All’ombra di Maus

Il fumettista Art Spiegelman intervistato sulla rivista statunitense Mother Jones, sul suo prima e il suo dopo rispetto all'opera che tutti conoscono

US comic book artist Art Spiegelman poses on March 20, 2012 in Paris, prior to the private viewing of his exhibition 'Co-Mix', which will run from March 21 to May 21, 2012 at the Pompidou centre. The Swedish-born New Yorker Spiegelman, 62, is known as the creator of "Maus", an animal fable of his Jewish father's experience in the Holocaust -- the only comic book to have won a Pulitzer Prize, the top US book award. AFP PHOTO / BERTRAND LANGLOIS (Photo credit should read BERTRAND LANGLOIS/AFP/Getty Images)
US comic book artist Art Spiegelman poses on March 20, 2012 in Paris, prior to the private viewing of his exhibition 'Co-Mix', which will run from March 21 to May 21, 2012 at the Pompidou centre. The Swedish-born New Yorker Spiegelman, 62, is known as the creator of "Maus", an animal fable of his Jewish father's experience in the Holocaust -- the only comic book to have won a Pulitzer Prize, the top US book award. AFP PHOTO / BERTRAND LANGLOIS (Photo credit should read BERTRAND LANGLOIS/AFP/Getty Images)

La rivista statunitense Mother Jones ha pubblicato una lunga intervista con Art Spiegelman, uno dei fumettisti più celebri al mondo, in occasione di una mostra retrospettiva sui suoi lavori al Jewish Museum di New York. Spiegelman è di origine polacca ma è nato nel 1948 a Stoccolma, in Svezia, dove i suoi genitori – di famiglia ebraica – si erano rifugiati per sfuggire alle persecuzioni razziali. È principalmente noto per il graphic novel Maus, un lungo romanzo a fumetti – frutto di un lavoro di quasi vent’anni – che racconta la deportazione degli ebrei nei campi di concentramento e lo sterminio attraverso i racconti del padre di Spiegelman, Vladek, prigioniero sopravvissuto ad Auschwitz, e che è diventato uno dei più conosciuti e apprezzati graphic novel di sempre.

Maus fu pubblicato in due volumi, uno nel 1986 e l’altro nel 1991: rappresentava i nazisti come gatti e gli ebrei come topi, e  vinse un premio Pulitzer nel 1992. Prima di Maus, negli anni Settanta e Ottanta, Spiegelman aveva già lavorato in due riviste underground di fumetti e grafica da lui co-fondate, Arcade e Raw, e dopo Maus fece anche altre cose, tra cui lunghe collaborazioni con il New York Times e il New Yorker, e un fumetto sugli attentati dell’11 settembre 2001 a New York (L’ombra delle torri, nel 2004). Comunque ancora oggi è piuttosto raro parlare di lui o con lui senza tornare inevitabilmente a parlare di Maus.

Nell’intervista su Mother Jones Spiegelman ha parlato del momento in cui cominciò a “disegnare per vivere”, delle sue prime opere, dei suoi lavori per Raw e Arcade – che avevano un taglio molto provocatorio – e dei suoi modelli di ispirazione all’epoca, principalmente la rivista satirica Mad Magazine.

Mad era davvero elettrizzante. In un mondo in cui ormai tutto è ironico, sempre, è difficile capire lo spostamento di senso (“zeitgeist shift”) operato da Mad all’epoca in cui i monolitici anni Cinquanta erano o lo stile realistico alla Norman Rockwell o il mainstream. Non c’era una voce del dissenso. Oggi invece siamo arrivati al punto in cui dobbiamo reimparare come essere sinceri, ma con tutti gli strumenti ironici introdotti da Mad.

Ero attratto dalla marginalità del fumetto. È bello essere fuori dalle regole; ti mantiene onesto. Ma la verità è che dagli anni Settanta in avanti, forse perché ero un ragazzino che veniva da sotto il ceto medio borghese, avevo aspirazioni sociali e desideravo il riconoscimento e le ricompense derivanti dall’approvazione culturale, e lavorai consapevolmente in quella direzione.

Sulla centralità del fumetto nella cultura contemporanea e i rapporti con il potere negli anni Settanta:

Ho letto in uno di questi libri di Marshall McLuhan che quando una tecnologia cessa di essere un mass medium diventa arte o scompare. Il fumetto non era più al centro della scena culturale come lo era stato negli anni prima del Comics Code [l’organo di censura del fumetto creato nel 1954]. Ci sembrò utile mettere al bando il genere del fumetto, per rimetterci in pace con quella cultura su qualche livello – un pericoloso patto faustiano – se qualcuno ce l’avesse fatta in un mondo in cui i negozi di libri, le librerie, le università, i musei e le gallerie permettono a queste nuove forme “bastarde” di sopravvivere lì in mezzo.

Quindi occorre fare attenzione a ciò che si desidera: noi ce l’abbiamo fatta, e io sapevo che questo avrebbe avuto l’inconveniente di fare del fumetto una forma fin troppo rispettabile, forse, ma capii che se questo medium fosse riuscito a sopravvivere e trovare supporto fuori dal mercato capitalistico allora ci sarebbe stato un posto per gli artisti che fanno fumetti contro le istituzioni.

