Pro e contro il referendum costituzionale

Per cosa si andrà a votare a ottobre, spiegato bene: si parla di dimensioni e ruolo del Senato e poteri delle regioni; il governo è per il sì – tutti-tutti? – e l'opposizione per il no

(ANSA/GIUSEPPE LAMI)
(ANSA/GIUSEPPE LAMI)

Il prossimo ottobre si voterà per un referendum costituzionale in cui gli elettori decideranno se approvare o respingere le riforme della Costituzione promosse dal governo Renzi e approvate dal Parlamento. Non è previsto il quorum: vinceranno i “sì” o i “no” indipendentemente da quante persone andranno a votare. La data non è ancora stata stabilita, ma considerati i tempi tecnici necessari è probabile che si voterà nel corso della prima metà del mese.

Quello di ottobre sarà il terzo referendum costituzionale nella storia della Repubblica italiana. Il primo si tenne nel 2001 e portò alla conferma delle modifiche del Titolo V della Costituzione, che regola le autonomie locali (l’attuale riforma, tra le altre cose, in larga misura annulla proprio quelle modifiche). Il secondo si tenne nel 2006 e portò alla bocciatura della riforma costituzionale promossa dal governo Berlusconi, la cosiddetta “devolution”. Prima del 2001 tutte le modifiche alla Costituzione erano state ottenute con i voti di due terzi delle Camere e quindi non avevano avuto bisogno di essere confermate con un referendum.

Di seguito le principali modifiche introdotte dalle riforme su cui si voterà a ottobre e le principali argomentazioni di chi sostiene il “sì” e di chi sostiene il “no”.

Cosa contengono le riforme costituzionali
Le riforme costituzionali sono contenute nel ddl Boschi, un testo preparato dal ministero per le Riforme Costituzionali, guidato dal ministro Maria Elena Boschi, e approvato definitivamente lo scorso 12 aprile. La legge è divisa in 41 articoli che modificano cinque dei sei “Titoli” in cui è divisa la seconda parte della Costituzione italiana. Le modifiche sono diverse e non tutte collegate le une alle altre: per questo è più corretto parlare di “riforme costituzionali”, al plurale (e, come vedremo, è uno dei punti su cui riforma e referendum sono criticati).

– Riforma del Senato
La riforma prevede una forte riduzione dei poteri del Senato e un cambio nel metodo di elezione dei senatori. Si tratta della parte più importante della riforma e avrà come conseguenza principale la fine del bicameralismo perfetto, cioè la forma parlamentare in cui le due Camere hanno sostanzialmente uguali poteri e uguali funzioni: un sistema che non ha nessun altro paese in Europa. Il nuovo Senato non darà la fiducia al governo, che quindi per insediarsi e operare avrà bisogno soltanto del voto della Camera.

Il Senato manterrà la sua “competenza legislativa”, cioè la possibilità di approvare, abrogare o modificare leggi, soltanto in un numero limitato di ambiti: riforme costituzionali, disposizioni sulla tutela delle minoranze linguistiche, referendum, enti locali e politiche europee. In tutti gli altri, la Camera legifererà in maniera autonoma: per approvare una legge, quindi, non ci sarà più bisogno di un voto favorevole da parte di entrambi i rami del Parlamento ma basterà il voto della Camera. Il Senato potrà chiedere modifiche dopo l’approvazione della legge, ma la Camera non sarà obbligata ad accettarne gli emendamenti. Tra le altre competenze rimaste al Senato ci sono la partecipazione all’elezione di due giudici costituzionali, del presidente della Repubblica e dei membri laici del Consiglio superiore della magistratura.

Insieme alle competenze, cambierà anche la composizione del Senato, che passerà da 315 a 100 membri. I senatori non saranno più eletti direttamente, come avviene oggi, ma saranno scelti dalle assemblee regionali tra i consiglieri che le compongono e tra i sindaci della regione. In tutto il Senato sarà composto da 74 consiglieri regionali, 21 sindaci e cinque senatori nominati dal presidente della Repubblica che resteranno in carica per sette anni. I dettagli su come saranno eletti i senatori provenienti dalle regioni non sono specificati nel ddl Boschi: servirà una legge che determini esattamente come avverrà la loro elezione. Su questo punto ci sono stati aspri scontri politici, anche per la sua formulazione ambigua: i senatori saranno eletti «in conformità alle scelte espresse dagli elettori per i candidati consiglieri in occasione del rinnovo dei medesimi organi». In altre parole, la legge ordinaria potrebbe stabilire che in occasione delle elezioni regionali sarà necessario indicare sulla scheda la propria preferenza per il consigliere regionale che l’assemblea dovrà eleggere come suo rappresentante al Senato.

