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  • Sabato 21 gennaio 2017

Le notizie false sono un problema anche in Sud Sudan

Una delle più gravi guerre civili del mondo è resa più complicata dalla diffusione organizzata di bufale e messaggi d'odio online, racconta BuzzFeed

Manifestanti a Jubea contro lo stanziamento delle truppe dell'ONU nella capitale sud sudanese, il 20 luglio 2016. (AP Photo/Samir Bol)
Manifestanti a Jubea contro lo stanziamento delle truppe dell'ONU nella capitale sud sudanese, il 20 luglio 2016. (AP Photo/Samir Bol)

Il Sud Sudan è uno stato centrafricano, grande poco più del doppio dell’Italia e chiuso tra Sudan, Etiopia, Kenya, Uganda, Repubblica Democratica del Congo e Repubblica Centrafricana. Ha ottenuto l’indipendenza dal Sudan nel 2011, diventando lo stato più giovane del mondo: in questo breve periodo, però, ha fatto in tempo a diventare il posto dove sta avvenendo una delle peggiori tragedie umanitarie del pianeta. Dal 2013, infatti, è in corso una violenta guerra civile tra le milizie di etnia Dinka, fedeli al governo del presidente Salva Kiir, e quelle di etnia Nuer, che rispondono a Riek Machar, un tempo vicepresidente del paese. La guerra civile ha causato migliaia di morti e più di un milione di sfollati. Un’inchiesta di BuzzFeed ha raccontato come nell’ultimo periodo esponenti delle due fazioni in lotta in Sud Sudan abbiano provato a influenzare la popolazione sui social network, attraverso la creazione e la diffusione di notizie false.

La maggioranza delle persone che vivono in Sud Sudan non ha un accesso a internet, e solo il 30 per cento circa sa leggere e scrivere. Un rapporto preparato da un gruppo di esperti dell’ONU e diffuso a novembre, però, ha spiegato che «i social media sono stati usati da esponenti di entrambe le fazioni, inclusi alcuni importanti funzionari governativi, per esagerare incidenti, diffondere bufale e minacce velate o condividere messaggi che incitano apertamente alla violenza». Il Consiglio di Sicurezza dell’ONU a dicembre ha aggiunto tra gli incarichi delle forze di peacekeeping in Sud Sudan, composte da circa 13mila soldati, quello di «monitorare, indagare e segnalare episodi di hate speech».

Molti di questi messaggi, spiega BuzzFeed, arrivano da persone originarie del Sud Sudan ma che vivono all’estero, e la cui opinione è in molti casi tenuta in alta considerazione. Queste reti di bufale e messaggi d’odio funzionano in modo simile a quelle occidentali: servono a fare soldi, funzionano perché agiscono su gruppi di persone dalla scarsa alfabetizzazione, digitale e non, e ingannano i lettori mascherandosi da fonti ufficiali, per esempio richiamando il nome di testate importanti (come succede in Italia con siti come il Fatto Quotidaino Repubblica24), o aggiungendo dei watermark a foto false, relative per esempio al genocidio in Ruanda (in Sud Sudan viene sfruttato soprattutto il logo dell’agenzia di stampa Associated Press).

Il luogo principale dove si diffondono le bufale, anche in Sud Sudan, è Facebook: esistono, come in tutti gli altri paesi del mondo, gruppi caratterizzati da un’ideologia politica o da un’identità etnica nel quale le notizie false vengono condivise e discusse, creando quella che in inglese si chiama echo chamber, cioè un ambiente in cui un’informazione viene propagata, ribadita e rafforzata senza che venga messa in discussione. Nei gruppi che includono membri di fazioni diverse, invece, le discussioni sulle notizie, vere o false, diventano spesso violente. James Bidal, attivista dell’organizzazione locale Community Empowerment for Progress, ha spiegato a BuzzFeed che quando una persona della “diaspora del Sud Sudan” – cioè che ha lasciato il paese per la guerra civile – con un buon seguito online condivide una cosa sui social network, chi la legge tende a ripeterla a voce ai conoscenti, spostandone la diffusione offline.

