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  • Lunedì 27 ottobre 2014

Lo stile è una pioggerellina

Un capitolo del libro di Jorge Valdano, grande ex calciatore e dirigente del Real Madrid, sulle virtù che deve avere un leader (non solo nel calcio)

ISBN edizioni ha pubblicato il libro di Jorge Valdano Le undici virtù del leader. Il calcio come scuola di vita, tradotto da Pierpaolo Marchetti. Valdano, ex calciatore argentino campione del mondo nel 1986, è stato poi allenatore e dirigente del Real Madrid, e in questo libro sfrutta le sue conoscenze del mondo del calcio per descrivere quelle che secondo lui sono le undici virtù fondamentali a distinguere un leader, sia nello sport che in qualunque altra professione. In questo capitolo Valdano affronta lo stile che deve mantenere un leader per essere unanimemente riconosciuto come tale.

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Nel mondo del calcio il risultato è incontestabile. Il suo effetto è contundente al punto che il vincitore non ha neanche bisogno di parlare. E se parla, è inconfutabile. Colui che vince non soltanto ha ragione, ma gli danno la patente di intelligente, di furbo (che non è la stessa cosa) e, già che dobbiamo consacrarne la figura, perfino di vero maschio. Se necessario, gli viene attribuita pure una strategia a corto, medio o lungo raggio, anche se il suo successo è stato occasionale e sia dipeso, in gran misura, dalla fortuna o dal talento naturale di giocatori straordinari. Per questa corrente di pensiero, senza dubbio dominante, lo stile è cosa da romantici.

Stando così le cose: viva lo stile

Per il mio gusto, lo stile è tutto. È la differenza, la distinzione, è ciò che ci rende unici. Se non siamo diversi dalle altre imprese, come faremo a essere riconoscibili? Di cosa ci sentiremo orgogliosi? Di cosa ci vergogneremo? Lo stile è il modo di essere, e questo è importante per una persona come per una squadra sportiva o imprenditoriale. La differenziazione è uno dei grandi vantaggi competitivi delle organizzazioni del nostro tempo. L’orgoglio di appartenere ha a che vedere, soprattutto, con la cultura di un’organizzazione, con i valori che la identificano, con lo stile.

Nell’infinito mondo del calcio, tutti gli stili sono accettabili, ci mancherebbe altro. Ma correre per conquistare non è come correre per fuggire; sforzarsi per cercare l’avventura non è lo stesso che farlo con lo spirito di un burocrate; aspettare la partita successiva come un’illusione non è lo stesso che aspettarla come una minaccia. Bisogna ripetere molte volte che «non è lo stesso», perché è nel diritto a essere diversi e nell’aspirazione alla grandezza che risiede la battaglia concettuale tra quelli che vengono con ammirazione chiamati «seguaci del risultato» e quelli che in modo sprezzante vengono definiti «romantici». Personalmente, non mi piace che qualcuno mi dica come devo pensare relativamente ai miei gusti, e allo stesso modo non pretendo di trascinare nessuno verso la mia sensibilità. Ho sempre vincolato il modo di giocare al modo di vivere e, senza alcuna esitazione, preferisco coloro che vivono con coraggio, eleganza morale e grandezza nelle loro decisioni.

Quando nella stagione 2011/2012, nell’ambito dell’Europa League, l’Athletic Bilbao fece visita al Manchester United, Marcelo Bielsa si sentì un gran privilegiato a potersi confrontare con un uomo dalla carriera di Sir Alex Ferguson e una squadra che aveva una simile storia alle spalle. Durante quel viaggio Bielsa, che è un curioso di professione, cercò di scoprire nei piccoli dettagli in che cosa il Manchester facesse la differenza. Nulla lo colpì tanto come un cartello che scoprì in uno spogliatoio dopo l’allenamento che diceva: NON C’È MEDAGLIA O TROFEO MIGLIORE CHE L’ESSERE RICONOSCIUTO PER IL PROPRIO STILE. Quando commentò con i suoi amici l’impressione che gli aveva causato la frase, Bielsa lo fece con ammirazione. Aveva pienamente ragione: aveva appena scoperto che alla base della conoscenza collettiva che il Manchester United aveva accumulato in oltre un secolo di gloriosa esistenza, lo stile era sempre venuto prima del risultato. Non perché sia più importante, ma perché quello è l’ordine che poi ci permette di sentirci orgogliosi dei trionfi ottenuti. Lo ripeto: lo stile non vale più del risultato, semplicemente viene prima.

Più di cinquant’anni fa, nel 1958, l’aereo che trasportava la squadra del Manchester United cadde su Monaco. Sopravvissero pochissimi giocatori. Quella tragedia, ricordata il 6 febbraio di ogni anno, mette ancora i brividi a vecchi e nuovi tifosi della squadra. Ma proprio dopo quel tragico episodio, il club britannico divenne mito.

