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  • Giovedì 18 luglio 2013

I sei anni di carcere in Kazakistan di Flavio Sidagni

C'è un cittadino italiano, ex manager dell'ENI, che è detenuto da tre anni in una colonia penale kazaka per un etto di hashish

Atyrau è una città di 150mila abitanti che sorge sui confini dell’Europa con l’Asia, nel Kazakistan meridionale. È divisa a metà dal fiume Ural, considerato il confine naturale tra i due continenti, che l’attraversa tutta poco prima di sfociare nel mar Caspio. Fu fondata nel XVII secolo, ma nel corso dei secoli è stata più volte saccheggiata e distrutta dai cosacchi: non ha quindi molte tracce della sua storia antica, ma in compenso è insieme ad Aktau il porto principale del Kazakistan e si trova in un’area ricca di idrocarburi.

carcere-atyrauPoco distante dal centro cittadino, a sud-est, nella parte “asiatica” della città, c’è un centro carcerario, costituito da una prigione e da un insieme di colonie penali. Da tre anni, il carcere di Atyrau è il luogo in cui vive l’italiano Flavio Sidagni. Sta scontando una condanna a sei anni di detenzione per possesso e spaccio di droghe leggere, dopo due processi alquanto sommari in cui sostiene di non avere avuto la possibilità di difendersi come avrebbe voluto. Da tre anni può vedere molto raramente la moglie kazaka, con cui ha avuto un figlio che ora ha nove anni. Da tre anni cerca in tutti i modi di fare conoscere la sua storia, confidando in un ulteriore impegno delle istituzioni italiane, che hanno seguito il caso, ma senza ottenere grandi concessioni da parte delle autorità del Kazakistan.

Flavio Sidagni è di Crema, in provincia di Cremona, e ha 58 anni. Dopo essersi laureato alla Bocconi è stato assunto dall’ENI, società per la quale ha lavorato per oltre 30 anni. Ha lavorato in Angola, poi in Olanda, e intorno al 2000 è stato trasferito in Kazakistan, dove ha lavorato come manager del Dipartimento finanza e controllo dei due consorzi KPO e Agip KCO per dieci anni. I due consorzi, cui partecipa ENI, gestiscono giacimenti di gas e idrocarburi nel nord del Kazakistan e nell’area settentrionale del mar Caspio.

Il 20 aprile del 2010, in circostanze non molto chiare, la polizia kazaka predispose una perquisizione forzata nell’appartamento di Sidagni, che si trovava all’interno dell’albergo River Palace di Atyrau. Gli agenti entrarono nell’abitazione e senza dare molte spiegazioni si misero a cercare tra le cose di Sidagni, trovando 120 grammi di hashish. Ignaro del fatto che si sarebbe potuto rifiutare di subire la perquisizione, Sidagni fu portato via dalla polizia. Dopo i primi accertamenti in commissariato, fu messo agli arresti in attesa del processo.

Secondo il sito di informazione kazako Tengri News, Sidagni ammise di avere portato da Amsterdam l’hashish per uso personale. Dalle indagini, sulla cui affidabilità ci sono diversi dubbi, emerse che talvolta Sidagni organizzava feste a cui invitava amici ed alcune prostitute, durante le quali capitava che si fumassero droghe leggere. Gli inquirenti trovarono un video amatoriale sul suo laptop in cui si vedeva Sidagni intento a preparare uno spinello, che avrebbe poi passato a un gruppo di amici. Secondo l’accusa, si trattava della prova dell’attività di spaccio.

Circa 150 colleghi firmarono due petizioni in suo favore, indirizzate ai magistrati. Alcuni di loro gli trovarono un avvocato in Kazakistan. In primo grado Sidagni fu condannato a sei anni di carcere per spaccio e induzione all’uso di stupefacenti: la procura aveva chiesto una pena tra i 10 e i 17 anni. Alcuni mesi dopo, la condanna fu confermata in appello. Risulta ancora oggi poco chiaro quale fu l’impegno di ENI per dare aiuto legale al proprio dipendente. Il caso fu seguito anche dall’ambasciata italiana in Kazakistan.

In Italia le prime notizie sulla condanna a Sidagni iniziarono a circolare nell’autunno del 2010, grazie a Repubblica che pubblicò una breve richiesta di aiuto scritta dallo stesso Sidagni. Nella lettera spiegava di essere in attesa dell’ultimo grado di giudizio, quello della Corte suprema, e chiedeva a ENI e all’ambasciata italiana un maggiore impegno per risolvere il suo caso giudiziario.

