Le canzoni più belle di Elton John, già che ci siamo

Se vi torna voglia dopo averlo visto a Sanremo 2016, o se siete molto giovani

(Larry Busacca/Getty Images for Island Records)
(Larry Busacca/Getty Images for Island Records)

Elton John è “l’ospite internazionale” della prima serata del Festival di Sanremo 2016 (quella di quest’anno è la 66esima edizione del “Festival della Canzone Italiana”). Elton John è uno dei musicisti più famosi al mondo: dal 1962 ha venduto più di 400 milioni di dischi in 53 anni di carriera. È stato uno dei primi musicisti famosi a livello mondiale a dichiarare la sua omosessualità e da anni interviene a favore dei diritti delle persone omosessuali e in diverse iniziative di beneficenza. Nel 1998 è stato nominato Cavaliere dalla regina Elisabetta, quindi è “Sir Elton John”. Ed è appena uscito il suo nuovo disco. Queste sono le sue migliori 14 canzoni secondo Luca Sofri, peraltro direttore del Post, come le aveva scelte per il suo libro “Playlist”.

Elton John

Più che un cantante, un personaggio della storia del mondo. Il campione dello strappacore internazionale, con un curriculum da perdonargli tutte le sbandate più recenti. Per i primi anni ha scritto più grandi ballate d’amore lui dei Beatles; per i successivi ne ha scritte di più Luca Carboni. Macchietta della trasgressione e principe del kitsch, ma è stata di nuovo una sua canzone ad animare uno dei film più piacevoli sugli anni ruggenti del rock.

Your Song (Elton John, 1970)

Innamoràmose. Il suo primo grande successo, come si dice, o la “perfect lovesong”, come direbbero i Divine Comedy. Bernie Taupin, autore-scudiero, la scrisse che aveva 17 anni.

Tiny dancer (Madman across the water, 1971)

Resuscitata dal fantastico coro sul pullman di Almost famous (a cui si sovrappone lo scambio tra i protagonisti: “I want to go home”, “You are home”): ci sono canzoni che guadagnano nella karaokizzazione cinematografica, come anche “The track of my tears” in Platoon. La “tiny dancer” è la ragazza di Taupin, poi sua moglie, in tour con la band: e più in generale una groupie, trattata con dolcezza e romanticismo inconsueti.

Come down in time (Tumbleweed Connection, 1971)

Per molti anni Elton John furono due persone: Elton John e Bernie Taupin, con cui scriveva le canzoni. Erano come Mogol e Battisti. In “Come down in time” lui aspetta lei invano, come capita in molte canzoni e molte vite. Ma diversamente da Phil Collins, che in “Misunderstanding” cercherà di convincersi che lei non sia arrivata a causa di qualche equivoco, Elton Taupin ha lucidamente chiara la sua sorte: “There are women and women. And some hold you tight, while some leave you counting the stars in the night”. Ci sono anche un’arpa, e un oboe.

Rocket man (Honky Chateau, 1972)

La versione Bernie Taupin di “Space Oddity” di Bowie non regge il confronto in termini di contenuti, ma chi se ne importa. Gran canzone, con palese doppio senso laddove l’uomo razzo se ne sta lassù nello spazio “a bruciare da solo la sua miccia”. Anni dopo, Kate Bush ne fece una cover che non sarebbe stata male se non avesse affidato il refrain a un imbarazzante ritmo reggae. Ma la versione più leggendaria è quella interpretata da William Shatner (il comandante Kirk di Star Trek) a una serata pubblica dedicata alla fantascienza nel 1978, di cui circola un video su internet.

Crocodile rock (Don’t shoot me I’m only the piano player, 1973)

Prendi un attacco salterino, mettici un po’ di vecchio rock’n’roll e un po’ di nuovo glam-rock, infilaci un improbabile lala-lala-lààààà che pare Speedy Gonzales, dagli un titolo che cita “See you later alligator”, e voilà: il più appiccicoso dei pezzi appiccicosi.

Goodbye yellow brick road (Goodbye yellow brick road, 1973)

La strada dei mattoni gialli viene dal Mago di Oz. L’idea di Elton che molla tutto e torna dal vecchio gufo nel bosco, fa un po’ ridere: chissà il gufo, quando se lo vede comparire davanti.

Bennie and the Jets (Goodbye yellow brick road, 1973)

Wow. Non solo breaking-myheart: vecchio pezzo molto à la Ziggy Stardust, con tanto pianoforte da pianobar e finti applausi e strilletti del pubblico. Grande ritmo – “B-b-beniendegèz!” – e citazione nella successiva “Rollo & his Jets” di De Gregori.

Don’t let the sun go down on me (Caribou, 1974)

L’incisione di “Don’t let the sun go down on me” fu faticosissima, con Elton John nervoso e sempre insoddisfatto. Per i cori furono coinvolti alcuni dei Beach Boys, altri degli America e dei Three Dog Night, più Dusty Springfield e Toni Tennille di Captain & Tennille. Poi molte di queste parti furono scartate dalla registrazione. Venne fuori un pezzone teatrale e spiritual, che rinacque quasi vent’anni dopo, quando Elton apparve a sorpresa al concerto londinese di George Michael, e la cantarono assieme. L’esecuzione fu pubblicata e divenne il primo numero uno della storia delle classifiche britanniche a essere stato registrato all’aperto.

Someone saved my life tonight (Captain Fantastic and the brown dirt cowboy, 1975)

Il “someone” in questione è un cantante inglese amico di Elton John, Long John Baldry, citato anche come “sugar bear”. Elton si doveva sposare, e non era convinto per niente (comprensibilmente, col senno di poi): disse poi di aver persino tentato il suicidio (“someone saved my life tonight”). Baldry lo convinse ad annullare le nozze, e dedicarsi alle sue canzoni.
Tutti muti, e con gli accendini (o i telefonini, come si usa ora).

Sorry seems to be the hardest word (Blue moves, 1976)

Uno straclassico del dolore amoroso, da attaccarsi alle tende.
“Cosa devo fare perché tu mi ami, che devo fare perché te ne importi qualcosa? Cosa faccio quando mi sveglia il fulmine, e scopro che tu non ci sei?”.

Don’t go breaking my heart (1976)

Da bambini, solo sentire Lelio Luttazzi che presentava una canzone di “Elton Gion en Chichidì” era irresistibile. Kiki Dee ebbe una carriera piuttosto oscura, prima e dopo questa canzone.

Part-time love (A Single Man, 1978)

Taupin era andato via, e da qui in poi ci si arrangerà come si potrà. Ma questa è una canzonetta che si canticchia sempre volentieri.

Are you ready for love (Are You Ready For Love, 1979)

Un po’ Bacharach nell’introduzione, un po’ sound-di-Philadelphia nel refrain eccitato (Elton si era affidato a Thom Bell, celebrato produttore di laggiù), conobbe nuova vita come tormentone di una love parade di qualche anno fa. La parte migliore sono le percussioni, che si percepiscono appieno sotto “oooh, oooh, baby”.

Weight of the world (Weight of the world, 2004)

Sono stati anni e anni di cose dimenticabili, per Elton John. Senza potersi confrontare con un fallimento, senza potersi fermare un attimo, anzi stordito dal successo planetario e inarrivabile della sua terribile “Candle in the wind” divenuta colonna sonora della commozione globalizzata e istruita per la morte di Diana Spencer. Eppure, umilmente, nel 2004 fece un disco modesto, sincero, senza andare sopra le righe e senza gravi cadute di stile (stiamo pur sempre parlando di Elton John). Anzi con qualche canzone proprio buona.