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  • Giovedì 25 agosto 2016

L’incursione turca in Siria, spiegata

Perché i turchi sono entrati in Siria con i carri armati? È vero che gli Stati Uniti hanno tradito i curdi? Un po' di risposte dopo i fatti di mercoledì

Carri armati turchi diretti a Jarabulus (BULENT KILIC/AFP/Getty Images)
Carri armati turchi diretti a Jarabulus (BULENT KILIC/AFP/Getty Images)

Mercoledì mattina alcuni carri armati turchi sono entrati in Siria e nel giro di poco più di nove ore hanno conquistato Jarablus, una città siriana vicino al confine con la Turchia che da tre anni era sotto il controllo dello Stato Islamico (o ISIS). Assieme ai soldati turchi c’erano anche diversi combattenti dell’Esercito Libero Siriano, una coalizione di gruppi ribelli che in passato è stata alleata degli Stati Uniti prima di cominciare a inglobare fazioni più estremiste. Ci sono due cose da tenere a mente sull’intera operazione, che il governo turco ha chiamato “Euphrates Shields“. Primo: i turchi e i ribelli siriani sono stati appoggiati dagli americani, che hanno fornito copertura aerea e hanno partecipato con alcuni consiglieri militari. Secondo: l’obiettivo ultimo dell’operazione non è stato solo colpire lo Stato Islamico, che da mesi compie attentati molto violenti in Turchia, ma anche limitare l’influenza nel nord della Siria dei curdi, gli arcinemici del governo turco. Fermi tutti, però: ma i curdi non erano alleati degli americani?

Sì, negli ultimi due anni i curdi siriani sono stati i principali alleati degli Stati Uniti nella guerra contro lo Stato Islamico in Siria. E quindi cosa è cambiato? Gli Stati Uniti hanno “tradito” i curdi, come hanno sostenuto in molti nelle ultime ore? Per capire cosa è successo a Jarablus, e perché l’operazione “Euphrates Shields” è così importante per tutto il sistema di alleanze della guerra in Siria, bisogna ripartire dall’inizio: mettere in ordine le idee su chi sta con chi, e su qual è la posta in palio nelle battaglie che si stanno combattendo nel nord della Siria.

https://twitter.com/EuphratesShield/status/768701004678299648

Breve spiegazione di chi sta con chi, almeno fino a oggi e semplificando un po’. Da una parte c’è il regime siriano di Bashar al Assad, alleato con l’Iran, la Russia e le milizie sciite libanesi di Hezbollah. Dall’altra ci sono i ribelli che combattono Assad, che sono alleati della Turchia e che includono sia fazioni moderate – alcune delle quali alleate con gli Stati Uniti – sia gruppi estremisti e jihadisti, come Jabhat Fateh al Sham (prima conosciuta come Jabhat al Nusra, la divisione siriana di al Qaida). Poi ci sono altre due parti principali: c’è lo Stato Islamico, che non è alleato con nessuno, e ci sono i curdi siriani, che fanno parte di una coalizione sostenuta dagli Stati Uniti. In linea di massima si potrebbe dire che questi quattro schieramenti combattono uno contro l’altro, anche se il discorso è molto più complicato di così. Sono arcinemici Assad e i ribelli, che negli ultimi mesi si combattono soprattutto nella provincia di Aleppo, nel nord-ovest della Siria; sono altrettanto arcinemici la Turchia e i curdi siriani, i quali sono strettamente legati ai curdi turchi del PKK, storici nemici del governo turco. Lo Stato Islamico combatte intensamente sia contro i curdi siriani che contro i ribelli.

Poi ci sono situazioni di non belligeranza, diciamo così: per molto tempo Assad e lo Stato Islamico si sono tollerati, entrambi con l’idea di concentrare le forze sugli altri rispettivi fronti di battaglia, e per la stessa ragione si sono tollerati anche Assad e i curdi. In particolare i curdi sono stati definiti come l’unica cosa su cui in Siria vanno d’accordo americani e russi: sono alleati degli americani e tollerati dai russi, anche grazie agli storici rapporti che i curdi hanno sempre mantenuto con l’Unione Sovietica. In sintesi: è un casino e non è facile per niente starci dietro. Qui alcune grafiche del New York Times che semplificano un po’ il sistema di alleanze e il livello di inimicizia tra le varie parti, qui una mappa aggiornata al 16 agosto della situazione in Siria.

