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Giovanni Floris ha scritto un romanzo

"Il confine di Bonetti" parla di anni Ottanta, di stare al "confine della devianza" e di una rimpatriata finita male

Secondo Sergio Campanile la grande forza del nostro gruppo era la capacità di vivere al confine della devianza senza mai farsi attrarre dal baratro. Sosteneva che era la strada giusta da seguire, dal momento che Nietzsche stesso aveva messo in guardia dal baratro, avvertendo: non lo guardare, perché lui ti attirerà a sé.
Togli che Campanile attualmente è in cura presso una clinica psichiatrica (per qualche tempo è stato uno stimato ingegnere alla Fiat, poi la polizia lo ha colto in flagrante mentre malmenava la signora del terzo piano che aveva lasciato aperto l’ascensore – la polizia era stata chiamata da Vincenzo Viganò, suo ex compagno di banco il quale, dopo che si erano persi di vista per più di vent’anni, aveva acquistato senza saperlo l’appartamento al piano sotto il suo ed era stato spaventato dalle urla). Alle origini però Campanile era un ragazzo molto lucido. Andava bene a scuola nonostante respirasse la benzina dal serbatoio del suo Laverdino prima di entrare alle feste, e comunque manteneva un certo contegno anche il sabato sera.
Era il 1985 quando Campanile segnava un confine immaginario tra il nostro gruppo e il gruppo dei Fusano, dei Tito, dei Rocchi e dei Piva, tutta gente che sembrava aver perso il controllo della situazione e che, secondo lui, era ormai destinata ad andare alla deriva.
Molti di loro poi ci andarono, in effetti. Rocchi e Piva finirono in prigione subito, all’ultimo anno di liceo, perché avevano scippato una vecchietta ma erano stati presi duecento metri dopo. Fusano non aveva ancora vent’anni quando fu accoltellato a morte in una discoteca di Riga; sembra avesse cercato di organizzare un traffico parallelo a quello di una gang locale (così almeno vuole la leggenda. Più probabile è che sia stato aggredito da qualche schizzato). Tito morì sotto una macchina sul lungomare di Torvaianica; era notte, gli si era fermata la moto, aveva in mano una tanica e un tubo di gomma. Probabilmente attraversava per fare “il succhio”, rubare la benzina da un’auto parcheggiata.
Ma non bisogna per forza fare una fine così tragica per sprecare il proprio talento. Rizzo (quello che alla domanda del commissario d’esame “Parli di un argomento che l’ha colpita più di altri” rispose “Cazzo! Proprio quello che non so!”) oggi dorme nel garage dell’ex moglie, che sta al piano di sopra con un compagno nuovo, e sul muro della sua cameretta ha ancora i poster del Duce. Muzzi (che il giorno dell’esame di maturità prese le Roipnol di prima mattina per garantirsi un rendimento al di sopra dell’ordinario, ma che fu chiamato per l’orale la sera alle diciotto quando ormai, in pieno down, non distingueva la Venere di Milo da Morena Falcone della terza C) sembra che affitti pedalò in Costa Rica. Longo, primo della classe, aveva scelto di fare il manovale in segno di protesta nei confronti del padre (accademico) e della società (borghese), ma alla fine quest’ultima si è vendicata e ha deciso di perseguirlo nei panni di Equitalia, visto che dal 2002 aveva messo su un’impresa a totale insaputa del fisco.
All’epoca noi invece portavamo l’orecchino, ma non ci eravamo fatti il buco alle orecchie. Nel senso che avevamo limato la parte dell’orecchino che sarebbe dovuta passare attraverso il lobo e incastravamo il cerchietto sull’orecchio, andando in giro come dei veri maledetti senza confrontarci con la definitezza del buco. Lo avevamo, ma non lo avevamo.
Il maestro di questo gioco borderline, colui che (in realtà) dava la linea e il tratto al nostro gruppo, era Marco Bonetti. In base alle sue teorie bisognava stare al di qua del confine, salvo forse, di quando in quando, affacciarsi on the wild side per dare un’occhiata. Innanzitutto perché nel nostro mondo le trasgressioni procuravano consenso, successo, amicizie e amori; e poi perché a trasgredire non ci voleva granché. In queste scampagnate oltreconfine ci si divertiva e si dimostrava che chiunque, anche dei bravi ragazzi come noi, poteva togliersi gli sfizi che si toglievano quelli che davano importanza a queste cose.
Era uno schema che Bonetti applicava un po’ a tutte le attività dell’epoca. Non giocava a tennis, ma la racchetta in mano la sapeva tenere. Non si fidanzava per lunghi periodi, ma in prima liceo con una ragazza per qualche mese c’era stato, perché non si dicesse che non aveva mai avuto una storia seria. A scuola andava benissimo, ma arrivò a non studiare matematica di proposito, per evitare la fama di quello che non aveva mai sostenuto un’interrogazione impreparato. Certo, a matematica non serviva studiare, perché la prof dava sette a tutti, ma intanto lui il brivido di andare alla cattedra senza avere la più pallida idea di come uscire dai guai lo aveva provato.
Se vuoi giocare al limite, pur senza oltrepassarlo, ti ci devi però accostare.
Marco Bonetti, rispetto a tutti noi, aveva un’abilità particolare: non solo si avvicinava, ma giocava con il termine della notte, pur della notte restando all’ingresso. Sembrava conoscere talmente bene il buio da sapere che non valeva la pena farsene avvolgere.
E qui era la differenza tra me e Bonetti. Bonetti ogni tanto si sporgeva un paio di centimetri oltre il confine; io invece mi avvicinavo, ma mi tenevo sempre a distanza di sicurezza e al momento della verità arretravo di qualche metro. Poche spanne, ma sarebbero diventate anni luce, mentre il tempo passava e costruivamo le nostre vite. È come in barca: muovi di pochissimo il timone davanti a Civitavecchia e dopo centocinquanta miglia ti trovi in Corsica, invece che in Sardegna.
Fatto sta che trent’anni fa noi la linea di confine eravamo in grado di vederla. Lo chiamavamo il confine di Bonetti. Ieri notte mi sono trovato a ricordare quei giorni seduto sulla branda di una prigione.
Qualcosa deve essermi sfuggito. 

(C) Giangiacomo Feltrinelli editore Milano

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