Otto belle canzoni di Dusty Springfield

Scelte dal peraltro direttore del Post, nel suo libro "Playlist": oggi sono quindici anni dalla sua morte

Il 2 marzo 1999, morì a 60 anni Dusty Springfield, una delle cantanti britanniche più famose di sempre. Qui una selezione di otto sue canzoni scelte dal peraltro direttore del Post nel suo libro “Playlist“.

Dusty Springfield
(1939,West Hampstead, Inghilterra – 1999, Henley on Thames, Inghilterra)
Bianca, inglese, di notevoli pettinature, prese una sbornia soul dopo un viaggio a Nashville e diventò una delle cantanti più popolari del mondo negli anni Sessanta: l’Inghilterra di Mary Quant, aveva Dusty Springfield come colonna sonora. Una volta, in Sudafrica, non ne volle sapere di cantare per una platea di soli bianchi. In Inghilterra mise su un suo show televisivo da cui passò persino Jimi Hendrix. Poi passò di moda, passò un periodaccio, ma ritornò alla grande con tutti i suoi tempi, fino a cantare con i Pet Shop Boys.

I only want to be with you
(A girl called dusty, 1964)
Il primo singolo, il primo successone di qua e di là dall’Atlantico. Canzonetta perfetta, molto americana, e riciclata da molti: si segnala la tiratissima versione rock di Southside Johnny and the Jukes.

Wishin’ and hopin’
(A girl called Dusty, 1964)
Farina del sacco di Burt Bacharach e Hal David: era stata un b-side di Dionne Warwick, e poi arrivò Dusty.

I just don’t know what to do with myself
(Dusty, 1964)
Burt Bacharach, ancora. Stupenda, di una tristezza infinita: cosa devo fare di me stessa, che sono sempre stata abituata a fare qualsiasi cosa con te?
Molte altre cover all’altezza, tra cui quelle di Elvis Costello e White Stripes.

You don’t have to say you love me
(Dusty Springfield’s Golden Hits, 1966)
Clamorosamente pomposa e melodrammatica, senza svaccare mai, con uno dei refrain più trascinanti del tempo (assieme a quello di “Delilah” di Tom Jones). Non ne fecero una versione italiana, come accadeva allora spesso, perché la versione italiana era venuta prima: Pino Donaggio, “Io che non vivo”. Dusty Springfield la sentì a Sanremo, e poi la registrò nella tromba delle scale dello studio, perché lì suonava meglio.

The look of love
(The look of love, 1967)
La cosa più erotica che potesse essere cantata da una ragazza bianca e inglese nel 1967 stava nella colonna sonora di quella parodia di 007 con un supercast che si chiamava Casino Royale. È Bacharach-David pure questa, e non c’entra niente con la canzone omonima degli ABC di vent’anni dopo.

No easy way down
(Dusty in Memphis, 1969)
Dusty Springfield II, il ritorno. Dopo qualche inciampo e qualche fatica, va a Memphis e registra un disco leggendario, Dusty in Memphis. Dentro c’è anche questa canzone scritta da Carole King e da suo marito Gerry Goffin. Me-ra-vi-glio-sa. Tutto, dal ritmo soul al sillabare “der-isno… isiueidaun…”. Molte cover anche qui, la più bella quella di Mark Eitzel.

Son of a preacher man
(Dusty in Memphis, 1969)
Scartata da Aretha Franklin, se la prese Dusty Springfield e fu un successone allora e trent’anni dopo, quando la misero nella colonna sonora di Pulp Fiction. Nel frattempo, Aretha ci ripensò.

What have I done to deserve this?
(Goin’ back: the very best of Dusty Springfield, 1994)
Dusty Springfield III, capitolo finale. Cambio di manager e incontro con i Pet Shop Boys, fans musicali ed estetici (Dusty, che aveva a un certo punto raccontato la sua bisessualità, era diventata una di quelle che chiamano “icone gay”). Le chiesero di cantare in questa canzone in cui loro danno il meglio e lei anche e il contrasto è formidabile. Andò fortissimo (fecero assieme altre cose, tra cui “Nothing has been proved”, la canzone di Scandal, il film sul caso Profumo). “Cosa ho fatto per meritarmi questo?”, poi, è una frase che funziona sempre.