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  • Martedì 8 luglio 2014

In Birmania le cose peggiorano

L'entusiasmo iniziale per le riforme democratiche non si vede più, le forze di sicurezza sono tornate per le strade e c'è un grosso problema con una minoranza etnica

Myanmar police stand guard and search motorists at a checkpoint on a street in Mandalay on July 4, 2014. Thousands of people, some wielding sticks, flooded Myanmar's second-largest city as tensions spiked during the funeral of a victim of Buddhist-Muslim clashes that have raised fears of spreading violence. AFP PHOTO/SOE THAN WIN (Photo credit should read Soe Than WIN/AFP/Getty Images)
Myanmar police stand guard and search motorists at a checkpoint on a street in Mandalay on July 4, 2014. Thousands of people, some wielding sticks, flooded Myanmar's second-largest city as tensions spiked during the funeral of a victim of Buddhist-Muslim clashes that have raised fears of spreading violence. AFP PHOTO/SOE THAN WIN (Photo credit should read Soe Than WIN/AFP/Getty Images)

Sono passati più di tre anni da quando in Myanmar (l’ex Birmania: il nome ufficiale del paese è stato cambiato nel 1989) si è insediato un governo civile al posto della giunta militare che ha governato il paese per quasi cinquant’anni, dal 1962. Dopo un sorprendente iniziale processo di riforme per la democratizzazione del paese intrapreso dal presidente Thein Sein, ex generale, le forze di sicurezza sono tornate per le strade di alcune città e la situazione si sta nuovamente complicando.

Da qualche tempo sulle prime pagine dei giornali internazionali sono tornate le notizie di tensioni e violenze a Mandalay, seconda città del paese, dove due notti di scontri tra buddhisti e musulmani hanno causato la morte di due persone e diversi feriti. Ma queste notizie, scrive per esempio il New York Times, non sono che l’ultima ed ennesima delusione di un’iniziale euforia dovuta alla fine della dittatura militare: «Tra le battute d’arresto più preoccupanti verso una transizione democratica ci sono gli attacchi nel Myanmar occidentale contro la minoranza etnica dei Rohingya, il ripristino solo apparente di alcune libertà di stampa e gli impegni tiepidi da parte degli investitori stranieri, che sono fondamentali per la ricostruzione dell’economia della nazione».

In molti, dunque, dopo aver parlato lungamente di una trasformazione positiva, sostengono ora che sotto la maschera del riformismo il paese stia in realtà andando verso una nuova forma di nazionalismo.

Le prime positive trasformazioni
Sia i critici che i sostenitori del governo concordano nel dire che i cambiamenti attuati nel corso degli ultimi tre anni hanno reso il paese più aperto e libero rispetto ai decenni della dittatura. Ci sono stati il rilascio di quasi tutti i prigionieri politici e l’abolizione della censura (almeno per quanto riguarda i 300 giornali e riviste del paese non più sottoposti al controllo preventivo di un dipartimento governativo); il Parlamento è stato riaperto; il rigido controllo del regime sulla libertà di espressione e sul diritto di associazione è stato allentato, così come il blocco sui siti Internet; l’intensità della propaganda è diminuita, la tv di stato ha mandato in onda i dibattiti parlamentari; i sindacati sono stati legalizzati.

Il governo ha poi intrapreso diversi gesti di apertura verso i gruppi etnici armati che combattevano da decenni contro la dittatura. Ha firmato un accordo con le etnie Wa e Mongla e ha ufficializzato il cessate il fuoco con i ribelli Karen, protagonisti di una delle più lunghe insurrezioni armate della storia del paese: «Gli sforzi per porre fine alle guerre con le minoranze etniche sono stati certamente seri e tangibili, ma non sono stati sufficienti», commenta il New York Times.

Buddhisti e musulmani
Il problema maggiore del paese restano gli scontri etnici tra buddhisti radicali e musulmani. A Mandalay negli ultimi giorni sono morte due persone, le autorità hanno dichiarato il coprifuoco notturno. Hanno inoltre inviato centinaia di poliziotti in tenuta antisommossa e circondato con il filo spinato i quartieri musulmani che sono stati attaccati. Si teme che la violenza degli ultimi giorni si diffonda nelle città più popolose e importanti del paese, innescando nuovamente le rivolte che negli ultimi due anni hanno causato la morte di più di duecento persone e lo sfollamento di decine di migliaia di abitanti.

