Dormiamo troppo poco

Forse mai prima d’ora ci era capitato di rimanere abitualmente svegli così tante ore al giorno, spiega il New Yorker: e non è una buona cosa

di Antonio Russo – @ilmondosommerso

Un fotogramma del cortometraggio Disney Drip Dippy Donald (1948)
Un fotogramma del cortometraggio Disney Drip Dippy Donald (1948)

Negli ultimi cinquant’anni il tempo medio dedicato al sonno nei giorni feriali si è ridotto negli Stati Uniti di circa un’ora e mezzo per notte, scendendo da otto ore e mezzo a meno di sette ore: lo dicono alcuni dati resi pubblici dal Dipartimento dei disturbi del sonno e del ritmo circadiano del Brigham and Women’s Hospital di Boston. Il 31 per cento degli americani dorme meno di sei ore per notte, e il 69 per cento riferisce di dormire in modo insufficiente. In Europa l’insonnia grave – uno dei più frequenti disturbi del sonno – è calcolata tra il 4 e il 22 per cento della popolazione.

Di cosa stiamo parlando
La dilagante mancanza di sonno nella popolazione dei paesi sviluppati è determinata da cattive abitudini, da alterazioni dei meccanismi fisiologici che inducono il sonno, da altre patologie concomitanti, o da più fattori contemporaneamente. È ampiamente dimostrato dalla letteratura scientifica che i disturbi del sonno possono avere rilevanti ripercussioni negative sull’umore, la longevità e la produttività, oltre che contribuire allo sviluppo o all’aggravarsi di altre condizioni patologiche come l’ipertensione, le cardiopatie, il diabete, la depressione e il cancro. Secondo uno studio prospettico sull’evoluzione dei disturbi del sonno compiuto da Lisa Matricciani, ricercatrice all’Università dell’Australia Meridionale ad Adelaide, dal 1905 al 2008 la popolazione mondiale ha progressivamente ridotto di anno in anno il tempo dedicato al sonno nell’arco delle 24 ore.

In tre diversi articoli (1, 2, 3), pubblicati online in tre giorni nella prima metà di luglio, il New Yorker ha dettagliatamente analizzato le caratteristiche, le probabili cause e le conseguenze di questo generale cambiamento socio-culturale, considerando in particolare gli ultimi decenni. Gli articoli sono scritti dalla giornalista e scrittrice statunitense Maria Konnikova, che per il New Yorker cura una rubrica settimanale in cui si occupa principalmente di scienze sociali (scrive anche per Scientific American, Atlantic e New Republic, tra gli altri). Konnikova ha parlato con diversi ricercatori e specialisti in epidemiologia, neurologia, pneumologia e medicina del sonno, in una serie di incontri organizzati dalla Harvard Medical School, una delle più note scuole americane di specializzazione medica, a Cambridge (Massachusetts).

Perché dormiamo poco
Da un punto di vista medico generale il problema, spiega il New Yorker, in sostanza non è che ci alziamo troppo presto ma che andiamo a dormire troppo tardi. In molti casi il motivo per cui abbiamo difficoltà a prendere sonno ha una componente genetica. Alcuni, per esempio, si trovano “sfasati” rispetto agli orari di riposo della maggior parte delle persone a causa di un disturbo del ritmo circadiano, quello che regola i cicli sonno-veglia: questo disturbo a sua volta è spesso causato da un’insufficiente produzione di melatonina, l’ormone che ci induce ad addormentarci, o dall’assenza di recettori specifici.

Una mutazione genetica su larga scala e in un tempo relativamente tanto breve, tuttavia, è un’ipotesi alquanto implausibile per spiegare i motivi di una così diffusa e generale mancanza di sonno dovuta alla difficoltà di addormentarsi. La risposta ha più a che fare con le nostre abitudini in materia di “igiene del sonno”, spiega il New Yorker. Sostanze come nicotina, caffeina e alcol, per esempio, hanno un effetto tanto più negativo sulla quantità e qualità del nostro sonno quanto più vengono assunte in prossimità del momento di andare a dormire. Ci addormentiamo con più difficoltà, inoltre, quando mangiamo troppo e/o troppo tardi, e anche quando non facciamo regolarmente esercizio fisico.

