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  • Mercoledì 5 giugno 2013

Romanzo irresistibile della mia vita vera

Le prime pagine del nuovo romanzo di Gaetanno Cappelli, che racconta di un pianista e dell'amore per una donna incontrata di nuovo dopo 35 anni

di Matteo Maio - Caffeina

Romanzo irresistibile della mia vita è una storia d’amore lunga una vita; è una storia ironica e graffiante che attraversa diametralmente l’Italia degli ultimi quarant’anni, esaltandone vizi e virtù; una storia che narra di personaggi con una carica di vita e di paradossale realismo che li rende indelebili. Ma soprattutto è l’indimenticabile storia di un uomo, pianista per mestiere diventato scrittore, che è innamorato da tutta la vita di una donna conosciuta in una lontanissima estate, quand’era giovane.

“Romanzo irresistibile della mia vita vera raccontata fin quasi negli ultimi e più straordinari” sviluppi è stato scritto dal lucano Gaetano Cappelli, autore anche di “Parenti lontani, è pubblicato dalla casa editrice Marsilio, ed è tra i dodici finalisti del Premio Strega 2013. In occasione della rinnovata collaborazione tra il Festival Caffeina Cultura e il Premio Strega, pubblichiamo le prime pagine di questo romanzo, che accompagna il lettore in una storia dolceamara narrando lucidamente e in maniera dissacrante l’umanità dei nostri tempi.

***

Se c’è una cosa che odio – veramente a questo punto ce ne sarebbe più di qualcuna – è tornare sulle questioni irrisolte; ma se la questione irrisolta si chiama Elena Bulbo d’Ambra, colei che con un solo bacio cambiò irrevocabilmente il corso della mia vita, be’ per questa volta farò un’eccezione.
Quanti anni sono passati da allora… trenta? No, trentacinque: trentacinque-lunghissimi-anni.
Ero giovane; giovanissimo se è per questo e così pieno di speranze che quando, appena sveglio nella mia stanzetta gelata, sporgendo la testa da sotto il nido di coperte, guardavo brillare il ghiaccio nel bicchiere al primo sole del mattino invece di deprimermi, come sarebbe stato logico, dentro ci vedevo i riflessi del mio fulgido avvenire. Ma certo all’epoca mai avrei immaginato che sarei divenuto “l’unico scrittore italiano candidabile al Nobel”, come stabilito da Dorota Schwartz, insieme a Reich-Ranicki, il più terribile dei critici tedeschi: e lasciamo stare se l’aveva scritto appena dopo che me l’ero scopata – o, meglio, che lei s’era scopata me, oltretutto profanandomi con una carota in una stanza d’albergo a Berlino; e lasciamo anche stare che dopo la manica di buzzurri che ultimamente l’hanno preso, pure il Nobel non è più lo stesso d’una volta: quel milioncino d’euro è infatti sempre lo stesso e dio sa se mi farebbe comodo ora che la crucca – no, non la Schwartz ma la sua ex amica del cuore e mia ex moglie, Irmgard von Kruger – dacché ero ricco da far schifo mi ha ridotto praticamente sul lastrico. In ogni caso, non è la prima volta che mi capita dal momento che se è vero che ci sono vite che scorrono forse monotone ma comunque sicure sui binari della più grande prevedibilità quando altre somigliano al percorso insidioso delle montagne russe, la mia, coi suoi picchi altissimi e le discese abissali, appartiene senz’altro a questa seconda categoria.
Al tempo dell’acqua ghiaccia per esempio, prima cioè dell’incontro con la questione irrisolta – Elena Bulbo d’Ambra, intendo – non è che me la passassi meglio.
Vivevo nel paese dov’ero nato, un paesino del Sud sperso com’è giusto tra i monti dell’Appennino. La mia povera mamma era morta e papà, dopo il fallimento del piccolo negozio di tessuti che, ispirato da una delle tante idee balzane di zio Sgiascì, le aveva aperto, stentava a tenere in piedi la baracca, e io, l’unico maschio dopo quattro figlie femmine, studiavo filosofia a Salerno. Era l’università più vicina ma perfino lì non potevo permettermi di viverci. Facevo lo studente viaggiatore e viaggiavo inoltre per lavoro: davo lezioni di piano ai rampolli di buona famiglia dei paesi intorno.
Ogni pomeriggio salivo su una di quelle corriere sgangherate color cielo e percorrendo le strade che s’inerpicavano a serpentina tra le gole delle montagne coperte di cupe foreste – grandi secolari conifere in un fosco turbinio di nebbie – ascoltando una musica che nessun altro nel pullman percepiva – quella che la poesia di certi luoghi suscita nelle anime elette, come ritenevo esser la mia – raggiungevo i miei giovani allievi, marmocchi obesi e maleodoranti per lo più, e malinconiche fanciulle, sparsi per i borghi del circondario dove, ricevuto in salotti zeppi d’ogni genere di paccottiglia, impartivo le mie lezioni di solfeggio, armonia e contrappunto, non senza prima esser costretto a trangugiare terribili rosoli fatti in casa o i soliti Anice Moccia, Amaro Lucano, Sambuca Molinari.
L’idea di farmi studiare il piano era stata di mia madre. Un’idea che mi aveva procurato più di qualche mortificazione da ragazzino. I miei compagni giudicavano infatti il pianoforte una roba da femmine e anch’io, all’inizio, non è che la pensassi diversamente; ma la mamma era stata irremovibile.
Povera mamma.
Aveva un temperamento romantico. Alta, esangue, la testa sormontata da una piramide incaica di bigodini – ma che fine hanno fatto, oggi, i bigodini? – sembrava una freccia spuntita mentre sfaccendava per casa, lo sguardo sperso nel nulla e la radio perennemente accesa ma non sulle solite canzonette, intendiamoci: impazziva letteralmente per la musica classica e desiderava che io, l’unico figlio maschio, diventassi un pianista di grido. Anzi, ero stato messo al mondo dopo quattro femmine non, come si potrebbe credere, per il desiderio di mio padre di perpetuare la stirpe, ma solo per assolvere a quel compito – una vera missione celeste! Il divino Arturo Benedetti Michelangeli in persona – mia madre cadeva in deliquio solo a sentirne il nome – le era più volte apparso in sogno con i lunghi lisci capelli bisunti, sbiadito tipo una salma pur essendo all’epoca ancora vivente, e con la sua voce diafana ma continuamente cangiante come le tonalità che, unico tra gli umani, sapeva suscitare dai tasti del suo strumento – ben dodici timbri per ogni singola nota evocata dalle immense pallidissime mani – con quella sua voce mistica, l’aveva accoratamente spinta a concepirmi così da fornire al mondo l’erede della sua arte sublime che, in quanto suo continuatore, non poteva che esser maschio. Poi, quando dopo quei quattro tentativi andati a vuoto ero nato io, Arturo Benedetti Michelangeli aveva atteso che compissi tre anni ed era riapparso alla mamma, elegantissimo nel solito frac, per un’ultima indimenticabile volta.