Nelle ultime settimane sono cambiate un po’ di cose rispetto alla situazione descritta sopra. La svolta sembra essere stata l’importante battaglia di Manbij, una città del nord della Siria che da tempo era sotto il controllo dello Stato Islamico. Manbij è stata riconquistata il 13 agosto dalle Forze democratiche siriane (SDF), una coalizione nella quale i curdi siriani occupano una posizione dominante. La vittoria di Manbij ha permesso ai curdi di ottenere molta influenza nel nord della Siria, una cosa che non è piaciuta né ad Assad né alla Turchia. Pochi giorni dopo la fine della battaglia di Manbij, il regime di Assad ha deciso di mettere fine alla non-belligeranza con i curdi, e per la prima volta dall’inizio della guerra in Siria li ha bombardati (ad Hasakah, nel nord-est della Siria). Come ha scritto l’analista Aaron Lund, è sembrato quasi che Assad volesse mandare un segnale alla Turchia, come dire: avete visto che i curdi sono una minaccia anche per noi? Per la prima volta si è iniziato a parlare di una possibile distensione dei rapporti tra Assad e governo turco – fino a quel momento acerrimi nemici – in nome di un obiettivo più grande: il mantenimento dell’integrità territoriale della Siria e l’opposizione alla creazione di uno stato autonomo curdo nel nord del paese.

nord-siira-mappaGli schieramenti nel nord della Siria: come si vede dalla mappa realizzata da Thomas van Linge, Manbij – che si trova a ovest del fiume Eufrate – è ora sotto il controllo delle SDF (blog di Pieter Van Ostaeyen)

Manbij ha provocato però anche una dura reazione del governo turco, e in parte di quello statunitense. Lo scorso anno gli Stati Uniti accettarono uno scambio con la Turchia: avrebbero impedito ai curdi di espandersi a ovest del fiume Eufrate in cambio della collaborazione turca nella guerra contro lo Stato Islamico (come detto, fino a quel momento la Turchia aveva mantenuto un atteggiamento molto ambiguo nei confronti dell’ISIS). Guardando la mappa sopra si capisce meglio l’obiettivo dell’accordo: in verde chiaro ci sono i curdi siriani, che prima della conquista di Manbij e dintorni occupavano solo la parte orientale del fiume Eufrate e alcuni territori nel nord-ovest. Il governo turco voleva impedire che i curdi unissero le zone verde chiaro, conquistando quindi i territori di mezzo – quelli sotto il controllo dello Stato Islamico (in grigio scuro) e dell’Esercito Libero Siriano (verde medio) – e impendendo la formazione di uno stato curdo senza discontinuità territoriale proprio al confine con la Turchia. Dopo la conquista di Manbij, i curdi siriani non hanno mantenuto la promessa di ritirarsi a est dell’Eufrate e lasciare il controllo della città alle componenti arabe delle SDF, che preoccupano molto meno la Turchia. Hanno invece fatto dichiarazioni molto roboanti sull’eventuale conquista di altre città nella provincia. Per questo motivo, hanno scritto molti analisti, i turchi hanno deciso di intervenire a Jarablus (che nella mappa è in alto appena a ovest del fiume Eufrate): per anticipare i curdi e impedire loro di allargarsi ulteriormente.