Ma uno dei fattori più determinanti nella diffusione dei disturbi del sonno e delle cattive pratiche di igiene del sonno in generale è la prolungata e sempre maggiore presenza della luce artificiale durante le ore notturne. Spiega il New Yorker:

Come esseri umani ci siamo evoluti per essere particolarmente sensibili ai più piccoli cambiamenti di luce intorno a noi. Infatti nell’occhio ci sono specifici fotorecettori [cellule specializzate nella trasduzione dei segnali luminosi] che reagiscono soltanto ai cambiamenti tra luce e buio, e che sono usati quasi esclusivamente per regolare il nostro ritmo circadiano. Questi recettori della melanopsina [una proteina prodotta nella retina] si collegano direttamente alla parte del cervello che regola il nostro orologio interno. Funzionano persino in molte persone non vedenti: anche se non riescono a vedere nient’altro, i loro corpi sanno ancora come regolare il ritmo circadiano. La luce aiuta il corpo a presagire il futuro: è un indizio di come il nostro ambiente cambierà nelle ore e nei giorni seguenti, e i nostri corpi si adeguano in base a questo.

Il problema è che questo nostro meccanismo naturale di preparazione al futuro viene costantemente “ingannato” dalle emissioni di luce blu (o luce a onde corte) prodotte dai dispositivi elettronici – televisione, smartphone, tablet – che spesso utilizziamo fino a tarda sera e che il nostro ritmo circadiano interpreta come luce del giorno. In pratica è come se posticipassimo continuamente il segnale che dice al nostro cervello che è ora di andare a dormire, con il risultato di ottenere energia aggiuntiva piuttosto che produzione di melatonina.

Gli effetti negativi sul sonno dei dispositivi elettronici per la lettura usati prima di andare a dormire sono stati recentemente dimostrati in uno studio pubblicato sulla rivista scientifica Proceedings of the National Academy of Sciences (PNAS), molto ripreso dalla stampa generalista internazionale (lo studio ha tuttavia generato un macroscopico equivoco a causa di una non corretta distinzione tra dispositivi di lettura che emettono luce a onde corte, come tablet e smartphone, e dispositivi di lettura a inchiostro elettronico che non emettono luce).

I metodi artificiali per riuscire a dormire
È stato dimostrato che i farmaci che facilitano il sonno – il cui uso è peraltro pieno di controindicazioni e generalmente sconsigliato per periodi di tempo superiori a una settimana – siano meno utili di quanto comunemente si creda e generino comunque effetti meno sostanziali per l’organismo rispetto a quelli prodotti dal sonno “naturale”.

Secondo Matt Bianchi, capo del Dipartimento di medicina del sonno al Massachusetts General Hospital, le persone che fanno uso di sonniferi dormono mediamente soltanto 30-40 minuti in più rispetto alle persone che non ne fanno uso. Inoltre non esistono farmaci di questo genere in grado di imitare esattamente le fasi del sonno nella sua progressione naturale: molti, per esempio, reprimono la fase REM (Rapid Eye Movement) rischiando di ridurre o eliminare l’effetto rigenerante del sonno.

Una strada alternativa potrebbe essere quella indicata da Charles Czeisler, capo del dipartimento di disturbi del sonno e dei ritmi circadiani al Brigham and Women’s Hospital a Boston, e Steven Lockley, neuroscienziato a Harvard, che stanno finendo di sviluppare un sistema di luci artificiali che sarà utilizzato dalla NASA sulla Stazione Spaziale Internazionale a ottobre 2016. Servirà a indurre o quantomeno favorire il sonno al momento giusto. Il funzionamento prevede l’utilizzo progressivo di una serie di luci durante la giornata: una luce della stessa lunghezza d’onda della luce diurna, che ci tiene più svegli, è seguita da un graduale passaggio a luci di lunghezza d’onda via via più adatta alle fasi che precedono l’addormentamento.