Le violenze maggiori degli ultimi anni si sono verificate nel 2012 nella regione del Rakhine (precedentemente Arakan, a sud-ovest). I musulmani coinvolti in queste vicende fanno parte di una delle numerosissime minoranze etniche e religiose del Myanmar: si chiamano Rohingya, sono circa 800 mila – su una popolazione di circa quattro milioni di persone – e vivono quasi tutti nel Rakhine. Il governo non li riconosce come cittadini e nemmeno come uno dei 135 gruppi che vivono nel paese. I Rohingya infatti hanno poco a che fare con gli altri gruppi etnici birmani: provengono dal Bengala orientale, a livello linguistico e culturale sono molto vicini ai bengalesi e sono sempre stati trattati da stranieri (o intrusi) dal governo birmano e da molti birmani.

Alla fine di marzo, in occasione delle operazioni di censimento, il primo dopo più di 30 anni, le autorità del paese hanno sostanzialmente vietato ai Rohingya di dichiararsi come tali. Dando spazio all’ostilità sempre più crescente contro questa minoranza, è stato infatti dichiarato che questi musulmani non sarebbero stati presi in considerazione se si fossero definiti Rohingya.

Dal riformismo al nazionalismo
Tra le ultime proposte del governo ci sono poi delle misure che avrebbero l’obiettivo dichiarato di “proteggere” il buddhismo e che hanno però causato le proteste dei vari gruppi interreligiosi, e delle donne in particolare. Se approvate, queste leggi – spinte da un movimento buddhista radicale accusato da molti di aver istigato la violenza contro i musulmani – dovrebbero portare a una limitazione delle conversioni tra diverse religioni e all’obbligo di un permesso speciale per le donne prima di potersi sposare al di fuori della loro confessione d’origine. «La liberalizzazione è finita» ha detto Aung Zin Mar, ex prigioniera politica e attivista birmana per i diritti delle donne, che ha accusato il governo di non voler costruire una democrazia multiculturale, ma una nuova identità sulla base del nazionalismo buddhista.

(I fanatici buddhisti)

Negli ultimi mesi c’è stato anche un arretramento sul fronte della libertà di stampa: a un corrispondente di Time è stato ad esempio impedito di entrare nel paese dopo che aveva scritto un articolo sul movimento buddhista radicale. Molti giornalisti stranieri hanno visto poi ridursi la durata dei loro visti e, nel mese di febbraio, quattro giornalisti e il direttore del quotidiano birmano Unity Weekly sono stati arrestati con l’accusa di violazione del segreto di Stato: avevano lavorato a un reportage su una presunta fabbrica di armi chimiche sorta nel 2009 su terreni confiscati ai contadini nella Birmania centrale. David Scott Mathieson, esperto di Myanmar per Human Rights Watch, ha detto che la polizia stava «ripristinando contro redattori e giornalisti le vecchie tattiche intimidatorie».

I cambiamenti economici
Per decenni l’economia molto povera del Myanmar è stata in gran parte controllata dallo Stato, restando indipendente dal mondo esterno. I cambiamenti economici dichiarati dal nuovo governo – e considerati un elemento fondamentale per la transizione verso la democrazia – stanno però procedendo con grande lentezza. Gli investitori stranieri devono infatti confrontarsi con un alto livello di corruzione, con una burocrazia lenta e complicata e con un sistema di infrastrutture che rimane tra i meno sviluppati dell’Asia.

L’esempio di questo fallimento è Thilawa, vicino a Rangoon, la più grande città del paese, dove c’è il progetto di sviluppo di una grande zona industriale che dovrebbe diventare anche il simbolo della trasformazione economica del Myanmar: «Ma nella futura zona industriale ci sono ancora più bufali che lavoratori edili», commenta il New York Times. Queste difficoltà sono riconosciute dallo stesso governo: il presidente del partito di governo, in una recente intervista, ha detto dichiarato: «Direi che le nostre riforme economiche non hanno raggiunto il livello che ci aspettavamo».

