Atyrau è una città di 150mila abitanti che sorge sui confini dell’Europa con l’Asia, nel Kazakistan meridionale. È divisa a metà dal fiume Ural, considerato il confine naturale tra i due continenti, che l’attraversa tutta poco prima di sfociare nel mar Caspio. Fu fondata nel XVII secolo, ma nel corso dei secoli è stata più volte saccheggiata e distrutta dai cosacchi: non ha quindi molte tracce della sua storia antica, ma in compenso è insieme ad Aktau il porto principale del Kazakistan e si trova in un’area ricca di idrocarburi.
Poco distante dal centro cittadino, a sud-est, nella parte “asiatica” della città, c’è un centro carcerario, costituito da una prigione e da un insieme di colonie penali. Da tre anni, il carcere di Atyrau è il luogo in cui vive l’italiano Flavio Sidagni. Sta scontando una condanna a sei anni di detenzione per possesso e spaccio di droghe leggere, dopo due processi alquanto sommari in cui sostiene di non avere avuto la possibilità di difendersi come avrebbe voluto. Da tre anni può vedere molto raramente la moglie kazaka, con cui ha avuto un figlio che ora ha nove anni. Da tre anni cerca in tutti i modi di fare conoscere la sua storia, confidando in un ulteriore impegno delle istituzioni italiane, che hanno seguito il caso, ma senza ottenere grandi concessioni da parte delle autorità del Kazakistan.
Flavio Sidagni è di Crema, in provincia di Cremona, e ha 58 anni. Dopo essersi laureato alla Bocconi è stato assunto dall’ENI, società per la quale ha lavorato per oltre 30 anni. Ha lavorato in Angola, poi in Olanda, e intorno al 2000 è stato trasferito in Kazakistan, dove ha lavorato come manager del Dipartimento finanza e controllo dei due consorzi KPO e Agip KCO per dieci anni. I due consorzi, cui partecipa ENI, gestiscono giacimenti di gas e idrocarburi nel nord del Kazakistan e nell’area settentrionale del mar Caspio.
Il 20 aprile del 2010, in circostanze non molto chiare, la polizia kazaka predispose una perquisizione forzata nell’appartamento di Sidagni, che si trovava all’interno dell’albergo River Palace di Atyrau. Gli agenti entrarono nell’abitazione e senza dare molte spiegazioni si misero a cercare tra le cose di Sidagni, trovando 120 grammi di hashish. Ignaro del fatto che si sarebbe potuto rifiutare di subire la perquisizione, Sidagni fu portato via dalla polizia. Dopo i primi accertamenti in commissariato, fu messo agli arresti in attesa del processo.
Secondo il sito di informazione kazako Tengri News, Sidagni ammise di avere portato da Amsterdam l’hashish per uso personale. Dalle indagini, sulla cui affidabilità ci sono diversi dubbi, emerse che talvolta Sidagni organizzava feste a cui invitava amici ed alcune prostitute, durante le quali capitava che si fumassero droghe leggere. Gli inquirenti trovarono un video amatoriale sul suo laptop in cui si vedeva Sidagni intento a preparare uno spinello, che avrebbe poi passato a un gruppo di amici. Secondo l’accusa, si trattava della prova dell’attività di spaccio.
Circa 150 colleghi firmarono due petizioni in suo favore, indirizzate ai magistrati. Alcuni di loro gli trovarono un avvocato in Kazakistan. In primo grado Sidagni fu condannato a sei anni di carcere per spaccio e induzione all’uso di stupefacenti: la procura aveva chiesto una pena tra i 10 e i 17 anni. Alcuni mesi dopo, la condanna fu confermata in appello. Risulta ancora oggi poco chiaro quale fu l’impegno di ENI per dare aiuto legale al proprio dipendente. Il caso fu seguito anche dall’ambasciata italiana in Kazakistan.
In Italia le prime notizie sulla condanna a Sidagni iniziarono a circolare nell’autunno del 2010, grazie a Repubblica che pubblicò una breve richiesta di aiuto scritta dallo stesso Sidagni. Nella lettera spiegava di essere in attesa dell’ultimo grado di giudizio, quello della Corte suprema, e chiedeva a ENI e all’ambasciata italiana un maggiore impegno per risolvere il suo caso giudiziario.
Il 14 febbraio del 2011 la Corte suprema del Kazakistan confermò la condanna di appello di Sidagni, che intanto si trovava già da mesi all’interno del carcere di Atyrau. Scrisse una seconda lettera a Repubblica, in modo alquanto rocambolesco inviando una serie di SMS di nascosto in un bagno del carcere, con un cellulare che gli era stato prestato e rischiando due settimane di isolamento, se fosse stato scoperto. Sidagni scrisse di avere la “fondata sensazione” che ENI lo considerasse “un possibile strumento di pressione nelle mani delle autorità kazake, con cui l’azienda non ha rapporti facili negli ultimi due anni”. Spiegò di avere trascorso il primo anno “rinchiuso in una cella di 20 metri quadrati con altri 7 detenuti, alla mercé della criminalità, che mi ha spremuto come un limone, chiedendomi soldi per tutto”.