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  • Giovedì 2 aprile 2015

Perché Obama si è preso il rischio dell’Iran

Il Washington Post spiega perché l'amministrazione degli Stati Uniti sta insistendo a trattare col nemico storico sul nucleare, tra le critiche delle opposizioni interne e degli alleati stranieri

di Greg Jaffe - Washington Post

President Barack Obama speaks about Iran and Israeli Prime Minister Benjamin Netanyahu's speech to Congress, Tuesday, March 3, 2015, during a meeting with Defense Secretary Ash Carter in the Oval Office of the White House in Washington. The president said Netanyahu didn't offer any "viable alternatives" to the nuclear negotiations with Iran during his speech to Congress. (AP Photo/Jacquelyn Martin)
President Barack Obama speaks about Iran and Israeli Prime Minister Benjamin Netanyahu's speech to Congress, Tuesday, March 3, 2015, during a meeting with Defense Secretary Ash Carter in the Oval Office of the White House in Washington. The president said Netanyahu didn't offer any "viable alternatives" to the nuclear negotiations with Iran during his speech to Congress. (AP Photo/Jacquelyn Martin)

La maggior parte dei temi di politica estera di cui si è occupato Barack Obama durante i suoi sei anni di presidenza degli Stati Uniti gli sono stati imposti. Dalla precedente amministrazione Obama ha ereditato due guerre, una in Iraq e una in Afghanistan, che non è stato in grado di terminare. Ha dovuto reagire al caos che si è creato in Medio Oriente – in Iraq, Siria, Libia, Yemen – e alle interferenze della Russia in Ucraina orientale.
Ma i negoziati con l’Iran sulla questione del nucleare iraniano (cioè sulle limitazioni imposte alla ricerca e produzione sul nucleare a scopi civili perché questo non abbia anche utilizzi militari, ndr) sono una cosa diversa: sono stati una scelta. Obama li ha portati avanti nonostante le critiche dei Repubblicani, i ripensamenti dei Democratici e i dubbi dei paesi alleati agli Stati Uniti.

I colloqui sul nucleare iraniano si stanno tenendo di nuovo in questi giorni a Losanna, in Svizzera, tra molte difficoltà: mercoledì sera l’amministrazione americana ha deciso per la seconda volta in due giorni di prorogare la scadenza che era stata fissata al 31 marzo per il raggiungimento di un accordo politico tra l’Iran e i paesi del cosiddetto gruppo “5+1” – i cinque membri permanenti con potere di veto del Consiglio di Sicurezza dell’ONU (Francia, Regno Unito, Stati Uniti, Russia e Cina) più la Germania: il segretario di stato americano John Kerry ha detto che rimarrà in Svizzera per continuare i colloqui almeno fino a giovedì mattina. La decisione di proseguire i negoziati, nonostante le difficoltà di trovare un accordo con l’Iran, dice molto su come Obama interpreti la leadership degli Stati Uniti. E soprattutto chiarisce una delle sue impostazioni più evidenti nella gestione della politica estera americana, ovvero l’idea che l’”engagement” con i nemici – cioè una politica di coinvolgimento prolungato nel tempo – possa cambiare il mondo.

Obama ha spesso parlato di momenti in cui la leadership americana può “piegare l’arco della storia dell’umanità”. Un accordo con l’Iran rappresenta esattamente questa opportunità. I colloqui stanno toccando anche altri temi molto cari a Obama, per esempio la “proliferazione nucleare”. Nei suoi anni da senatore dell’Illinois, Obama parlò più volte di un mondo senza armi nucleari. Nel suo primo discorso da presidente sulla politica estera, Obama si concentrò sul pericolo che un gruppo terroristico, per esempio al Qaida, potesse entrare in possesso dell’arma nucleare. Nella piazza principale di Praga, in Repubblica Ceca, e di fronte a migliaia di persone, Obama disse: «Se noi crediamo che la diffusione delle armi nucleari sia inevitabile, allora stiamo ammettendo in qualche forma che l’uso delle stesse armi sarà inevitabile».

I colloqui sul nucleare riflettono anche l’idea di Obama che il miglior modo di cambiare un comportamento di un governo ostile al rispetto dei diritti umani non sia l’isolamento o la minaccia dell’uso della forza militare, ma un engagement costante. Negli ultimi anni, Obama ha cercato di ristabilire le relazioni diplomatiche e riaprire il commercio con alcuni paesi con cui gli Stati Uniti prima non avevano rapporti, come la Birmania e Cuba. Ivo Daalder, ex ambasciatore della NATO durante l’amministrazione Obama e capo del Chicago Council on Global Affairs, ha detto: «Obama crede che più sono le persone che interagiscono con delle società aperte, e più saranno coloro che vorranno fare parte di una società aperta».

