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  • Venerdì 23 maggio 2014

Il New York Times censurato in Pakistan

Uno spazio bianco ha sostituito un articolo contro il reato di blasfemia, che in Pakistan prevede fino alla pena di morte

Questa settimana un numero dell’edizione cartacea dell’International New York Times diffusa in Pakistan è stato stampato con un grande spazio bianco, che ha preso il posto di un op/ed intitolato “Pakistan’s Tyranny of Blasphemy” (“La tirannia della blasfemia in Pakistan”). L’articolo parlava della storia di Rashid Reham, 53enne coordinatore della commissione per i diritti umani del Pakistan a Multan, città pakistana della regione del Punjab. Rehman è stato ucciso due settimane fa, probabilmente per avere accettato di difendere in veste di avvocato Junaid Hafeez, un giovane poeta e docente all’Università Bahauddin Zakariya di Multan accusato – senza alcuna prova – di blasfemia, reato per cui in Pakistan è prevista anche la pena di morte.

 

L’episodio della censura sull’International New York Times è simile ad altri che stanno diventando sempre più frequenti in Pakistan negli ultimi anni. Nell’ultimo mese, per esempio, un funzionario dell’Autorità per le telecomunicazioni pakistana ha chiesto almeno cinque volte a Twitter di bloccare dei tweet o account da lui considerati “blasfemi” e “immorali”: tra questi ci sono un disegno piuttosto crudo sul profeta Maometto, fotografie di Corani bruciati e messaggi da blogger con posizioni anti-Islam. Twitter ha acconsentito alle richieste del funzionario – ed è la prima volta che succede in Pakistan – conformemente alle sue linee guida diffuse nel 2012, secondo le quali la società si riserva la possibilità di intervenire su tweet o account nel caso in cui siano contrari alla legge di quel paese (come nel caso della blasfemia in Pakistan) e la rimozione vale soltanto in quel paese.

Le leggi sulla blasfemia non sono recenti: i primi problemi cominciarono negli anni Ottanta, quando il dittatore militare Muhammad Zia ul-Haq riprese e aggiornò una serie di leggi risalenti all’età coloniale che criminalizzavano l’atto di “insultare la religione di qualsiasi classe di persone” (le leggi originali furono scritte dai britannici, per evitare che le persone di diverse religioni si combattessero le une con le altre). Zia ul-Haq rielaborò queste leggi in modo da favorire la setta sunnita dell’Islam, e penalizzare gli sciiti e le altre minoranze religiose: rafforzò anche le pene previste in caso di blasfemia, arrivando a includere l’ergastolo e la pena di morte.