vice console nigeriano Giovanni Falcioni, che aprì un conto in Svizzera su cui avrebbe dovuto ricevere il miliardo di dollari per poi trasferirlo ad Etete. Armanna ha suggerito che Falcioni sia stato in qualche modo costretto a fare questa operazione, che comunque poi saltò perché la banca svizzera si rifiutò di svolgere una transazione che coinvolgesse Etete, già condannato per corruzione internazionale. Alla fine a trasferire i soldi in Nigeria, secondo Report, fu direttamente JP Morgan, in conti intestati a Etete, che li trasferì in diverse sue società. Report ha verificato gli indirizzi delle società, scoprendo che nei luoghi indicati non c’erano le aziende menzionate nei documenti.

Report ha parlato anche con Debra Laprevotte, un’ex agente dell’FBI che si è occupata delle presunte destinazioni del miliardo di dollari pagato da Eni. Laprevotte ha sostenuto che circa la metà fu prelevata in contanti dalle banche nigeriane e data poi a chi aveva collaborato alla trattativa. Altre parti della somma sarebbero finite invece in posti diversi del mondo, e spese per cose molto diverse tra loro, compreso un safari in Nuova Zelanda. 57 milioni di dollari, secondo Report, finirono negli Stati Uniti, spesi in larga parte per un aereo da 50 milioni.

Oltre ai soldi che secondo la tesi di Report sarebbero stati usati da Etete per pagare le persone che avevano facilitato la trattativa, una parte – 50 milioni – secondo Armanna fu riportata in Italia su un aereo affittato da Fabio Ottonello, un imprenditore con il quale collabora spesso Eni. Ottonello, intervistato da Chianca, ha detto di non saperne niente. Poco dopo l’intervista, Chianca e il cameraman di Report sono stati arrestati dai servizi segreti congolesi, che li hanno detenuti per due giorni e hanno sequestrato loro il materiale girato. Una fonte interna alla polizia congolese ha detto a Report che la segnalazione che ha portato al loro arresto è arrivata dallo stesso Ottonello, che però ha negato.

La risposta di Eni
Come già era successo mesi fa, Eni ha risposto in diretta alle accuse di Report, su Twitter. Ha scritto di non essersi «avvalsa di alcun intermediario nell’esecuzione della transazione», ma Report ha risposto citando una sentenza di un tribunale di Londra – quella della causa tra Obi ed Etete – che riconosce il ruolo di Obi: secondo Eni, però, è provato che fu solo un rappresentante di Etete, e che quindi non fu voluto da Scaroni. Eni ha spiegato che dopo l’apertura delle indagini ha affidato a uno studio legale indipendente statunitense un’indagine sulla trattativa, che non ha riscontrato nessuna attività illecita. Report però citando lo stesso rapporto sostiene che l’indagine abbia verificato che Eni sapeva che il governo nigeriano avrebbe girato i soldi alla società di Etete, e proverebbe anche che Obi ha avuto dei rapporti con i dirigenti di Eni.

Eni ha spiegato che il «pagamento eseguito da Eni e Shell al Governo per licenza OPL245 è stato fatto su un conto corrente vincolato del governo in banca internazionale», precisando di essere «estranei ai flussi finanziari successivi al pagamento al Governo nigeriano per assegnazione licenza». Ha anche fatto notare che Laprevotte è rimasta nell’FBI fino al 2015, e quindi non ha avuto accesso ai documenti dell’indagine dal 2016 in poi, che erano invece a disposizione dello studio legale indipendente.

La storia dell’Unità
In un altro servizio trasmesso lunedì sera, curato da Emanuele Bellano, Report ha parlato dell’imprenditore Massimo Pessina, che si occupa di edilizia e che nel 2015 ha comprato il quotidiano del Partito Democratico l’Unità, che aveva smesso di uscire e stava fallendo. Secondo l’accusa di Report, anticipata ieri da un articolo sul Fatto Quotidiano, Pessina e il suo socio Guido Stefanelli avrebbero accettato di rilevare l’Unità in cambio della promessa dell’allora presidente del Consiglio e segretario del PD Matteo Renzi di ottenere in futuro alcuni appalti in Kazakistan. La tesi di Report si basa su un testimone anonimo, che sostiene di essere stato coinvolto nelle trattative con Francesco Bonifazi, tesoriere del PD.

Il testimone ha parlato di presunte case e ville per tecnici e dirigenti dell’Eni. Report sostiene che nel 2014 la società di Pessina abbia aperto una filiale in Kazakistan. Secondo Pessina è inattiva, ma Report citando un rapporto della camera di commercio kazaka scrive che vale 450mila euro, che ha 110 dipendenti e 8 automezzi. Report sostiene che il consorzio KPO, controllato per metà da Shell e per metà da Eni, abbia stretto accordi commerciali per nove diversi progetti con Aksai Industrial Park, una società di cui la filiale kazaka dell’azienda di Pessina è partner. Eni però ha smentito questa accusa: Pessina è fornitore della società ma «dal 2006 a oggi non gli sono mai stati assegnati contratti in Italia e all’estero». Stefanelli ha chiarito a sua volta che «Pessina non ha realizzato nessuna commessa in Kazakistan con l’Eni, nessun appalto, nessuna commessa, nessun mattone», e ha detto che querelerà Report.

Report ha intervistato anche Sergio Staino, attuale direttore dell’Unità, che alla domanda sul perché Pessina abbia deciso di rilevare l’Unità ha risposto che probabilmente condivideva gli interessi e il progetto politico del governo Renzi, e che abbia visto «un elemento di facilitazione, non c’è nulla di male». Staino ha poi chiarito che non si riferiva a presunti casi di «corruzione, favori o quant’altro di illegale» ma che parlava delle facilitazioni che in generale le aziende italiane che volevano investire all’estero avrebbero ottenuto dall’azione di governo di Renzi, che era attiva in questo senso. «L’unico errore mio è stato quello di aver rilasciato una tranquilla intervista ad un programma che, invece di fare corretta informazione, sempre di più appare come un abile costruttore di fake news che quelle tanto, sì, vendono oggi», ha scritto Staino dopo la trasmissione.