I disturbi del sonno e le malattie correlate
Ancora non sappiamo con completezza quali siano tutti i benefici che il nostro corpo trae dal sonno, ma sappiamo piuttosto bene cosa smette di funzionare o comincia a funzionare male nel nostro organismo nei casi in cui il sonno è disturbato o insufficiente (e la definizione di “sufficiente” è un altro lungo e discusso pezzo della storia: ci arriviamo alla fine). Diverse ricerche scientifiche hanno mostrato una correlazione tra disturbi del sonno e altre malattie più o meno gravi: in alcuni casi i disturbi possono persino funzionare come “marcatori precoci”.

Durante i cicli di sonno profondo, nella fase REM, i movimenti incontrollati del corpo vengono normalmente impediti da uno stato di paralisi dei muscoli scheletrici: quando questo meccanismo neurobiologico non funziona correttamente, come nel caso di alterazioni di tipo genetico, la persona può muoversi nel sonno in modo non cosciente. Più della metà dei pazienti che presentavano questo genere di disturbo, in uno studio del Centro di Ricerca del Sonno dell’Hôpital du Sacré-Coeur a Montréal, hanno sviluppato – a distanza di dodici anni dall’inizio della ricerca – alcune forme di malattie neurodegenerative come il morbo di Parkinson e la demenza da corpi di Lewy.

Altre correlazioni si verificano nel caso delle apnee notturne, un disturbo del sonno caratterizzato da una sospensione o riduzione del respiro che può verificarsi più volte e per diversi secondi in uno stesso ciclo di sonno, causando una serie di microrisvegli necessari alla riattivazione della normale respirazione (la mattina seguente, il più delle volte, il paziente non ha memoria di questi risvegli). Alcuni trial clinici hanno mostrato una correlazione significativa tra le apnee notturne e il diabete, le malattie cardiovascolari e la possibile insorgenza di deficit cognitivi.

Circa il dieci per cento delle persone che soffrono di insonnia cronica, infine, mostrano alcuni tipi di deficit cognitivi durante le ore diurne. In genere, diversi studi hanno associato l’insonnia a un ampio quadro di altre malattie, dalla depressione all’ipertensione ai disturbi cardiovascolari, motori e cognitivi.

L’importanza del sonno per la memoria
Robert Stickgold, un ricercatore dell’Università di Harvard specializzato in disturbi del sonno, è l’autore di uno studio – pubblicato su Science nel 2000 – molto citato nel dibattito scientifico riguardo ai benefici del sonno nel consolidamento dei ricordi. Nell’esperimento di Stickgold a un gruppo di persone fu chiesto di giocare a Tetris, il popolare videogame degli anni Ottanta, per un totale di sette ore nell’arco di tre giorni. In quel gruppo alcuni conoscevano Tetris, altri non ci avevano mai giocato prima, e altri ancora non potevano neppure saperlo: erano pazienti amnesici con estesi danni al lobo temporale e all’ippocampo, e il loro particolare tipo di amnesia impediva la formazione di memoria episodica (un sottosistema della memoria dichiarativa che riguarda singoli eventi, autobiografici e non).

Ai soggetti dell’esperimento fu chiesto ogni notte, nelle prime fasi del sonno, di raccontare i loro sogni: in pratica venivano svegliati ripetutamente appena si addormentavano, e ogni volta dovevano cercare di ricordare al meglio e riferire ai ricercatori cosa stessero sognando. In un numero rilevante di casi emerse che i sogni erano legati a Tetris e che – fatto scientificamente notevole – questo valeva anche per i pazienti amnesici: non avevano comprensione di quello che visualizzavano nel sogno, né ricordavano di aver giocato al videogame nelle ore precedenti, ma nella descrizione del sogno facevano riferimento a scene di forme geometriche “in caduta” che richiamavano chiaramente la dinamica del gioco. L’esperimento mostrò che anche i pazienti malati erano in grado, durante il sonno, di rievocare immagini conservate senza contributo della memoria dichiarativa (o esplicita).