Su Banksy:

Penso davvero che alcune delle cose che fa siano interessanti. È provocatorio in un modo raffinato, come quando di recente ha “occupato” New York da solo senza “Occupy Wall Street”: vendeva i suoi lavori in un chiosco a Central Park quasi gratis, dimostrando questa stronzata della firma. Nessuno li voleva per 50 dollari a pezzo. Notevole, vero? E molto più interessante che far pagare a qualcuno 50 mila dollari per una buccia di banana .

Sul suo rapporto con New York e sul nuovo World Trade Center:

Per me New York è stata, almeno fino ai tempi recenti, la capitale d’America cosmopolita e senza radici: non (solo) gli ebrei ma gli africani, i cinesi e tutti gli altri hanno trovato se stessi qui. È una cultura ricca, e mi sono sempre trovato più a mio agio qui, anche più che ai tempi in cui stavo a San Francisco con un gruppo di fumettisti underground. Ora non so cosa sia New York, perché le case sono diventate così care che gli artisti non possono vivere qui. I creativi, come il resto del movimento culturale, stanno trovando un modo di buttarsi in imprese capitalistiche di qualche genere in modo da permettersi di vivere dove vogliono vivere, e diventa sempre più difficile. Il processo di “gentrificazione” ora richiede circa 8 minuti.

Sono inorridito dal nuovo World Trade Center, soprattutto perché mia moglie – art director del New Yorker – potrebbe finire a lavorare lì dentro. Penso che sia una cosa stupida e arrogante. Come mettere un cartello “colpisci più forte” in cima all’edificio. A New York abbiamo bisogno di abitazioni per il ceto medio, non ci servono altre torri per uffici – tanto meno una gigantesca che proclama la sua maestosità.

Sul fumetto e su Maus:

Il fumetto ha una sorta di intimità che dà l’impressione che ci sia un dialogo tra due persone, in un certo senso, anche se ci vuole un lavoro del diavolo per mettere insieme il vocabolario e i fumettisti. C’è una specie di rapporto Io/Tu che mette la mente a proprio agio, dovuto alle immagini spoglie richieste dal fumetto e al linguaggio spoglio che si adatta ai balloon e così penetra nella mente più a fondo che non la prosa prolissa o le fotografie.

Quando lavorai a Maus, cercai qualcosa di abbastanza narrativo da trattenere l’attenzione della gente, perché mi stavo muovendo verso soluzioni formali più rarefatte attraverso il mio interesse per il fumetto. Mi dissi: “Ok, voglio soltanto raccontare una storia, questo è quello che la gente vuole da un medium narrativo, Spiegelman”. Mi sembrò un modo per contenermi. Ci arrivai in un momento in cui non c’era molto sull’Olocausto nella cultura popolare, ma non mi sarei mai aspettato che sarebbe diventato un successo trasversale. Immaginavo che qualcuno lo avrebbe letto, ed ero contento di questo.

Da allora mi sento come se fossi inseguito da un Maus da 2 tonnellate. Sono fiero di Maus, sono fiero di esser stato in grado di farlo, che sia nato tramite me. D’altro canto, ha inevitabilmente oscurato qualsiasi cosa che ho fatto dopo e che ho fatto prima, a volte in modi che trovo ingiusti. Eppure lo capisco perfettamente, che sia così. Per questo sono grato che questa retrospettiva abbia Maus al centro ma mostri anche la traiettoria che ha portato a Maus, con me costantemente preso a rinegoziare il mio posto nel mondo all’ombra di Maus.

Sul ruolo dell’arte nella società contemporanea:

Dipende da cosa intendiamo con “arte”. Se con arte intendi quell’autentico impulso basilare a creare qualcosa che in verità non ha alcun valore d’uso e può essere qualcosa da contemplare – qualcosa di bello o di provocatorio e da contemplare –, queste cose rappresentano il meglio del meglio della nostra cultura e di qualsiasi altra cultura. Se invece parli di quello che l’arte è oggi, posso soltanto citare Chris Ware, buon amico e genio, che disse che per un po’ pensava che l’arte sia soltanto un termine storico. Quello che chiamiamo arte oggi forse contempla a buon diritto alcune cose che stanno accadendo, ma sono diventato sempre più diffidente riguardo a gran parte dell’arte perché sembra un’estensione del commercio della moda e del mercato azionario.

Sul futuro.

Davvero, non lo so. Mi piacerebbe pensare che la battuta di F. Scott Fitzgerald sull’America e i secondi atti (“Non ci sono secondi atti nelle vite degli americani”, ndr) sia sbagliata. So che [Willem] de Kooning diceva che non ci dovrebbero mai essere retrospettive su chi è ancora in vita. Ma poi ho scoperto che su di lui ne erano state fatte due e lui comunque ce l’aveva fatta ad andare avanti. Quindi non so. Forse sarò un de Kooning senile, farò i miei fumetti pazzi mentre la demenza mi renderà un vecchio brontolone. Ma sarò in grado di scoprirlo perché i dieci piccoli secondi di celebrità saranno passati da un pezzo, e io sarò ancora lì a fissare un foglio di carta, guardandolo fissarmi a sua volta.

Foto: Art Spiegelman durante una mostra a Parigi, il 20 marzo 2012. (BERTRAND LANGLOIS/AFP/Getty Images)