– Titolo V
La seconda parte più importante della riforma riguarda la riduzione dell’autonomia degli enti locali a favore dello stato centrale. Questa riduzione si otterrà con la modifica del Titolo V della seconda parte della Costituzione, che contiene le norme fondamentali che regolano le autonomie locali. Il Titolo V era già stato modificato con la riforma Costituzionale del 2001, quando alle regioni fu garantita autonomia in campo finanziario (con cui poter decidere liberamente come spendere i loro soldi) e organizzativo (con cui poter decidere quanti consiglieri e quanti assessori avere e quanto pagarli). La riforma inoltre specificò quali erano le competenze esclusive dello Stato, lasciando alle regioni il compito di occuparsi di tutte quelle non nominate esplicitamente.

Con il ddl Boschi, molte di quelle competenze torneranno in maniera esclusiva allo Stato, mentre le competenze concorrenti (cioè condivise tra Stato e regioni) scompariranno completamente. La competenza principale che rimane alle regioni sarà la sanità. Nella riforma sono anche contenute clausole che permettono allo stato centrale di occuparsi di questioni esclusivamente regionali, nel caso lo richiede la tutela dell’interesse nazionale. La riforma porterà anche all’abolizione definitiva delle province, che negli ultimi anni sono già state progressivamente svuotate delle loro principali funzioni.

– Elezioni del presidente della Repubblica, abolizione del CNEL e referendum
La riforma prevede anche una serie di cambiamenti di portata meno rilevante, ma comunque importanti. Il presidente della Repubblica sarà eletto dalle due camere riunite in seduta comune, senza la partecipazione dei 58 delegati regionali come invece avviene oggi. Sarà necessaria la maggioranza dei due terzi fino al quarto scrutinio, poi basteranno i tre quinti. Solo al nono scrutinio basterà la maggioranza assoluta (attualmente è necessario ottenere i due terzi dei voti fino al terzo scrutinio; dal quarto scrutinio è sufficiente la maggioranza assoluta: Napolitano e Mattarella sono stati eletti così).

Il ddl Boschi prevede anche l’abolizione del Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro, un organo previsto dalla Costituzione (all’articolo 99). Il CNEL è un “organo consultivo”, con la facoltà di promuovere disegni di legge (quasi mai usata nella sua storia). È composto da 64 consiglieri, in parte nominati dal presidente della Repubblica e dal presidente del Consiglio (dieci persone, definite come “qualificati esponenti della cultura economica, sociale e giuridica”), in parte dai rappresentanti delle categorie produttive (48 membri, tra cui ventidue rappresentanti dei lavoratori dipendenti – in sostanza i sindacati – tre in rappresentanza dei dirigenti pubblici e privati, nove rappresentanti dei lavoratori autonomi e delle professioni e diciassette rappresentanti delle imprese) e in parte dai rappresentanti di associazioni e volontariato (6 membri).

Infine, la riforma lascia aperta la possibilità di introdurre referendum propositivi, cioè per introdurre nuove leggi (oggi invece i referendum possono solo confermare o abrogare leggi già approvate). L’introduzione di questo nuovo tipo di referendum è demandata alle leggi ordinarie.

Le ragioni del sì
Il PD e le altre forze politiche che sostengono il governo – le principali sono Area Popolare (NCD più UdC) e ALA (i cosiddetti “verdiniani”) – sono a favore del “sì”. Il presidente del Consiglio Matteo Renzi ha investito molto nel referendum costituzionale, dicendo che si voterà sulla “madre di tutte le riforme” e che si dimetterà in caso di vittoria dei “no”.

La campagna elettorale per il referendum è appena cominciata, ma sono già emersi diversi punti e temi a favore del “sì”. Quelli comunicativamente più spendibili sono la diminuzione nel numero dei parlamentari e i risparmi sui loro stipendi (sono stati sintetizzati, a volte in maniera ironica, come “taglio alle poltrone” e “taglio agli stipendi”). I risparmi saranno ottenuti dall’abolizione del CNEL, dal fatto che i senatori non riceveranno più uno stipendio e in piccola parte dalla definitiva abolizione delle province. Si tratta comunque di risparmi nell’ordine delle poche centinaia di milioni di euro su un bilancio pubblico di circa 500 miliardi di euro l’anno.

Le ragioni più sostanziali a favore del “sì” sono invece la semplificazione dell’iter legislativo, ottenuta grazie alla riduzione delle competenze del Senato e alla fine del bicameralismo perfetto. In questo modo si eviterà la cosiddetta “navetta”, cioè il “viaggio” che i testi di legge compiono più volte tra Camera e Senato per essere approvati. Se una camera apporta una modifica a una legge, infatti, oggi è necessario che il testo venga approvato nuovamente dall’altra camera, allungando così i tempi necessari ad approvare la nuova legge. In tutta Europa, l’Italia è sostanzialmente l’unico paese ad avere adottato questa forma di bicameralismo; quasi tutte le forze politiche in passato se ne sono lamentate, nel centrodestra e nel centrosinistra.

