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Quando gli Who diventarono gli Who

Pete Townshend racconta nel suo nuovo libro il momento che gli fece capire la sua band e cosa avrebbe dovuto fare

di Pete Townshend

Con Anya ebbi ancora un paio di rapporti sessuali, quando Kit era via e io non lavoravo. Adoravo il suo essere spiritosa e tagliente. Fu la prima persona che avessi mai sentito definire «troia» un uomo. In realtà non abbiamo mai avuto molte discussioni serie né siamo andati fuori a cena. Se l’avessi fatto mi sarei sentito solo il suo toy boy. Kit alla fine intervenne in ciò che considerava vampirismo sessuale da parte di Anya e come penitenza le affidò il compito di trovarmi un appartamento il più possibile vicino al suo così da verificare lo stato di ordine in cui vivevo. Ad aprile Anya ne trovò uno di lusso in una casa georgiana in Chesham Place, a Belgravia. L’affitto era di dodici sterline a settimana, ma ormai potevo ampiamente permettermelo.
Quello fu il primo posto in cui vissi davvero da solo: feci mettere la moquette, lo arredai in modo semplice, lo tenni pulito e ordinato e trasformai una delle camere in studio di registrazione. Fu uno dei periodi più attivi della mia vita. Se mi sentivo isolato tra i diplomatici e gli aristocratici che abitavano a Belgravia, trasformavo quel senso di solitudine in spinta per la mia creatività. Lavoravo soprattutto di notte, quando potevo suonare dischi a tutto volume, sparando il suono da due altoparlanti con quattro coni da 12”, pezzi recuperati dopo le distruzioni che compivo sul palco. Gli altri appartamenti dell’edificio erano ancora sfitti, mentre nel palazzo accanto al mio erano in corso delle ristrutturazioni per accogliere l’ambasciata dell’Alta Commissione per il Lesotho. Per la prima volta in vita mia mi sentivo completamente libero di fare musica.
Kit veniva spesso a trovarmi per ascoltare i demo che registravo e divenne un vero e proprio mentore per le mie capacità compositive. Il suo metodo era sempre lo stesso. Fumava una sigaretta Senior Service dopo l’altra e intanto camminava su e giù, ascoltando e sbuffando nuvole di fumo. Se avevo scritto più di una canzone, le ascoltava tutte prima di fare qualsiasi commento, quindi sceglieva la sua preferita. Era incisivo e, astutamente, non diceva mai che un pezzo era brutto, che avrei potuto fare di meglio o che sarebbe risultato migliore una volta rifinito. Anche quando una cosa non gli piaceva, trovava sempre un dettaglio da lodare.
Scoprii che Kit era esperto nel lusingare l’artista che c’era in me. Sapeva essere gentile, ma io provavo anche piacere sapendo che lui investiva su di me. Si era creato un rapporto creativo. Mi trattava come un compositore serio. Se rideva, era sempre per una storiella che sapeva avrei poi condiviso con gli altri.

Roger vendette il nostro furgone e acquistò un camion per trasportare l’attrezzatura. Aveva sempre sognato di guidarne uno. Era simile a quei camion che trasportano i mobili, senza finestrini né sedili nel retro, tranne una panca nemmeno avvitata al pavimento. Il camion era troppo grande e la nostra strumentazione sbatteva contro le pareti, mentre Keith, John, Mike e io ci trattenevamo per non vomitare. Inoltre era lentissimo, in autostrada non superava gli ottantacinque chilometri all’ora e ci vollero dieci ore per coprire i trecentoventi chilometri che separano Londra da Blackpool. Roger piazzava la sua ragazza sul sedile anteriore, così noi finivamo confinati nel retro, al buio. Voleva tenerci tutti fuori dai piedi durante i lunghi tragitti. Era un passeggero nervoso e raramente lasciava che a guidare fosse un altro.
Il 30 luglio suonammo al Fender Club di Kenton. Karen Astley, un’amica dei tempi di Ealing, era venuta al concerto e persino il bel Chris si lasciò sfuggire un commento sull’eleganza di quella ragazza, definendola «bambolina», cosa che ai tempi era il migliore dei complimenti. Karen aveva portato la sua migliore amica, una tizia affascinata da John Entwistle. Fu divertente parlare con qualcuno del vecchio gruppo di amici e andammo tutti insieme in un pub. Fuori dalla sala, dopo lo spettacolo, mentre aspettavamo un taxi, Karen mi gettò improvvisamente le braccia al collo e mi baciò.

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