Il 14 febbraio del 2011 la Corte suprema del Kazakistan confermò la condanna di appello di Sidagni, che intanto si trovava già da mesi all’interno del carcere di Atyrau. Scrisse una seconda lettera a Repubblica, in modo alquanto rocambolesco inviando una serie di SMS di nascosto in un bagno del carcere, con un cellulare che gli era stato prestato e rischiando due settimane di isolamento, se fosse stato scoperto. Sidagni scrisse di avere la “fondata sensazione” che ENI lo considerasse “un possibile strumento di pressione nelle mani delle autorità kazake, con cui l’azienda non ha rapporti facili negli ultimi due anni”. Spiegò di avere trascorso il primo anno “rinchiuso in una cella di 20 metri quadrati con altri 7 detenuti, alla mercé della criminalità, che mi ha spremuto come un limone, chiedendomi soldi per tutto”.

Nella lettera chiedeva aiuto, spiegando che le istituzioni italiane avevano cercato di fare il possibile, mentre ENI – che, come si è molto raccontato in questi giorni, in Kazakistan ha affari rilevantissimi e rapporti frequenti con le isituzioni – non aveva fatto molto. E in effetti, nel corso di una visita ad Astana, la capitale del Kazakistan, nel dicembre del 2010, l’allora presidente del Consiglio italiano, Silvio Berlusconi, aveva avuto una conversazione con il presidente kazako Nursultan Nazarbayev su Sidagni. Berlusconi inviò anche una lettera a Nazarbayev, chiedendo che Sidagni non fosse trasferito dal penitenziario di Atyrau a un carcere di più alta sicurezza nel Kazakistan orientale vicino al confine con la Russia.

Anche il presidente della Repubblica italiana, Giorgio Napolitano, si interessò del caso: incontrò l’ambasciatore kazako a Roma e diede sostegno agli sforzi diplomatici del governo Monti, succeduto a quello Berlusconi nel novembre del 2011. Grazie alle pressioni italiane fu deciso di non trasferire Sidagni e di mantenerlo ad Atyrau, dove le condizioni di prigionia sono meno dure.

atyrau-carcere

Le notizie più recenti e affidabili di Sidagni risalgono a circa un anno fa. Nell’agosto del 2012 una giornalista kazaka che parla un po’ di italiano ha ottenuto il permesso per incontrarlo e intervistarlo all’interno della sezione 157/1 della colonia penale di Atyrau. Sidagni le ha spiegato che la sua permanenza nel carcere si era divisa in due fasi. La prima, durata circa 13 mesi, era stata molto difficile: “Sono stato tenuto tra veri e propri criminali, costantemente sotto minaccia. Mi chiedevano di continuo soldi, sapendo che ero un ex manager che lavorava per Agip. Vedevano in me la gallina dalle uova d’oro”.

Successivamente, Sidagni fu trasferito in una sezione della prigione con un regime meno duro ed è la zona in cui si trova ancora oggi. Lavora sbrigando diverse mansioni all’interno della baracca in cui vive con altri prigionieri: nella sua camerata sono di solito 15. Hanno a disposizione una cucina, una stanza in cui pranzare e una saletta per guardare la televisione. Sidagni cucina, lava i piatti e i pavimenti. Risolti alcuni problemi burocratici, gli è stato anche promesso uno stipendio mensile intorno ai 125 euro. Vive abbastanza isolato perché non conosce la lingua locale e sono pochi i detenuti che parlano inglese.

Sidagni ha spiegato che le guardie del carcere sono gentili con lui e che riceve una discreta assistenza medica. Ha però diversi problemi di salute: pressione e colesterolo alti, mal di schiena e un tumore benigno alle ghiandole salivari che gli è stato diagnosticato e per cui dovrebbe essere operato. Nel centro di detenzione c’è una infermeria, ma non è ben equipaggiata, tuttavia riceve alcuni farmaci dall’esterno della prigione.

Nell’intervista del 2012 spiegava anche di non potere utilizzare il telefono e di poter vedere solo la moglie – che vive ad Atyrau – ogni tanto. Se altri amici lo vogliono vedere, devono passare attraverso una lunga serie di complicate verifiche burocratiche, e non è scontato che il permesso venga loro accordato. Non ci sono maggiori notizie su quanto siano cambiate le cose nell’ultimo anno e se ci siano state ulteriori aperture nei suoi confronti, come la possibilità di comunicare al telefono o di vedere altre persone oltre la moglie.

La giornalista kazaka chiude il suo articolo esprimendo alcuni dubbi su alcune risposte rassicuranti date da Sidagni durante l’intervista: “Sembrava volesse dare una buona impressione e non volesse criticare il sistema penitenziario. Forse perché aveva la speranza di ottenere presto una grazia, una decisione che potrebbe cambiargli la vita”.

Sidagni è tuttora in carcere ad Atyrau, dove sta scontando la sua condanna a sei anni per il possesso di un etto e venti grammi di hashish.