«Brava mia cara signora Costanza!» le aveva bisbigliato, aspirando voluttuosamente il fumo da una delle sue sigarette che venivano fuori, un po’ schiacciate, dal prezioso astuccio d’oro. «Adesso prenda Giulietto e lo porti dal maestro Dossi. Sentirà, sentirà cosa le dice!»
E lei m’aveva portato dal maestro Dossi.
Dossi, più verdastro che pallido, ci aveva accolti scatarrando nel buio della sua casa, quella specie di spelonca con una sola finestra che presto sarebbe divenuta la mia prigione per lunghi, lunghissimi pomeriggi. Poi mi aveva preso le mani tra le sue, fredde, e appiccicose come le zampe di un’iguana, verdi e adunche, e alzando gli occhi sopra le piccole spesse lenti da presbite con le stanghette incerottate, in un ulteriore colpo di tosse catarrosa, aveva aperto la bocca – per la prima volta ero stato investito dall’onda del suo alito marcio: l’alito di uno che stia digerendo un topo morto nelle fogne di Calcutta da due giorni, almeno – e così profetizzato: «Chist Costà, tiene e mmàn d nu grant cuncertist, grant assai. Nu Arturi Benedetto Michelaangel dicesse!»
Peccato “dicesse” la stessa cosa a tutte le madri che gli trascinavano innanzi la prole; perfino alla mamma di Ughetto Morelli, detto Carnacchia non per il peso specifico, in effetti eccedente, ma in quanto figlio del “carnacchiaro” – ovvero il macellaio – mestiere che in seguito, mi risulta, l’ex pargolo sia tornato assai contento a fare. Mia madre, comunque, fu felicissima di sentirselo dire e, ascoltando orgogliosa i miei primi patetici esercizi, non si stancava mai di ripetere al babbo: «Ma sentilo, sentilo come suona! Il maestro Benedetti Michelangeli aveva proprio visto giusto.»
“Ma stu benedett Michelangeelo nun s puteva fa’ i cazz suoi?” pensava papà che adesso, oltre a dover mantenere col suo misero stipendio di messo comunale quattro figlie, con la spesa che al Sud questo comporta già solo di corredo – sempre che poi, brutte e com’erano, qualcuno se le sarebbe mai sposate – doveva anche scucire per me, il suo unico maschio, il mensile al maestro Dossi e per farmi studiare quella “robba da femmne” perché anche lui è così che giudicava il piano. Comunque non c’era niente da fare se non rassegnarsi – su certe cose la mamma non transigeva – e ci rassegnammo; io e papà, dico.
Ben tre pomeriggi a settimana, mentre i miei coetanei si divertivano ai giardinetti, io, con la morte nel cuore, attraversavo le stradine della parte alta scrutando il vasto orizzonte che ci circondava – nuvole lunghe e turchine stazionavano immancabilmente ancorate come dirigibili ai due campanili – e inalando a pieni polmoni la gelida purissima aria – in tutto il paese, dal clima degno di una tundra siberiana, si contavano al massimo una ventina di macchine, compresi il furgone del lattaio e i due unici trattori, di costruzione tedesca, Humboldt-Deutz-Motoren – andavo a casa Dossi, non senza prima essermi inzuppato dell’acqua di Colonia di papà e tappato il naso d’ovatta e sempre con in tasca le mentine che, appena a tiro, somministravo al mio fetidissimo maestro cercando di neutralizzarne i miasmi – «Macché bravo guaglione si’, Giulè!» mi diceva lui, infilandole nella cloaca che aveva per bocca.
La faccenda era andata avanti fino alla sua morte; la morte della mamma voglio dire. E adesso non potevo che ringraziarla, quella santa donna – e, indirettamente, anche Arturo Benedetti Michelangeli, certo. Era grazie a loro, allo studio della musica che, se non ero divenuto quel gran virtuoso del pianoforte che avevano sognato diventassi, pur essendo un povero studente viaggiatore tenevo in tasca qualche liretta e, soprattutto, mi sentivo diverso, “speciale”… e non solo spiritualmente, come mi apparve lampante il giorno in cui lo strumento iniziò a dispensarmi altre e inaspettate gioie.