Gordon Buay è una di queste persone: è un diplomatico sud sudanese con passaporto canadese, che lavora all’ambasciata del Sud Sudan a Washington: lo scorso maggio Buay ha condiviso su Facebook un post in cui sosteneva che il governo avesse il diritto di uccidere i ribelli, tirando in ballo la Bibbia e paragonandoli ai miliziani dello Stato Islamico. Contattato da BuzzFeed, Buay ha confermato quello che aveva scritto nel post, minimizzando le preoccupazioni riguardo un possibile genocidio in Sud Sudan e i collegamenti tra violenza e hate speech.

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Stephen Kovats, un ricercatore di Berlino tra i coordinatori di #DefyHateNow, un’organizzazione che si occupa di studiare e contrastare i messaggi d’odio online in Sud Sudan, ha spiegato che gli “influencer” che agiscono dall’estero per influenzare il dibattito online in Sud Sudan sono coordinati, e possono “darsi il cambio” da posti del mondo diversi per essere attivi 24 ore su 24. Secondo alcuni ricercatori, fanno parte di reti finanziate e organizzate esattamente per diffondere notizie false e incitare all’odio. Talvolta le bufale sono arrivate perfino ai vertici dell’organizzazione politica del Sud Sudan, come quando un importante comandante militare ha mostrato ad alcuni inviati dell’ONU un video non verificato di violenze commesse dai ribelli, o quando un portavoce di Machar ha scritto su Facebook la notizia falsa secondo cui alcune milizie governative avevano provato ad arrestare il leader ribelle, salvo poi rimuovere il post dopo le proteste del governo.

Un gruppo Facebook antigovernativo è stato chiamato con lo stesso nome, MirayaFM, della radio ufficiale delle Nazioni Unite in Sud Sudan, mentre il sito estremista africanspress.org pubblica notizie di fonti affidabili cambiandone i titoli per travisarne ed esagerarne il contenuto.

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Ma la campagna di disinformazione è condotta anche da singole persone, oltre che da questo tipo di finte testate: lo scorso luglio il governo sud sudanese organizzò una campagna online contro la proposta dell’ONU di stanziare 4000 nuovi soldati a Juba, la capitale del paese, dopo che i ribelli erano stati cacciati dalle forze governative con gravissime violenze, nelle quali centinaia di persone erano morte e un centinaio di donne erano state stuprate. Ayuel Maluak Ayuel Atem, un giornalista del quotidiano filogovernativo National Courier, scrisse su Twitter e sul suo blog (sul quale si firma Chris Blakka) che i soldati dell’ONU avevano ucciso dei militari sud sudanesi sparando sul veicolo sul quale stavano viaggiando, e bruciandoli vivi. Altri giornalisti provarono a confermare la notizia, ma scoprirono che in realtà erano stati i soldati sud sudanesi a sparare su un veicolo dell’ONU, uccidendo due soldati cinesi. Le forze di peacekeeping, invece di rispondere al fuoco, erano scappate. Atem ha detto a BuzzFeed di aver ricevuto solo dopo l’informazione giusta, e di aver corretto il post sul suo blog. I suoi tweet erano però già stati ripresi da altri account, identificati da Bidal come influencer.

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Pochi giorni dopo, un giornale di Juba vicino ai servizi segreti del Sud Sudan pubblicò dei finti documenti secondo i quali la CIA aveva un piano per rovesciare il governo lavorando con DynCorp, una società di contractor militari i cui dipendenti vivevano in un hotel dove, durante la cacciata dei ribelli da Juba, le forze governative avevano attaccato e stuprato alcuni operatori umanitari stranieri. Secondo Bidal, quella contro lo stanziamento delle truppe dell’ONU a Juba è stata una dimostrazione dell’efficacia delle campagne coordinate d disinformazione online che può ordinare il governo del Sud Sudan. Nei giorni successivi, anche grazie ad altre personalità molto seguite online che hanno ripreso le bufale sui soldati sudsudanesi uccisi dall’ONU, le proteste contro le Nazioni Unite per le strade di Juba sono diventate violente, e le truppe non sono ancora state stanziate.