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  • Venerdì 13 maggio 2016

Il futuro della nazionale italiana di rugby

È questo signore: si chiama Conor O'Shea ed è il nuovo allenatore della nazionale, molto ammirato, che arriva in un momento pessimo

di Pietro Cabrio – @piercab

Conor O'Shea nel 2015 durante una partita degli Harlequins (Harry Engels/Getty Images)
Conor O'Shea nel 2015 durante una partita degli Harlequins (Harry Engels/Getty Images)

Per il rugby italiano la stagione che si è appena conclusa è stata una delle peggiori degli ultimi 15 anni, cioè da quando la nazionale è entrata a far parte del Sei Nazioni e l’Italia era stata così riconosciuta come uno dei paesi europei in cui il movimento rugbistico è più sviluppato. In 15 anni si sono visti pochissimi miglioramenti, sia nei risultati della nazionale che in quelli dei club, per via di investimenti e scelte sbagliate o inefficaci da parte della federazione nazionale (FIR).

Da alcuni anni diversi ex famosi rugbisti italiani criticano costantemente la federazione e i suoi dirigenti, e le critiche si sono intensificate notevolmente dopo il pessimo Sei Nazioni disputato dalla nazionale tra febbraio e marzo: anche nei confronti di Jacques Brunel, l’allenatore uscente della nazionale. Nel rugby l’allenatore della squadra nazionale è un ruolo molto importante, con compiti che non riguardano solo la gestione e la selezione dei giocatori: per questo, come successore di Brunel, la federazione ha ingaggiato l’irlandese Conor O’Shea, probabilmente uno degli allenatori più apprezzati degli ultimi anni nel campionato inglese, definito “un vincente” e “un visionario”, e per molti aspetti assai diverso dal francese Brunel.

L’ultimo Sei Nazioni
Nelle cinque partite giocate nel Sei Nazioni di quest’anno l’Italia ha sempre perso, e solo nel primo incontro, con la Francia, è stata all’altezza degli avversari, cosa che aveva inizialmente nascosto i tanti problemi della squadra, causati a loro volta da tutto quello che c’è dietro: nessuna squadra di club veramente competitiva in Europa, mancanza di allenatori preparati e un sistema giovanile male organizzato che non dà a tutti la possibilità di crescere nel migliore dei modi.

Che l’ultimo Sei Nazioni potesse essere un torneo molto difficile per l’Italia, era noto già da prima del suo inizio: la rosa iniziale dei convocati era composta da molti giocatori esordienti e inesperti perché numerosi titolari non erano stati convocati: infortunati o non utilizzati abbastanza nei propri club. Giocatori fondamentali come Andrea Masi, Simone Favaro, Joshua Furno, Tommaso Allan, Luca Morisi e Andrea Manici sono stati lasciati fuori per questi motivi. Altri, come gli esperti Martin Castrogiovanni e Leonardo Ghiraldini, non erano in buone condizioni fisiche e hanno giocato solo un paio di partite. Oltre a questo, l’allenatore Jacques Brunel era già sicuro della scadenza del contratto con la nazionale italiana, che avrebbe lasciato in ogni caso nei mesi estivi.

Dopo la pesante sconfitta per 58 a 15 contro l’Irlanda, Sergio Parisse, capitano della nazionale italiana e uno dei più forti giocatori al mondo, aveva parlato apertamente dei problemi del rugby italiano. Secondo Parisse (la cui opinione è simile a quella di molti altri) è soprattutto una questione di mancanza di esperienza internazionale: le squadre italiane di club sono gestite male, il livello nazionale è molto basso e i giocatori non hanno praticamente mai la possibilità di misurarsi con avversari forti come quelli che incontrano al Sei Nazioni.

Alcuni ragazzi hanno imparato più un mese nel Sei Nazioni che due anni col club. Bisogna farsi qualche domanda.

Un’involuzione? Sì, se si vede il risultato. C’è un cambio generazionale, sono tanti i ragazzi che muovono i loro primi passi: non è una scusa o un alibi. Questa è la realtà, bisogna restare positivi e aiutarli a crescere per il futuro. C’è da capire che si può sempre migliorare e come movimento dobbiamo renderci conto che bisogna cambiare strada e vedere se le cose finora fatte ci hanno dato risultati o no.