In un articolo pubblicato su Nature nel 2013, Stickgold ha trattato altri suoi lavori scientifici e commentato altre scoperte recenti nel campo della ricerca sul sonno. Sostiene che il sonno svolga una funzione determinante non soltanto nel consolidamento della memoria ma anche nella selezione dei ricordi rilevanti. È noto ed evidente che la nostra mente non conserva il ricordo di ogni singolo dettaglio delle nostre giornate (a meno che non si tratti della mente di Ireneo Funes, il protagonista dell’omonimo racconto di fantasia di Jorge Luis Borges): a volte formiamo un ricordo per ragioni emozionali, altre volte conserviamo un dettaglio banale. In ogni caso, sostiene Stickgold, il sonno e i sogni ci aiutano a isolare e memorizzare l’“essenza”, ciò che del nostro vissuto rimane nella nostra memoria.

I benefici sul funzionamento del cervello
Un altro esperimento molto citato nell’ambito della ricerca sul sonno, del 2004, è quello dei tedeschi Jan Born, neurobiologo dell’Università di Tubinga, e Ullrich Wagner, neuroscienziato dell’Università di Münster. Born e Wagner assegnarono a un gruppo di persone un problema di matematica relativamente complesso, senza dirgli che esisteva un modo più semplice di risolvere quel problema (una regola astratta che avrebbe permesso loro di raggiungere più velocemente la soluzione).

Poche persone arrivarono subito alla soluzione grazie alla regola nascosta. A tutti gli altri fu chiesto di pensarci sopra e di rispondere otto ore più tardi, dopo essere stati suddivisi in due gruppi: al primo gruppo fu permesso di dormirci sopra, al secondo gruppo no (potevano pensarci e basta, senza dormire). Alla fine, meno di un quarto delle persone del secondo gruppo trovò la regola per la soluzione rapida, mentre riuscì a trovarla il 60 per cento delle persone del primo gruppo, quelle che nel frattempo avevano potuto dormire. “Mentre dormiamo il nostro cervello riproduce, processa, impara, ed estrae significati”, sintetizza il New Yorker.

Oltre che per il buon funzionamento della memoria e per la salute dell’apparato cardiovascolare, è stato dimostrato che il sonno ha effetti benefici anche nel tenere la mente in buona forma. In un articolo del 2013 la neuroscienziata danese Maiken Nedergaard dell’Università di Rochester (New York) ha reso noti i risultati di anni di esperimenti condotti con tecniche molto avanzate riguardo le funzioni fisiologiche del sonno.

Quando siamo svegli le nostre attività e il nostro metabolismo comportano la produzione di una sorta di sostanze di scarto e di tossine nel sistema nervoso centrale, come per esempio il betamiloide, una proteina la cui produzione anomala è spesso associata a malattie neuorodegenerative come la malattia di Alzheimer. Secondo le ricerche di Nedergaard, quando ci addormentiamo alcuni specifici canali nel nostro cervello si espandono per permettere che il passaggio del liquido cefalorachidiano (o cerebrospinale) elimini queste tossine: questo meccanismo è stato denominato “sistema glinfatico”, un riferimento sia alle cellule gliali (quelle del sistema nervoso), sia alla circolazione linfatica (il meccanismo generale responsabile della rimozione delle sostanze in eccesso nel corpo umano) .

I rischi della mancanza di sonno negli adolescenti
Le conseguenze dell’abitudine di dormire poco per le persone adolescenti – ai quali, in teoria, servirebbero nove ore e mezzo di sonno per notte – possono essere ancora più gravi rispetto a quelle per gli adulti, ai quali otto ore per notte generalmente bastano. Judith Owens, direttrice del Centro per i disturbi del sonno al Boston Children’s Hospital, si è a lungo occupata degli effetti dell’orario dell’inizio della scuola sul piano delle ripercussioni fisiologiche sugli studenti. Si tratta di un tema da tempo dibattuto negli Stati Uniti, dove le lezioni nelle scuole superiori di diversi distretti scolastici cominciano generalmente alle 7:30, e in alcuni casi alle 7:15, per favorire la circolazione stradale e il trasporto pubblico, ed evitare sovrapposizioni con gli orari di lavoro dei genitori degli studenti.