Perché il dolore contribuì a creare una specie di complicità mondiale e perché giusto dieci anni dopo il Manchester, rinato dalle proprie ceneri, alzava al cielo la sua prima Champions League. Una prova che la personalità dei club, come quella degli esseri umani, non si costruisce solo nei momenti felici. Ma c’è una cosa indiscutibile: una volta che la storia ti premia per aver difeso un modo di essere, quella personalità istituzionale non deve essere negoziabile. Metterla a rischio, quale che sia la ragione, è una forma di alto tradimento della storia. Il Manchester United lo ha dimostrato quando Ferguson ha annunciato il suo addio alla panchina. Invece di ingaggiare una figura celebre o l’ultimo vincitore di moda, ha reso nota la firma di David Moyes, che per dieci anni era stato allenatore dell’Everton senza vincere un solo titolo. Ma il motivo della scelta era molto intelligente: somigliava al Manchester United perché ne comprendeva i valori. Anche se i risultati non sono stati positivi.

Perché il Barcellona di Guardiola è diventato una squadra ammirata e, per molti, unità di misura del mondo? Soprattutto, perché la squadra è riuscita a mettere a punto uno stile riconoscibile, attraente ed efficace che l’ha differenziata da tutte le altre. Ha seminato successi che l’hanno fortificata, ha avuto giocatori che le hanno dato caratura mondiale, ha goduto sicuramente della dose di fortuna che sempre bacia il campione… Ma alla base di tutto c’è un modo di fare le cose che comincia a La Masia, scuola di calcio e di comportamento, e finisce in prima squadra, dove viene rispettato fino all’esagerazione ciò che il vivaio ha insegnato. Il più grande orgoglio, immagino, sarà verificare come, nei grandi campionati, quello stile che tempo addietro risultava una sorta di controcultura, poco a poco comincia a essere imitato da alcuni grandi club e anche da diverse Nazionali.

La personalità

Anche il Real Madrid è fatto di grandi risultati e giocatori eccelsi. Ma al centro del suo successo come club di riferimento c’è un insieme di valori che sono andati affermandosi con il tempo. Da quel Real Madrid fondato con spirito dilettantistico da un gruppo di giocatori nel 1902, fino alla squadra universale dei nostri giorni, c’è un lungo cammino fatto da molta gente che, con i propri sforzi e il proprio affetto, ha partecipato alla costruzione di un ideale collettivo. Il club, raccogliendo quelle influenze che gli hanno dato un contenuto intellettuale e sentimentale, ha finito per definire una personalità unica. È chiaro che quelle prime cinque Coppe dei Campioni ebbero un ruolo definitivo nell’assurgere alla condizione di leggenda. Ma non dimentichiamo che il Real Madrid è stato trentun anni senza vincerne una (tanti ne sono passati tra la sesta e la settima) e questo non gli ha impedito di continuare a essere riconosciuto come un club esemplare. Il Real Madrid è vincente anche quando perde, perché così è percepito in tutto il mondo. Per questa ragione non comprenderò mai la disperazione che alcuni dimostrano nel voler vincere la prossima partita, il prossimo campionato. Quell’ossessione è una trappola assurda che porta solo a dimenticare il proprio modo di essere.

La memoria collettiva custodisce come un tesoro la cultura del club. Perciò quando alcuni dirigenti imboccarono la strada sbagliata, fu la massa dei soci che ricondusse tutti sulla retta via indirizzando il proprio voto nel senso corretto.

Non è una fantasia. Ci fu un tempo, alla fine del secolo scorso, nel quale tra i tifosi del Real Madrid c’era un sentimento di perdita che non si compensava con l’ottenimento di grandi risultati. L’intero club aveva smarrito il proprio modo di essere, e nell’immaginario collettivo, quell’attacco all’essenza dell’istituzione stava facendo molti danni. Quando il tifoso diceva (e lo diceva con frequenza): «Non siamo più quelli di una volta», stava esprimendo, come dicono le parole del tango Cuesta Abajo: «La vergogna di essere stato e il dolore di non essere più». Bisognava ritrovare la vecchia essenza del Real Madrid per generare un nuovo sentimento di adesione al club.

In ogni partita che si disputava al Bernabéu si generava uno strano clima assembleare, come se un’insoddisfazione profonda avesse allentato l’identificazione dei tifosi e diviso il club. Quella che José Antonio Marina chiama «intelligenza condivisa» cominciava a non avere più senso, a essere in pericolo. Nell’assemblea dei delegati che si celebra annualmente, questa frattura si elevava fino a raggiungere livelli di volgarità che lasciavano l’impressione che il Real Madrid non avesse perso solo la sua grandezza, ma perfino la sua ragion d’essere.