Il cambio di allenatore
Per il sistema rugbistico di un paese l’allenatore della nazionale è un ruolo fondamentale. Se vogliamo fare un paragone, è molto più importante dell’allenatore di una nazionale di calcio, i cui compiti sono quasi esclusivamente limitati alla gestione della nazionale maggiore, e poco altro. L’allenatore di una nazionale di rugby invece, con l’aiuto di assistenti e collaboratori da lui scelti, può impostare dei metodi di allenamento usati poi a livello nazionale e può consigliare alla federazione le riforme più importanti da attuare.

Lo scorso marzo la federazione italiana ha ufficializzato l’ingaggio dell’irlandese Conor O’Shea, che inizierà il suo lavoro nelle prossime settimane dopo aver lasciato il suo precedente incarico nella squadra inglese degli Harlequins. O’Shea ha 45 anni, è il primo irlandese ad allenare la nazionale italiana ed è considerato un allenatore molto intelligente, con esperienze non legate esclusivamente al mondo del rugby che probabilmente hanno influenzato la scelta della federazione di affidargli un compito che al momento si presenta come molto complicato, e va oltre il conseguimento di risultati con la nazionale.

L’ottima carriera da giocatore di rugby di O’Shea si interruppe presto, nel 2000, per la persistenza di alcuni problemi fisici derivati da un infortunio durante una partita con i London Irish, la squadra in cui giocava. Nel 2000 O’Shea aveva trent’anni, che per un rugbista è l’età migliore, e interruppe una promettente carriera, in cui aveva rappresentato l’Irlanda per 35 partite. Terminata la carriera, O’Shea rimase con i London Irish come dirigente e poi come allenatore. Nel 2005 lasciò il club per diventare il direttore delle accademie regionali della Rugby Football Union, la federazione inglese (la più prestigiosa al mondo). Mantenne la carica per tre anni, passati a visionare e selezionare i ragazzi inglesi più promettenti. Nel 2008 divenne direttore dell’Istituto inglese dello sport, un’organizzazione nata nel 2002 per fornire sostegno medico e preparatorio ai migliori atleti del paese di varie discipline.

L’incarico più importante per la carriera rugbistica di O’Shea fu quello agli Harlequins di Londra, di cui divenne allenatore nel 2010. O’Shea iniziò ad allenare gli Harlequins a marzo, quindi ben oltre la metà della stagione, e pochi mesi dopo vinse la Challenge Cup, la seconda competizione europea per club. L’anno dopo portò la squadra alla vittoria del campionato inglese, nonostante non fosse considerata fra i favoriti. O’Shea è stato l’allenatore che ha guidato il club nel miglior periodo dalla sua fondazione, nel 1866. Dalla vittoria del campionato, fino a oggi, gli Harlequins si sono confermati inoltre come una delle squadre più forti del campionato inglese e a tratti, secondo molti commentatori, hanno giocato il miglior rugby del campionato. In una recente intervista al Guardian, O’Shea ha spiegato che i cali nelle prestazioni della sua squadra sono stati spesso riconducibili alla concomitanza con il Sei Nazioni e con altri impegni internazionali. O’Shea ha spiegato di ritenere molto importante il riposo nella carriera di un rugbista, e che preferisce risparmiare i propri giocatori più forti rischiando di perdere qualche partita ma salvaguardando le loro condizioni fisiche.

O’Shea è molto ben visto sia dai tifosi inglesi sia dai giornalisti sportivi, in particolar modo per via della sua adattabilità. Ad aprile la sezione sportiva del Telegraph ha titolato così un articolo sull’allenatore degli Harlequins: “L’Italia è fortunata ad accogliere Conor O’Shea — mancherà molto agli Harlequins”. Più volte poi, nei giornali sportivi britannici, è stato scritto che ci si aspetta di vedere un grosso cambiamento nelle prestazioni dell’Italia dopo la scelta di ingaggiare O’Shea. Il Guardian, pochi giorni fa, ha pubblicato una lunga intervista in cui l’allenatore irlandese ha parlato della sua carriera in Inghilterra e di quello che lo aspetterà in Italia. Spiegando i motivi della scelta di trasferirsi in Italia, O’Shea ha detto:

“Mi è sempre piaciuto fare cose diverse per tenermi fresco, come andare negli Stati Uniti dopo la Coppa del Mondo del 1995 per seguire un master in gestione sportiva. So che è il momento giusto, per me e per il club, per prendere questa decisione. Ho fatto quello che ho potuto per molto tempo. Certa gente può durare anche 50 anni, ma io so che è il momento giusto. La vera sfida per me è iniziare qualcosa di nuovo ed eccitante”.

“Quando iniziai ad allenare gli Harlequins la stagione era finita, non c’era niente a cui puntare e ho potuto incontrare i giocatori e i membri del club, parlarci e osservare senza fare nient’altro di importante. Ho usato poi l’estate per fare dei cambiamenti e questo sarà quello che farò in Italia. È difficile finire la stagione qua, volare a Roma, incontrare i giocatori e dire “ciao” in un pessimo italiano. Da agosto trasferirò anche la mia famiglia in Italia. Ho delle idee, ma voglio parlare con le persone prima. Quando ho ricevuto l’offerta, ho dovuto pensare a mia moglie e alle mie due figlie perché questo non riguarda solo me. Le bambine hanno nove e sei anni e quando ti impegni da qualche parte per quattro anni vuoi che tutto sia a posto per loro, perché le vuoi vedere felici. So che sarà difficile quando lasceranno la loro amata scuola a Maidenhead, ma crediamo tutti di poterci godere questa nuova esperienza. Ho guardato alla sfida che mi attende in Italia da molti punti di vista e spero di poter ripagare la fiducia che hanno risposto in me. Quando ero ragazzo mio papà fu vicino a trasferire la famiglia a Roma. Decise di rimanere: ho parlato con lui del lavoro in Italia e mi ha detto che avrei potuto fare quello che lui non ha fatto. È buffo come va il mondo”.

Ad inizio anno O’Shea ha partecipato ad una TED Conference al King’s College di Londra, in cui ha parlato dell’importanza della collaborazione per raggiungere risultati importanti nello sport. Fra le altre cose, ha detto che per dare più sicurezza ai propri giocatori li ha fatti partecipare a delle brevi stand-up comedy, degli spettacoli di umorismo tenuti da una sola persona alla volta, che sta in piedi sopra un palco e parla per qualche minuto. Proprio con i giocatori che allena, O’Shea ha un rapporto particolare: quasi inesistente al di fuori dal campo di allenamento ma molto intenso al suo interno: non si è mai scontrato duramente con un giocatore e tutti lo ricordano come una brava persona e uno dei migliori allenatori in circolazione. O’Shea, in una delle numerose interviste pubblicate pochi giorni fa, ha detto che dopo la finale di Challenge Cup contro il Montpellier, la sua ultima partita con gli Harlequins, andrà per la prima volta a bere una birra con i suoi giocatori, qualunque sia il risultato.

Al termine della finale O’Shea si trasferirà in Italia e a giugno partirà subito per il tour della nazionale in America, dove giocherà contro Argentina, Canada e Stati Uniti. Al tour parteciperanno anche l’allenatore della Benetton Treviso Marius Goosen e quello delle Zebre Rugby Gianluca Guidi, le due squadre italiane più forti, per “approfondire la collaborazione e la condivisione tra lo staff tecnico della nazionale e le franchigie di PRO12”, il campionato in cui giocano entrambe le squadre. Poi O’Shea si stabilirà definitivamente a Verona, più o meno a metà strada tra Treviso e Parma, le città in cui hanno sede Benetton e Zebre, e ad agosto sarà raggiunto dalla sua famiglia. Con lui si porterà anche il preparatore inglese Mike Catt, che allenerà l’attacco della nazionale, e Stephen Aboud, ex responsabile della direzione tecnica della federazione irlandese che seguirà lo sviluppo delle giovanili, una delle cose in cui l’Italia è più indietro e per cui l’esperienza di O’Shea potrebbe rivelarsi fondamentale.