Il problema è dato dal fatto che gli adolescenti sono notoriamente nottambuli: tendono biologicamente a sentirsi assonnati più tardi degli adulti, a causa del rilascio ritardato di melatonina, l’ormone del sonno. Quindi già il loro normale ritmo circadiano, senza considerare le cattive abitudini, li porterebbe ad andare a letto più tardi e svegliarsi più tardi. La tendenza statunitense ad arretrare l’orario di inizio delle lezioni – rintracciabile sin dagli anni Sessanta, secondo Owens – produce effetti molto negativi sia sul rendimento scolastico che sulla salute degli studenti: una sorta di costante effetto jet lag.

Non è soltanto una questione di numero complessivo di ore di sonno bensì un problema legato all’interruzione del ritmo circadiano: “svegliare un adolescente alle sei del mattino è come svegliare un adulto alle tre di notte”, dice Owens, spiegando che gli adolescenti sono costretti a svegliarsi quando il loro cervello dice loro di dormire profondamente. Diverse ricerche mostrano che dormire otto ore (o più) per notte permette agli adolescenti di apprendere meglio, essere meno inclini a comportamenti violenti e meno soggetti a infortuni fisici. La mancanza di ore di sonno sufficienti potrebbe invece essere alla base dell’incremento, in anni recenti, di diverse condizioni patologiche tra cui l’obesità e il disturbo da deficit di attenzione e iperattività.

“Walking dead”, come ubriachi
Konnikova, la giornalista del New Yorker, usa l’espressione “walking dead” – letteralmente: morti che camminano, come gli zombie dell’omonima serie televisiva – per definire la condizione di milioni di americani che vivono sinceramente convinti di essere abbastanza riposati e che invece non lo sono. Le persone che soffrono di disturbi del sonno negli Stati Uniti, secondo la neurologa e specialista in medicina del sonno Josna Adusumilli, sono tra 50 e 70 milioni.

Secondo Adusumilli, dormire sei ore a notte per dodici giorni – un dato molto vicino al numero di ore di riposo abituale per molti di noi – rende le prestazioni fisiche e cognitive di un adulto teoricamente indistinguibili da quelle di un adulto che sia rimasto sveglio per 24 ore di fila. E le prestazioni di una persona sveglia da 24 ore, secondo alcuni studi, sono simili a quelle di una persona con un tasso alcolemico di 1 g/L (una condizione di ebbrezza per cui, in caso di guida, in Italia sono previste multe fino a 3.200 euro, la sospensione della patente fino a un anno e l’arresto fino a sei mesi). In altre parole, sintetizza il New Yorker, quantità “normali” di privazione del sonno ci fanno agire come se fossimo ubriachi.

Negli Stati Uniti gli incidenti provocati da persone con disturbi del sonno alla guida di veicoli a motore, come mostrato da alcune ricerche (pdf), hanno un indice di mortalità paragonabile a quello degli incidenti causati da conducenti ubriachi. Già a metà degli anni Novanta, secondo una ricerca che riesamina dati relativi a uno studio precedente, gli incidenti causati dalla mancanza di sonno negli Stati Uniti generavano una perdita economica annuale quantificabile tra gli 860 milioni e 1,12 miliardi di dollari.

In Italia, secondo una ricerca Istat (pdf) del 2008, tra gli incidenti stradali causati da “uno stato psico-fisico alterato” del conducente, quelli legati alla mancanza di sonno rappresentano il 29,1% dei casi. Si tratta però, secondo l’Istat, di dati fortemente sottostimati a causa della frequente indisponibilità pratica e tecnica di questo genere di informazione al momento del rilievo (per questo motivo dal 2009 l’Istat non fornisce più questo tipo di dettaglio).

Gli effetti sul piano atletico e su quello dei comportamenti
Altre ricerche hanno confermato la presenza di deficit motori anche nelle prestazioni a breve termine degli atleti che non dormono a sufficienza: uno studio del 2011 dell’Università di Stanford dimostrò per esempio che giocatori di basket intorno ai venti anni, se ben riposati (almeno dieci ore per notte), hanno tempi di reazione più rapidi e ottengono prestazioni generalmente migliori rispetto a giocatori che rispettano i loro consueti orari di riposo.