Quando vinse a Parigi l’ottava Coppa dei Campioni, Lorenzo Sanz si affrettò a convocare le elezioni (due anni prima di quanto stabilito dalla legge) «per assicurare la stabilità del progetto». In realtà, e come è logico nell’emotivo mondo del calcio, aveva la certezza che l’allegria dei tifosi si sarebbe proiettata sulla sua figura fino a renderla invincibile. Anch’io ero di quell’idea.

Sì, devo ammettere che ero tra coloro i quali credevano che Florentino Pérez, che era il candidato alternativo, non avrebbe mai vinto quelle elezioni. E invece, i soci del Real Madrid mi diedero una lezione inattesa e indimenticabile dimostrando di avere un’idea non negoziabile del club. Una lezione che mi ha avvicinato ai tifosi, che avevo sempre inteso come individui parziali e ingenui che si esprimevano solo in base ai risultati. Sicuramente pensavo alla massa calciofila che in ogni partita si fa notare per mancanza o per eccesso di senso critico a causa dell’altissima temperatura emozionale. Ma non vota la massa, vota l’individuo. E non vota con il calore della partita, ma con il senso di responsabilità che la distanza consente. All’ora della partita, il tifoso è solo passione; ma il giorno dopo torna alla sua condizione di cittadino cosciente che può andare fiero di determinate cose e vergognarsi di altre.

La decisione maggioritaria dei soci cambiò la direzione del club, al punto da metterlo in salvo non solo dalla sua decomposizione, ma anche dalla trasformazione in Società sportiva anonima che avrebbe tolto all’istituzione sportiva la sua personalità e ai tifosi il loro potere simbolico e reale.

Florentino Pérez aveva capito che il Real Madrid doveva tornare a essere una squadra modello nei suoi rapporti con le istituzioni, con i club, con la stampa, con gli appassionati di calcio in generale, e con i madridisti in particolare… Ma soprattutto il club doveva fortificarsi al proprio interno, recuperando l’autorità morale perduta; in caso contrario, sarebbe stato molto difficile tornare a essere un modello da seguire.

Lo stile come cultura

Se il centro di gravità della crisi del Real Madrid era la perdita dei valori, quello era un buon punto di partenza per iniziare la ricostruzione. Il club era passato da un modello paternalista, superato dai tempi, a un vuoto sconcertante dovuto all’incapacità di modernizzare i segni di identità. Il peso del vecchio non lasciava nascere il nuovo.

Tra i giocatori bisognava creare un moderno schema di valori per un ambiente ogni giorno più mutevole, più commerciale, più malato di novità. Convivenza (nel senso di vivere insieme in modo solidale, ordinato e rispettoso), comunicazione (nel senso di difendere l’immagine del club nei confronti della stampa e della società in generale) e professionalità (comprendendo che in quella gabbia dorata che è la prima squadra esistono privilegi, ma anche doveri).

Cosa si doveva fare per recuperare l’orgoglio di soci e tifosi? In principio bisognava tentare di trovare anticorpi per i virus che erano diventati forti e danneggiavano il club dall’interno e dall’esterno. Davanti all’urgenza serve pazienza; di fronte al cambiamento permanente, stabilità; davanti all’indiscrezione, sobrietà; davanti alla divisione, unità; davanti all’egoismo, generosità; davanti all’indisciplina, regole; davanti all’individualismo, un progetto collettivo…

Fu per tale ragione che in quei giorni ci venne in mente di elaborare quello che venne conosciuto come Libro azul, strumento di informazione diviso in tre parti che consentiva ai giocatori di passare al setaccio la storia e conoscere questioni pratiche dell’attualità del club. Il libro si chiudeva con un capitolo che ricordava i punti cardinali del modo di essere del Real Madrid. L’intenzione era far arrivare ai giocatori un suggerimento semplicissimo: per cento anni siamo stati così e ci hanno dichiarato «il miglior club del XX secolo». Visto che ci è andata così bene, non ritenete conveniente continuare a rispettare questi princìpi?

Il Libro azul, che per una serie di vicissitudini e confusioni ormai è passato a miglior vita, si chiudeva con questo testo, già conosciuto dai mezzi di informazione:

La storia ha trasformato questo club in una scuola di vincitori. Un giocatore del Real Madrid non si arrende mai. L’etica dello sforzo è il nostro valore più grande. La nostra tifoseria è disposta a perdonare tutto, tranne la mancanza di impegno. Solidarietà, responsabilità e perseveranza sono sempre state le caratteristiche di un giocatore del nostro club. Solidarietà, perché nessun giocatore può essere campione senza l’aiuto dei suoi compagni. Responsabilità, perché non cerchiamo mai scuse negli arbitri o negli avversari. Perseveranza, perché l’autentico professionista è quello che si guadagna il rispetto con il lavoro quotidiano e perché la stabilità è una delle basi del successo.

