In difesa di Riccardo Cocciante

Oggi compie 70 anni ed è stato sempre messo in un altro campionato dei cantautori italiani, ma ha cantato imbattibilmente una cosa di tutti: l'essere schiantati da amori infelici

(R.Cesari / M.Pomati / FARABOLAFOTO)
(R.Cesari / M.Pomati / FARABOLAFOTO)

Riccardo Cocciante oggi compie 70 anni. È nato il 20 febbraio del 1946, a Saigon, dove lavorava suo padre: la famiglia – la madre era francese – tornò in Italia quando lui aveva undici anni. Ha avuto una carriera unica nella storia della canzone italiana, dove non è riuscito ad entrare nel campionato degli illustri e stimati cantautori della sua generazione e però ha ottenuto periodi di successo che quei suoi colleghi non hanno mai raggiunto, infilando in particolare una serie di canzoni memorabili nella storia della musica popolare e delle classifiche di vendita. Con due tratti distintivi della sua carriera, su tutti: l’inclinazione – soprattutto nella prima parte – a cantare di amori tristissimi e non corrisposti, con punte leggendarie di autoumiliazione e sofferenza, e l’invenzione del musical Notre-Dame de Paris, che dal 1998 ha avuto un incredibile successo di pubblico prima in Francia e poi anche in Italia.
Questo è il capitolo dedicato a Riccardo Cocciante da Luca Sofri, peraltro direttore del Post, nel suo libro Playlist.

Riccardo Cocciante (1946, Saigon, Vietnam)
Cocciante ha portato la croce per tutti noi. Ha sofferto per amore (ma che dico, sofferto: è stato devastato, umiliato, fatto a pezzi) a scopo artistico e scientifico: ha voluto vedere fino a che punto ci si potesse ridurre per un dolore di cuore, e poi ha raccolto i risultati e li ha esposti in una documentazione immortale, fatta di un pugno di belle canzoni. Nel resto della carriera si è arrabattato senza altrettanto costrutto, ma con un certo successo popolare.

Quando finisce un amore

(Anima, 1974)
Quando finisce un amore uno si riconosce in praticamente tutte le canzoni del mondo, fuorché “Fratelli d’Italia” (si sa di alcuni che si sono riconosciuti anche in “Fratelli d’Italia”, comunque). Ma pochi testi hanno disposto così lucidamente alla possibilità del salto dal balcone come questo. Che per un attimo sembra aprire uno spiraglio alla luce della speranza – “se potessi ragionarci sopra, saprei perfettamente…” – e subito lo chiude: “ma non posso”. A non avere un amore infelice, è bellissima.

Bella senz’anima

(Anima, 1974)
L’anno prima era stata la stessa cosa con Vasco Rossi. Nel 2006 l’apparizione da ospite di Riccardo Cocciante al Festival di Sanremo demolì qualsiasi cosa sarebbe accaduta un minuto dopo che lui avesse abbandonato il palco. Cocciante, conquistatore dei sette mari musicali con le sue opere ridondanti e teatrali, macchietta di se stesso e dei suoi atteggiamenti sempre inesorabilmente e sinceramente sofferenti e compresi, e infine irriso per tutti i due anni precedenti dalla definitiva imitazione di Fiorello; Cocciante, dicevo, si mise lì, fece ancora una volta “Bella senz’anima” e paralizzò quindici milioni di spettatori che un attimo dopo avrebbero ripreso a farsi i fatti loro con la coda dell’orecchio sulla manifestazione canora. “Bella senz’anima” è incredibile, un test di resistenza del gusto razionale sull’istinto sentimentale: è una canzone bellissima, con un andamento perfetto, e al tempo stesso un’escalation innegabile di sbracamenti, eccessi e sopralerighismo (“e se verrai di là, te lo dimostrerò, e questa volta tu te lo ricorderai”: santi numi). Tanto che ti viene per un momento da pensare: forse arrangiata più sobriamente, forse se non la cantasse lui… Invece no: è così che dev’essere. La vita è sbracata, eccessiva e sopra le righe.

Era già tutto previsto
(L’alba, 1975)
Nella classifica dell’autocommiserazione Cocciante piazzerebbe tre o quattro pezzi tra i primi dieci. Questa probabilmente sarebbe al numero uno. Una tristezza bestiale, che a momenti diventa quasi comica: un disastro di sfighe fantozziane, con lei che dice persino: “che io sono troppo buono, che per te ci vuole un uomo che ti sappia soddisfare”. E poi, il titolo la dice chiara sull’ineluttabilità fatalista delle sfortune del protagonista.

Primavera
(Concerto per Margherita, 1976)
Una canzone bellissima, trionfale, e senza l’ausilio di grandi sfighe sentimentali. Il prezzo da pagare
sono certi ardimenti metaforici agricolo-sessuali (“sarò il tuo contadino, e tu la terra mia… poi spargerò il mio seme nella tua verde valle”), ma la grandezza è nella musica e nell’orchestrazione.

A mano a mano

(Riccardo Cocciante, 1978)


«Perché a mano a mano la ragazza, stanca della stanza e spinta dal miraggio di cospicui guadagni, è diventata una donnina di malaffare. Lo deduciamo dal fatto che prima era “più vera” seppur povera, adesso invece, “nei sabato sera”, non lo è più. E questo particolare dei sabati sera non lascia spazio a molte altre scelte professionali: le cubiste, nel ’77, dovevano ancora inventarle. Va bene, se proprio insistete a difenderla, possiamo inventarci che faceva la cassiera di un cinema (porno). Siete contenti di questo castello di illusioni? Non la volete proprio guardare in faccia la realtà?»

(di Paola Maraone e Paolo Madeddu, Da una lacrima sul viso, Kowalski).

Un buco nel cuore
(Cocciante, 1982)
L’idea di poter avere “l’odore del mare” annidato “nelle pieghe dell’anima” è originale abbastanza da meritare un encomio. Ci si immaginano patelle e ricci di mare incollati alle pareti della sua coscienza, e quel buco nel cuore divenuto tana di polipi. “S-senza di te…”.

Celeste nostalgia
(Cocciante, 1982)
Sì, non è proprio all’altezza delle altre cose qui elencate, ma c’è quello svincolo aereo ed elegante quando dice “amore mio grande amica mia”, che vale una menzione e i novantanove centesimi del download. Novantotto, va’.

Sulla terra io e lei
(Sincerità, 1983)
“Lei amava i fiori vivi” mi ha sempre perplesso: significa definire “morti” tutti i meravigliosi mazzi di fiori che abbiamo sempre comprato fieri per le nostre ragazze. “Ciao, amore, ti ho portato dei fiori defunti”.