I livelli deludenti degli investimenti esteri, l’economia che fatica a risollevarsi, l’alto tasso di povertà e disoccupazione sono un duro colpo per il partito al governo, il Partito di Unione per la Solidarietà e lo Sviluppo, composto per la maggior parte da ex militari. Il partito contava infatti sul rilancio economico e sulla creazione di nuovi posti di lavoro per guadagnare e rafforzare il proprio consenso sulla Lega Nazionale per la Democrazia (LND), il partito di Aung San Suu Kyi, soprattutto in vista delle prossime elezioni.

E Aung San Suu Kyi?
Aung San Suu Kyi, premio Nobel per la Pace e leader dell’opposizione birmana, è stata al centro delle vicende politiche del suo paese da quando nel 1988 fondò la Lega Nazionale per la Democrazia nel mezzo delle grandi manifestazioni studentesche di protesta di quell’anno. Fu arrestata per la prima volta nel 1989 con l’accusa di costituire un «pericolo per lo stato» e da allora era stata più volte messa in semi-libertà, per essere però sempre arrestata di nuovo.

(La storia di Aung San Suu Kyi)

Tornata libera nel novembre del 2010 dopo quindici anni, Aung San Suu Kyi è entrata a far parte del Parlamento insieme a 33 membri del suo partito, eletti alla Camera bassa nelle votazione dell’aprile 2012. Scegliendo di far parte del Parlamento, Aung San Suu Kyi ha offerto, anche simbolicamente, una legittimità alla nascente democrazia del paese e al suo processo di riforma, decidendo anche di avere rapporti politici con gli ex militari che l’avevano incarcerata.

Ma questi rapporti sono da tempo entrati in crisi. Aung San Suu Kyi, vorrebbe infatti candidarsi alla presidenza del paese alle prossime elezioni, che si terranno nel 2015. Per farlo è però necessaria una modifica della Costituzione che il governo non sembra essere disposto a fare: la Costituzione attualmente contiene una norma che impedisce la presidenza a chiunque abbia un marito o figli che sono cittadini stranieri. Suu Kyi è vedova di Michael Aris, studioso inglese di cultura tibetana e professore a Oxford. Da lui ha avuto due figli che sono cittadini inglesi: secondo la Costituzione scritta dai militari, quindi, non potrebbe dunque candidarsi alla presidenza.

Aung San Suu Kyi ha cominciato dunque a criticare duramente il governo degli ex militari. Il mese scorso, davanti a una folla di sostenitori, ha detto per esempio che l’esercito «si prende dei diritti che non merita» e ha chiesto se il governo birmano sia veramente interessato a una transizione democratica, o se piuttosto non voglia diventare uno «stato autoritario dissimulato sotto la maschera della democrazia».

Gli ex militari
Nonostante in Myanmar da tre anni si sia insediato un governo civile, i privilegi dei militari sono rimasti in gran parte intatti: «Possiedono tutto: terra e aziende», ha detto un ex militare che ora fa parte dell’opposizione in Parlamento. Quasi senza eccezione, i primi posti nel governo di Myanmar oggi sono detenuti da ex ufficiali che, secondo i critici, continuano a controllare il paese attraverso il nuovo parlamento. Lo stesso si dice del capo di stato: per oltre dieci anni Thein Sein ha fatto parte della giunta militare alla guida del paese e si era dimesso appositamente da generale per poter partecipare alle elezioni nel Partito Unitario per la Solidarietà e lo Sviluppo (USDP) sostenuto dall’esercito. Sein è inoltre considerato uno degli uomini più fedeli di Than Shwe, il generale che ha controllato la giunta e il paese dal 1992. «Sembra davvero un governo di militari in abiti civili», ha detto al New York Times Sean Turnell, esperto di economia birmana.

Eppure, in un periodo di rivoluzioni democratiche fallite e sanguinose in tutto il Medioriente, alcuni sostengono che l’impegno politico degli ex militari in Myanmar assicuri una certa stabilità: «Questa è una transizione gestita», ha spiegato Richard Horsey, ex funzionario delle Nazioni Unite e uno dei maggiori analisti politici del paese. «Fa parte del motivo per cui può essere più sostenibile e di maggior successo rispetto, per esempio, alla Primavera araba».