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  • Sabato 5 luglio 2014

Chi non vuole l’indipendenza dei curdi in Iraq?

Il governo iracheno, Stati Uniti e Turchia, che bloccano la vendita di petrolio curdo e vogliono un governo di unità nazionale

Kurdish security forces take positions at Taza district, south of the oil-rich city of Kirkuk, Iraq, Friday, June 20, 2014. Among rolling wheat fields with machine-gun fire rattling in the distance, Kurdish fighters patrol the new frontier of their autonomous region of northern Iraq, dozens of miles from their official border. In front of them are Islamic militants, behind them is the Kurds' newly captured prize, stretches of oil-rich territory. (AP Photo/Emad Matti)
Kurdish security forces take positions at Taza district, south of the oil-rich city of Kirkuk, Iraq, Friday, June 20, 2014. Among rolling wheat fields with machine-gun fire rattling in the distance, Kurdish fighters patrol the new frontier of their autonomous region of northern Iraq, dozens of miles from their official border. In front of them are Islamic militants, behind them is the Kurds' newly captured prize, stretches of oil-rich territory. (AP Photo/Emad Matti)

Da alcune settimane la grave crisi irachena che vede contrapposti – semplificando – le milizie sciite appoggiate dal governo, i sunniti rinforzati dal gruppo estremista Stato Islamico dell’Iraq e del Levante (noto con la sigla ISIS) e i curdi del Kurdistan iracheno, ha fatto parlare di possibile e inevitabile divisione dello stato iracheno in tre parti diverse. Molti analisti hanno indicato allo stesso tempo i curdi come probabili veri vincitori della crisi, data la loro decennale battaglia per ottenere l’indipendenza dal governo centrale di Baghdad, prima sunnita con Saddam Hussein e ora sciita con il primo ministro Nuri al Maliki. Negli ultimi giorni le cose sembrano però avere preso una piega sfavorevole per i curdi: le pressioni internazionali e regionali contro una loro indipendenza sono cresciute, insieme alle difficoltà di vendere all’estero il petrolio che si trova nel territorio da loro controllato.

Uno dei problemi più grandi che stanno affrontando i curdi in Iraq deriva dall’interruzione dei pagamenti degli stipendi degli impiegati statali nel territorio del Kurdistan iracheno da parte del governo centrale di Baghdad (precisazione: in Iraq ci sono circa sei milioni di curdi che godono di una certa autonomia amministrativa). La decisione di sospendere i pagamenti era stata in realtà presa diversi mesi fa: era stata una ritorsione del governo sciita per i tentativi del governo regionale del Kurdistan – alcuni in parte riusciti – di vendere in autonomia il proprio petrolio a compagnie estere, senza autorizzazione statale.

La questione della vendita del petrolio del Kurdistan iracheno è un vecchio punto di disaccordo tra il governo regionale di Ebril, capitale del Kurdistan iracheno, e quello centrale di Baghdad, perché è vista un mezzo usato dai curdi per ottenere l’indipendenza economica, passo necessario per quella politica. Negli ultimi anni i curdi erano già riusciti ad attrarre un buona quantità di investimenti stranieri dalle società energetiche Exxon Mobil e Chevron, grazie ai quali il Kurdistan è in grado di spostare tra i 60mila e i 100mila barili di petrolio al giorno sfruttando un nuovo oleodotto che arriva fino in Turchia. Oggi però i curdi non sono in grado di vendere molto del petrolio trasferito in Turchia e che si trova nel porto di Ceyahn, sulla costa mediterranea, perché i compratori hanno timore di eventuali ritorsioni da parte del governo iracheno.

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Le tensioni tra governo di Baghdad e Kurdistan sono aumentate nelle ultime settimane dopo che le milizie curde, conosciute come Peshmerga, o “coloro che fronteggiano la morte”, hanno conquistato Kirkik – città ricca di petrolio prima sotto il controllo del governo. I curdi hanno di fatto esteso la loro influenza nel nord-est del paese e sfruttato la rapida avanzata dell’ISIS verso la capitale Baghdad. In risposta il governo centrale sciita ha preso diverse misure “punitive” nei confronti dei curdi, con la collaborazione di altri governi stranieri, tra cui quello statunitense. Per esempio il governo sta bloccando da oltre un mese una petroliera piena di petrolio curdo al largo delle coste del Marocco. Le nuove misure stanno avendo effetti significativi sull’economia del Kurdistan iracheno, visto che il governo regionale non può nemmeno sfruttare una propria capacità di raffinazione del greggio.

Secondo Tim Arango e Clifford Krauss, giornalisti del New York Times esperti di politica irachena, anche i funzionari curdi in visita questa settimana a Washington hanno riconosciuto che le loro richieste di indipendenza potrebbero non essere soddisfatte nel breve periodo. Gli Stati Uniti stanno infatti facendo pressione affinché il Kurdistan iracheno rimanga parte dell’Iraq e che alcuni suoi rappresentanti entrino in un nuovo governo centrale che secondo i piani americani dovrebbe essere di “unità nazionale” e che dovrebbe sostituire il tanto criticato esecutivo guidato negli ultimi anni dallo sciita Nuri al-Maliki. Per il momento, comunque, sembra che non ci sarà alcun governo di coalizione: venerdì al-Maliki ha confermato ufficialmente che cercherà di ottenere il suo terzo mandato di primo ministro.

Anche il governo turco, importante partner economico che in passato ha aiutato i curdi iracheni ad esportare il petrolio, si è espresso nettamente contro l’indipendenza. La Turchia, come l’Iran e la Siria – cioè i paesi in cui sono presenti delle significative minoranze di curdi -, ha paura che l’indipendenza potrebbe alimentare anche le spinte separatiste della popolazione curda in Turchia. L’unico paese che finora si è espresso a favore della causa curda è Israele, che ha storicamente dei legami molto forti con i curdi della regione (un’entità israeliana non specificata, ha scritto il New York Times, è stata l’unico compratore del petrolio curdo fermo al porto turco di Cheyan).