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  • Venerdì 28 marzo 2014

Storie di tennis italiano

E un po' di belle fotografie, dai successi degli anni Sessanta e Settanta fino alla rinascita degli ultimi anni

Francesca Schiavone bacia il campo dopo aver battuto l'australiana Samantha Stosur e vinto il Roland Garros, Parigi, 5 giugno 2010.
(AP Photo/Michel Spingler)
Francesca Schiavone bacia il campo dopo aver battuto l'australiana Samantha Stosur e vinto il Roland Garros, Parigi, 5 giugno 2010. (AP Photo/Michel Spingler)

Fabio Severo racconta sulla rivista online l’Ultimo Uomo come va il tennis italiano: dopo il successo degli anni Sessanta e Settanta è entrato in crisi, ma si sta decisamente riprendendo da quando nel 2010 Francesca Schiavone ha vinto il Roland Garros di Parigi, uno dei più importanti tornei di tennis al mondo. Da allora ci sono stati gli ottimi risultati di Sara Errani e Roberta Vinci, la vittoria del torneo di Indian Wells di Flavia Pennetta, i miglioramenti in campo di Fabio Fognini e il giovane Gianluigi Quinzi che l’anno scorso ha vinto Wimbledon junior.

C’è stato un tempo in cui uno come Adriano Panatta vinceva gli Internazionali d’Italia dopo aver salvato undici match point al primo turno, e poi qualche settimana dopo vinceva anche il Roland Garros, battendo Björn Borg nei quarti e salvando un altro match point in semifinale. Panatta nel 1976 è arrivato al numero 4 della classifica mondiale, e ogni tanto mentre parlava con i giornalisti si fumava anche qualche sigaretta. Sedici anni prima Nicola Pietrangeli vinceva il Roland Garros per la seconda volta di seguito, raggiungendo la finale anche nei due anni successivi. Era diventato anche numero 3 del mondo, ma quelli erano anni e ranking diversi, quando ancora il tennis si divideva tra la nobiltà poco retribuita dei campioni “dilettanti” e i ricchi compensi dei tour di esibizioni, prima di arrendersi alla modernità e decretare nel 1968 tutte le competizioni open, aprendo anche i major a cospicui premi in denaro. Sempre nel 1976 i due eroi italiani della racchetta vincono la Coppa Davis a Santiago del Cile, dove Panatta e Paolo Bertolucci giocano indossando una maglietta rossa per protestare contro la dittatura di Pinochet, con Pietrangeli in veste di capitano non giocatore. Nel 1978 il compagno di Davis Corrado Barazzutti arriva alla settima posizione mondiale, l’anno in cui raggiunge la semifinale di Parigi, mentre l’estate prima era arrivato alle semi di Forest Hills perdendo da Jimmy Connors. Quell’incontro lo si ricorda soprattutto per l’invasione di campo di Jimbo, che è entrato nella metà dell’avversario per cancellare il segno di una pallina dubbia che Barazzutti chiedeva di esaminare. Connors ha vinto in tre set, e il ricordo ancora un po’ brucia a Barazzutti: «Resto convinto che senza l’incredibile sceneggiata avrei vinto quel set», ha detto in un’intervista di qualche anno fa, «e mi sarei trascinato lo statunitense al quinto dove io arrivavo sempre piuttosto bene».

Chi come me ha cominciato a seguire il tennis alla fine degli anni ’80 si è trovato di fronte un gruppo di giocatori italiani cresciuti all’ombra della legacy inarrivabile di Pietrangeli, Panatta e di tutto il gruppo della Davis di Santiago del Cile. Supportati dall’amore di Mamma Rai e di Giampiero Galeazzi, un Olimpo di eroi minori si è guadagnato un posto nella memoria collettiva pur avendo vinto soltanto una manciata di tornei, non avendo mai raggiunto i top 15 della classifica mondiale o una semifinale di un major. Omar Camporese, Paolo Cané, Diego Nargiso, Renzo Furlan, ma anche Cristiano Caratti, Andrea Gaudenzi, Laura Golarsa, Rita Grande: una collezione di episodi, ascese e cadute nell’arco di qualche partita, idiosincrasie, suicidi agonistici, medaglie al valore. Caratti batte Lendl in una finale, Camporese perde 14-12 al quinto contro Becker, il turborovescio di Cané, Golarsa ai quarti di Wimbledon; maratone perse o vinte in Coppa Davis, vittorie mancate di un soffio, un’epica da Davide contro Golia che per circa vent’anni ha accompagnato due o tre generazioni di tennisti sempre attesi, coccolati, sognati, oneste carriere da giocatori medi seguite con l’apprensione e la cecità che si può avere soltanto per dei figli. Per lungo tempo si è persa la convinzione che i risultati potessero essere compiuti, che vincere fosse qualcosa di più di un risultato morale, che si potesse iniziare una cosa bene e finirla anche meglio. Era sufficiente l’averci provato, soffrire e dare tutto.

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