Altri effetti nocivi della mancanza di sonno si manifestano in relazione all’“intelligenza emotiva”, all’abilità di valutare e controllare le emozioni proprie e quelle altrui, e nella capacità di prendere decisioni. Uno studio pubblicato nel 2004 sul New England Journal of Medicine, i cui esiti sono stati in seguito ottenuti altre volte, mostrò che durante il primo anno di internato al Brigham and Women’s Hospital a Boston i medici che svolgevano turni di lavoro regolari commettevano più del doppio degli errori di attenzione commessi dai loro colleghi che, in via sperimentale, avevano possibilità di riposare più a lungo nell’arco della settimana.

Diverse ricerche epidemiologiche (1, 2, 3), infine, hanno messo in relazione i disturbi del sonno e l’interruzione abituale dei ritmi circadiani con il deterioramento del sistema immunitario e lo sviluppo e la crescita di alcuni tipi di tumore, favorite da un’assente o alterata produzione ormonale.

Quante ore di sonno sono “abbastanza”
Anche quando una notte di sonno “buono” potrebbe in alcuni casi servire per rimediare a quattro o cinque notti di sonno insufficiente, siamo tendenzialmente poco inclini a recuperare il sonno arretrato. Questo succede perché in sostanza non abbiamo neppure consapevolezza di una mancanza di sonno, e molti di noi ritengono di essere pienamente svegli al mattino dopo sei ore di sonno per notte. “Siamo veramente pessimi a comprendere quanto sonno è abbastanza sonno”, spiega il New Yorker.

Sia la nostra scarsa attitudine a valutare correttamente le ore necessarie di sonno, sia la nostra latente e costante sonnolenza sono state confermate in passato da un esperimento di Elizabeth Klerman – specializzata in medicina del sonno alla Harvard Medical School – molto citato in questo genere di studi. A un gruppo di persone, per un periodo di due settimane, fu chiesto di scegliere in autonomia e libertà per quante ore rimanere svegli e per quante ore dormire (fino a un massimo di 16 ore) nell’arco della giornata. A Klerman interessava studiare i tempi di “latenza” del sonno (quanto tempo occorre alle persone per addormentarsi) e il numero complessivo di ore di sonno.

Gli esiti della ricerca fornirono, imprevedibilmente, dati ancora più interessanti rispetto alle informazioni attese. Durante la prima giornata dell’esperimento in laboratorio alcuni pazienti mostrarono da subito una sonnolenza patologica addormentandosi prima ancora che i tecnici incaricati di rilevare i tempi di latenza del sonno uscissero dalla stanza. Nella seconda giornata dell’esperimento, spiega Klerman, le persone dormirono mediamente per dodici ore e mezzo nell’arco di 24 ore, dimostrando di avere già in partenza una grave mancanza di sonno. Tutti avevano preso parte all’esperimento dichiarando di sentirsi pienamente svegli e in forma.

In sostanza è come se ciascuno di noi fosse ormai assuefatto a un suo personale livello di mancanza di sonno. Charles Czeisler, il capo del dipartimento di disturbi del sonno al Brigham and Women’s Hospital, sostiene che la nostra consapevolezza di avere del sonno arretrato duri al massimo per un paio di giorni; dopodiché, se intanto non abbiamo dormito abbastanza da recuperare, di fatto smettiamo di percepire che non stiamo funzionando al meglio delle nostre potenzialità e ci abituiamo al nostro “nuovo” io.

Conclude il New Yorker:

Tutti noi vogliamo essere più produttivi ed efficienti in quello che facciamo. Il punto è che quando cerchiamo di aumentare la nostra produttività aumentando le ore di veglia non stiamo facendo un favore a nessuno. A lesinare sul riposo perdiamo più di quanto potremo mai guadagnare aggiungendo qualche ora alle nostre giornate: siamo meno produttivi, meno intuitivi, meno felici, più inclini ad ammalarci. E proprio non abbiamo idea di quanto ne escano compromesse le nostre abilità e la nostra salute: chiedi a chiunque e ti risponderà che a lui vanno bene cinque, sei ore di sonno.