Lo spogliatoio è sacro e i suoi segreti devono essere custoditi per rispetto dei compagni e della società. Per lo stesso principio di lealtà, nel Real Madrid il posto in squadra si conquista nelle partite e negli allenamenti, non sui mezzi di comunicazione.

Il nome del Real Madrid è stato sempre accompagnato dalla parola «signorilità». Dentro e fuori dal campo, un giocatore del nostro club deve avere ben chiaro che rappresenta cento anni di una storia unica e milioni di persone in ogni parte del mondo. Bisogna mantenere un comportamento rispettoso verso i compagni, gli arbitri e gli avversari. Il successo è conseguenza anche di una superiorità morale.

Indossare la maglia del Real Madrid vuol dire associarsi a tutti quei valori che hanno fatto del nostro club, che ora è anche il tuo, il migliore del mondo.

Come si vede, si pretendeva di trasferire ai giocatori un’idea semplicissima: i valori che difendono quando indossano la maglia del Real Madrid.

Il testo veniva consegnato a Raúl in spagnolo, a Luís Figo in portoghese, a Zinédine Zidane in francese e a David Beckham in inglese. Si trattava di evidenziare i princìpi fondamentali che onorano l’etica, l’ambizione a migliorarsi e l’integrazione attraverso lo sport. È ovvio che l’emozione ci rende settari, ma i sentimenti non devono interferire su questioni basilari, come la regola che il club viene sempre prima della squadra e la squadra prima di qualsiasi individuo.

La pioggerellina

Quello che chiamiamo stile è il grande capitale di un’impresa e deve essere difeso con lo stesso entusiasmo da ognuno dei suoi membri. Affinché questa cultura sportiva si mantenga viva, non basta che un discorso cada su un gruppo come un acquazzone. Deve scendere come una persistente pioggerellina su tutti i componenti del club e rispettare alcuni requisiti:

  • Un discorso deve essere succinto e facile da capire.
  • Deve mantenersi nel tempo come parte integrante di una cultura.
  • Deve essere attraente come tutto ciò che produce orgoglio.
  • Deve basarsi su vecchi racconti, rinnovarsi con contributi presenti ed essere aperto a futuri spazi di riflessione.
  • Deve consentire contributi della squadra, in modo che tutti si sentano coinvolti nella sua difesa.

Voglio concludere dicendo che quando c’è convinzione istituzionale nella definizione di uno stile, ci sarà continuità nel difenderlo e si finirà per contagiare anche i tifosi. Finirà per essere rispettato perfino dai rivali. È incredibile constatare come alcune personalità della squadra finiscano per influenzare gli altri giocatori fino ad arrivare ai tifosi sulle gradinate. Non fa differenza se parliamo dello stile artistico del Barcellona o quello «apache» dell’Osasuna. Al Camp Nou si festeggia un gol come se fosse terminato uno spettacolo del Bol’šhoj, mentre nel Regno di Navarra si grida come se si fosse abbattuto un elefante dopo un giorno di caccia. Se ancora vi chiedete cosa ci insegna lo stile, la risposta è semplice: ci insegna a sapere chi siamo.

Idee chiave

Lo stile è molto più che forma. È il modo di essere di un’impresa o di una persona. Ciò che ci indica qual è la sensibilità profonda che la anima. E chi ha un modo di essere si distingue fa la differenza. Calma, non vi agitate: il risultato è importante. Ma attenzione, perché se dimentichiamo che lo stile viene prima, mettiamo a rischio tutto, anche il risultato.

Il Real Madrid ha una storia trionfale e uno stile costruito da centinaia, se non migliaia, di persone. Eppure, nella sua storia emergono due figure talmente di spicco che, nel senso istituzionale, il club somiglia a Santiago Bernabéu e, in quello sportivo, ad Alfredo Di Stéfano. Dietro ogni organizzazione che ha costruito una leggenda, ci sono sempre grandi personalità che hanno lasciato il loro segno per sempre.

Quando lo stile è talmente solido da entrare a far parte di una cultura, bisogna difenderlo e divulgarlo in ogni angolo dell’azienda, perché si tratta del suo maggior capitale.

Nessuno si sbagli; quando si perde una partita o un campionato, ci saranno sempre altre possibilità; quando si perde lo stile, si perde tutto.

per gentile concessione di Isbn Edizioni