L’Iran, un avversario degli Stati Uniti da molto tempo e sostenitore di alcune delle milizie e gruppi terroristici più potenti del mondo, è il test più grande e più difficile a cui è sottoposta l’idea di politica estera di Obama. Alcuni critici sono preoccupati che l’insistenza di Obama nel raggiungere un accordo con l’Iran stia portando la sua amministrazione a minimizzare i costi potenziali: anche se gli Stati Uniti e i loro alleati riuscissero a ottenere un accordo con l’Iran, potrebbero esserci comunque dei problemi. L’Iran potrebbe imbrogliare e violare l’accordo, oppure potrebbe usare i nuovi flussi di denaro ottenuti dalla sospensione delle sanzioni imposte sulla sua economia per finanziare le milizie o i gruppi terroristici suoi alleati.

Obama conosce i rischi, ma insiste che le alternative di un accordo – sanzioni ancora più dure, oppure un attacco militare – sarebbero ancora peggio. Obama è diventato sempre più coinvolto nei colloqui, hanno detto alcuni suoi collaboratori: oggi è in grado di specificare anche i dettagli sul numero e il tipo di centrifughe che l’Iran potrebbe mantenere in accordo alla proposta fatta dagli americani. Chiede di essere aggiornato anche sui più piccoli passi avanti, o sulle difficoltà dei negoziati. Il suo coinvolgimento personale dimostra quanto i negoziati siano diventati importanti per la sua presidenza.

Obama e i suoi collaboratori più stretti si sono lamentati spesso della tendenza delle amministrazioni americane a guardare all’uso della forza come prima soluzione di fronte a problemi di politica estera. Ben Rhodes, viceconsigliere del presidente per la sicurezza nazionale, ha detto: «I dibattiti attorno alla situazione del Medio Oriente non sembrano riconoscere che è stata combattuta quella guerra in Iraq» che ha dato i risultati che oggi sono visibili a tutti, e continua a esserci «un istintivo ricorso alle soluzioni militari come unico segno della serietà dell’impegno americano». I negoziati con l’Iran offrono in questo senso un nuovo modello per Obama: hanno messo in secondo piano la minaccia dell’uso della forza e hanno dato grande enfasi alla diplomazia. Gli Stati Uniti hanno agito come parte di una coalizione internazionale più ampia che include anche Russia e Cina, un cambiamento notevole rispetto alla situazione precedente, dove Obama era accusato di fare tutto da solo ignorando gli alleati.

Per Obama i colloqui sul nucleare iraniano sono in parte anche un fatto personale. Nel 2007 Obama fu indicato come un pericoloso ingenuo dall’allora candidata alla presidenza Hillary Clinton per avere detto di volere avviare una “diplomazia personale aggressiva” con l’Iran.
Più di recente, lo speaker repubblicano della Camera, John Boehner, ha invitato il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu a fare un discorso al Congresso: anche Netanyahu è stato molto critico nei confronti della politica di Obama sul nucleare iraniano. Due settimane dopo 47 senatori Repubblicani hanno mandato una lettera aperta ai leader dell’Iran, avvertendoli che qualsiasi accordo raggiunto con Obama sarà comunque rivisto dalla prossima amministrazione americana. Julianne Smith, ex vice-consigliera per la sicurezza nazionale del vice-presidente Joe Biden, ha detto: «C’è la determinazione di provare che i Repubblicani sbagliano, e che il mondo intero sbaglia».

Un accordo con l’Iran potrebbe garantire anche una reputazione migliore a Obama, soprattutto di fronte ai suoi nemici. Nel 2007, quando era ancora candidato alla presidenza, Obama disse che era stata una “disgrazia” che l’amministrazione Bush non avesse fatto di più per cercare un dialogo con i suoi nemici in Medio Oriente: «L’idea che non parlare a un paese sia una punizione – ovvero l’idea che ha guidato la sua amministrazione [di Bush. ndr] – è ridicola». In Iran, Obama ha deciso di negoziare con uno dei più grandi e più destabilizzanti nemici degli Stati Uniti. I soldi dell’Iran, le sue armi e i suoi consiglieri militari hanno aiutato il presidente siriano Bashar al Assad a rafforzare il suo potere in Siria. In Libano e Yemen le milizie appoggiate dall’Iran sostengono le rivolte contro gli alleati degli Stati Uniti. Il governo iraniano sostiene anche Hamas, che attacca periodicamente Israele, alleato degli americani nella regione.

In un’intervista data al New York Times la scorsa estate, Obama ha detto dell’Iran: «È un paese grande e sofisticato, con molto talento». Shawn Grimley, ex direttore della pianificazione strategica per la Casa Bianca, ha detto: «Con tutte le rivolte nel mondo arabo, c’è bisogno di una relazione che funzioni con la controparte. Non si può discutere l’importanza dell’Iran nella regione. Questo è il motivo per cui Obama sta trattando così seriamente il tema del nucleare iraniano».

©Washington Post 2015

nella foto: il presidente Barack Obama parla di Iran con i giornalisti alla Casa Bianca, a Washington, il 3 marzo 2015. (AP Photo/Jacquelyn Martin)