Ah, l’agricoltura di una volta

No, non era migliore di quella di oggi, scrive Antonio Pascale sul Foglio, smontando il luogo comune naturale=buono industriale=malsano

Un'immagine tratta da una pubblicità del Mulino Bianco.
Un'immagine tratta da una pubblicità del Mulino Bianco.

Antonio Pascale, scrittore e ispettore del ministero delle Politiche agricole, ha scritto un articolo per il Foglio spiegando perché molti luoghi comuni sull’agricoltura italiana sono falsi (Pascale aveva già scritto diverse cose sul tema: per esempio aveva spiegato come mai mangiare verdura fuori stagione è una cosa buona, mentre il km zero meno). In particolare Pascale ha provato a smontare l’equazione che va tanto di moda negli ultimi anni secondo la quale naturale=buono mentre industriale=malsano: non è vero che tutto quello che associamo all’agricoltura di una volta – quella percepita come naturale – era sempre buonissimo e sanissimo. In passato, spiega Pascale, la carne fresca era dura e maleodorante, la frutta era aspra e immangiabile, le verdure fresche erano amare e il latte diventava acido. La qualità del cibo che mangiamo oggi è migliorata grazie al contributo dell’agricoltura moderna, scrive Pascale, che ci permette di comprare un’ottima passata di pomodoro italiano con solo 1 euro. Un discorso simile si può fare sulla biodiversità e sull’idea oggi molto diffusa che in passato c’erano molte più varietà dello stesso prodotto. Non è vero, anche perché molti anni fa chiamavamo con nomi diversi le stesse varietà di beni. Sapete quante varietà di pomodoro esistono oggi, create ex novo dall’uomo? 75mila.

Vi prego, non vi arrabbiate. Vorrei provare a discutere due convinzioni. La prima: il cibo di una volta era migliore. La seconda: una volta c’era più biodiversità. No no, aspettate, non chiudete il giornale, non ho intenzione di provocare gli animi dei lettori, e poi, soprattutto, in fatto di cibo la penso come tutti: voglio mangiare bene e sempre, desidero che mangino tutti e voglio inquinare il meno possibile. Insomma, voglio tutto e con meno costi, quindi, appunto, la penso come tutti, scusate il bisticcio. Fate caso ad alcune pubblicità? Quelle del latte: un bonario contadino che munge a mano. Il latte bianco e puro che stilla come un’onda. Ora, osservate la successione dei vostri pensieri: munto a mano quindi naturale, naturale quindi pulito. Dunque, per associazione il latte di una volta – e le mungiture di una volta – era più sano. Naturalmente, chi detiene un po’ di conoscenza scientifica e zootecnica non gradisce molto quelle pubblicità. Questi tecnici vi diranno che il latte ottenuto con la mungitrice meccanica è più controllato, più sicuro, soprattutto protegge le mani al mungitore che tra l’altro sono rovinate dall’artrite e piene di calli. Ma rompere queste associazioni – naturale uguale buono, industriale invece è malsano – è estremamente difficile e controproducente.

Per essere precisi bisognerebbe raccontare la storia dall’inizio, per esempio, di quando Louis Pasteur, professore di Chimica a Lilla, presentò alcuni suoi esperimenti sull’inacidimento del vino e del latte, a un convegno tenutosi alla Sorbona. Era il 1864. Riteneva che i germi vivessero dovunque e fossero, altresì, i principali responsabili dei processi fermentativi. Con i suoi esperimenti, Pasteur dimostrò che i germi potevano essere eliminati mediante bollitura. Questa scoperta condusse all’attuale pastorizzazione del latte. Ora, appunto nell’immaginario pubblicitario, non capita quasi mai di vedere un impianto di pastorizzazione, con i suoi bellissimi e lucenti tubi d’acciaio ad angolo retto che permettono al latte pompato nel sistema, di rimescolarsi ogni volta che incontra l’angolo. In questo modo, il calore di pastorizzazione non si ferma in superficie ma interessa anche gli strati più profondi del liquido.

Certo, sarebbe utile, oltreché bello, se le pubblicità rendessero di tanto in tanto omaggio oltre ai mungitori, anche a Pasteur. Perché la scoperta dell’acqua calda, contrariamente al noto proverbio, è stata, in realtà, un’importante conquista per l’umanità. Ma è difficile. Io stesso se fossi un pubblicitario avrei problemi a immaginare uno spot siffatto, poi chi li sente quelli di Slow Food? Il loro manifesto fondativo comincia così: “Questo secolo, nato e cresciuto sotto il segno della civiltà industriale, ha prima inventato la macchina e poi ne ha fatto il proprio modello di vita. La velocità è diventata la nostra catena, tutti siamo in preda allo stesso virus: la fast life”. Vedete? Questi sì che sanno parlare, evocano il Secolo, la Macchina, il Virus e io sto qui a parlarvi di Pasteur e degli impianti di mungitura industriali? Dai, non c’è partita. Eppure è importante conoscere alcune coordinate d’insieme. Capisco, l’equazione naturale buono vs macchina cattiva sgorga sì spontanea, ma è sbagliata, davvero. In genere per smontare la suddetta, noi tristi tecnici cerchiamo di spiegare che prima di tutto la natura non pensa a noi. Il melo non fa le mele per me. Non ci pensa proprio. Al massimo fa le mele affinché gli orsi mangiando il frutto disseminino i semi. Insomma, il melo fa le mele perché pensa a riprodursi. Secondo: la natura comprende tutto e non sta mai ferma, è frutto di interazioni incessanti, la natura detesta la staticità. Avete presente il cavolo? Quell’odore di zolfo? Anche quello è un pesticida.

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