Infine, secondo i proponenti del sì, la modifica del Titolo V permetterà di risolvere molti dei conflitti di competenza che sorgono tra Stato e regioni. La legge di oggi, infatti, non è chiarissima e spesso i tribunali amministrativi si trovano a dover risolvere dispute in cui Stato e regioni ritengono di essere gli unici autorizzati a legiferare su una certa materia. L’autonomia delle regioni poi in questi anni è stata considerata alla base dei molti scandali su spese, rimborsi e disservizi delle varie amministrazioni locali.

Le ragioni del no
Contro la riforma al momento sono schierate tutte le forze che si trovano all’opposizione: dalla sinistra radicale alla Lega Nord, passando per il Movimento 5 Stelle e Forza Italia (che inizialmente aveva collaborato alla scrittura della riforma, votandola anche in Parlamento).

Una delle critiche più popolari è l’accusa che questa riforma rischia di trasformare l’Italia in un paese “autoritario”, o che comunque restringa gli spazi di dibattito democratico e parlamentare. È una critica che si sente provenire spesso dal M5S, ma anche Forza Italia ha evocato questo rischio (in maniera un po’ incoerente rispetto al suo iniziale appoggio alla riforma). Si tratta di un timore che in passato è stato sollevato ogni volta che venivano proposte riforme che aumentavano i poteri del governo. La riforma attuale non interviene su questo punto, ma indebolendo una delle due Camere, rischia di rendere il governo comparativamente più forte.

Secondo una versione più “moderata” di questa critica, il rischio “autoritario” si presenta dalla combinazione tra queste riforme costituzionali e la nuova legge elettorale. Il cosiddetto “italicum“, infatti, prevede un ampio premio di maggioranza alla Camera per il partito che ottiene un voto in più degli altri. Secondo i critici, quindi, concentrando le funzioni legislative alla Camera, dove la forza di maggioranza godrà di un ampio vantaggio in termini di parlamentari rispetto all’opposizione e anche in confronto agli elettori effettivamente rappresentati, si rischia di dare troppo potere al governo e alla forza parlamentare che lo sostiene.

Queste critiche piuttosto radicali non sono necessariamente condivise dagli esperti di diritto, nemmeno tra quelli che criticano la riforma. Alla fine di aprile 56 costituzionalisti hanno pubblicato una lettera aperta per invitare a votare “no” al referendum, premettendo che «non siamo fra coloro che indicano questa riforma come l’anticamera di uno stravolgimento totale dei principi della nostra Costituzione e di una sorta di nuovo autoritarismo». Le loro critiche sono formali e sostanziali. Tra le prime c’è aver approvato la riforma senza un ampio consenso parlamentare, ma con una maggioranza soprattutto al Senato particolarmente ridotta.

Tra le critiche sostanziali c’è aver ridotto troppo i poteri del Senato, rendendolo inutile come vero “raccordo” tra stato e amministrazioni locali. Le modalità di scelta dei senatori, inoltre, li trasformerebbero in rappresentanti della maggioranza al potere nella singola regione, più che della regione in quanto tale. Una modifica al Titolo V, secondo gli autori della lettera, è necessaria, ma quella approvata nel ddl Boschi riduce troppo l’autonomia delle regioni, lasciando un numero eccessivo di poteri allo stato. La riforma introdurrà secondo i 56 costituzionalisti anche una procedura legislativa troppo complessa, che prevederà «leggi bicamerali, leggi monocamerali ma con possibilità di emendamenti da parte del Senato, differenziate a seconda che tali emendamenti possano essere respinti dalla Camera a maggioranza semplice o a maggioranza assoluta». Questa eccessiva varietà rischia di causare incertezze e conflitti.

Infine, i 56 costituzionalisti criticano anche il referendum stesso. Tutte le riforme sono contenute in un’unica legge, il ddl Boschi, quindi a ottobre gli elettori saranno chiamati a votare su un unico quesito: approvare o respingere in blocco l’intero pacchetto di riforme. «Un voto unico, su un testo non omogeneo, facendo prevalere, in un senso o nell’altro, ragioni “politiche” estranee al merito della legge. Diversamente avverrebbe se si desse la possibilità di votare separatamente sui singoli grandi temi in esso affrontati (così come se si fosse scomposta la riforma in più progetti, approvati dal Parlamento separatamente)».

Il tema di “come” avverrà il referendum è un aspetto particolarmente importante anche per le dinamiche interne al PD, il partito principale tra quelli che appoggiano il “sì”. Dopo lunghe trattative, la minoranza del PD ha accettato di votare le riforme in Parlamento, ma oggi questo appoggio al referendum non sembra completamente scontato. I leader della minoranza, come Gianni Cuperlo e Pierluigi Bersani, hanno lasciato intendere che il loro appoggio potrebbe vacillare se la campagna per il referendum dovesse assumere toni troppo “propagandistici”.