Ok, ma perché gli Stati Uniti si sono messi con i turchi? Non avevano litigato? Sì, i rapporti tra Turchia e Stati Uniti non stanno passando proprio il loro momento migliore: sono tesi da tempo per l’ambiguità del governo turco nella guerra contro lo Stato Islamico, e sono peggiorati dopo il colpo di stato tentato in Turchia contro il governo. Il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan ha accusato il religioso Fethullah Gülen di avere organizzato il golpe: Gülen si trova dal 1999 in esilio autoimposto negli Stati Uniti e nonostante le richieste turche finora il governo americano si è rifiutato di estradarlo. A rendere ancora meno comprensibile la partecipazione degli Stati Uniti all’operazione turca a Jarablus c’è un altro fatto. Da due anni i curdi siriani sono i principali alleati degli americani nella guerra contro lo Stato Islamico in Siria, con ottimi risultati: lo Stato Islamico ha perso molti territori che aveva conquistato nell’estate del 2014, proprio quello che volevano gli Stati Uniti.

Ci sono due cose da considerare, per capire cosa è successo a Jarablus. La prima è che il governo statunitense è sembrato più volte in balia della complessità della guerra in Siria: è stato spesso criticato per avere fatto scelte tardive – come sull’addestramento dei ribelli – e per non avere rispettato la parola data – come nel caso della cosiddetta “linea rossa” e dei bombardamenti chimici compiuti dal regime di Assad contro la popolazione civile siriana. Per dire: in passato è anche successo che due gruppi finanziati o sostenuti da due diverse agenzie americane finissero per combattere tra loro.

Come hanno dimostrato i cinque anni di guerra, non è facile per nessuno fare scelte lineari ed efficaci riguardanti la guerra in Siria, e gli Stati Uniti non sono un’eccezione. In passato gli americani sono stati accusati da molti siriani di essersi alleati con il regime di Assad per combattere lo Stato Islamico, e ora sono accusati di avere tradito i curdi per salvare la loro alleanza con la Turchia. Karl Sharro, un architetto libanese che vive a Londra e che spesso si diverte a raccontare in maniera ironica la politica mediorientale, ha commentato così la politica americana in Siria: «La posizione degli Stati Uniti in Siria è come quella di un pinguino che cerca di fare il giocoliere con dei pugnali infuocati mentre sta in piedi bendato su una palla, a bordo di un motoscafo».

La seconda cosa da considerare, ha scritto il New York Times, è che gli Stati Uniti hanno effettivamente fatto una scelta: hanno deciso di sacrificare qualcosa nella loro alleanza con i curdi pur di recuperare i rapporti con la Turchia, un paese membro della NATO e che viene considerato molto importante nella guerra contro lo Stato Islamico. La posizione americana è stata netta: mercoledì il vicepresidente Joe Biden ha detto che gli Stati Uniti avrebbero tolto l’appoggio ai curdi nel caso in cui non si fossero ritirati a est del fiume Eufrate. In pratica ha ribadito che non verranno accettati tentativi di creare uno stato curdo senza discontinuità territoriale oltre il confine meridionale della Turchia. Gli americani si sono mossi comunque con qualche prudenza, per quanto possibile: hanno pubblicizzato la conquista di Jarablus come un’operazione contro lo Stato Islamico, più che contro i curdi. E hanno dalla loro parte il fatto che i curdi avevano accettato di non espandersi a ovest dell’Eufrate, una condizione che era già stata messa in discussione dopo la vittoria di Manbij.

Quello che si può dire dell’operazione turca a Jarablus è che è una delle più importanti di tutta la guerra siriana, e non è ancora finita (giovedì mattina altri carri armati turchi sono entrati in Siria). Ha mostrato che per la Turchia l’obiettivo primario è la sconfitta dei curdi, anche a costo di rivedere i rapporti con il regime di Assad, finora suo grande nemico. Ha mostrato anche che per i curdi le cose non si stanno mettendo bene: senza l’appoggio degli Stati Uniti, con la costante opposizione del governo turco e ora anche con l’ostilità del regime di Assad è praticamente impossibile costruire uno stato curdo che si estenda lungo tutto il confine meridionale con la Turchia. E infine ha mostrato che messi di fronte alla scelta tra Turchia e curdi, gli Stati Uniti continuano a preferire la Turchia, nonostante la perdita di credibilità che una tale decisione può comportare.