L’epoca più pacifica della storia

È quella che stiamo vivendo, dice lo psicologo evoluzionista Steven Pinker, nel suo ultimo libro da poco uscito in Italia

di Davide Maria De Luca – @DM_Deluca

I decenni che stiamo vivendo sono gli anni più pacifici della storia. Le guerre e i genocidi sono al minimo storico. Omicidi e violenze non sono mai stati così poco numerosi. Persino le discriminazioni, quelle in base all’etnia, al sesso e alle preferenze sessuali, stanno diminuendo visibilmente in quasi tutto il mondo. Non sono traguardi raggiunti improvvisamente da questa generazione o da quella precedente. Sono il culmine di un processo durato migliaia di anni, non lineare, ma costante. Un processo reversibile, che nulla ci assicura sia destinato a continuare. Questa, in breve, è la tesi del Declino della violenza, l’ultimo libro dello psicologo evoluzionista Steven Pinker (pubblicato in Italia da Mondadori).

Il sottotitolo del libro riassume per bene tutta la tesi: «Perché quella che stiamo vivendo è probabilmente l’epoca più pacifica della storia». Si tratta di una frase che forse è in contrasto con il comune buon senso del lettore medio: in questi anni che dovrebbero essere così pacifici ci sono quotidianamente piccole guerre in Africa di cui nessuno parla, mentre in Siria c’è una guerra civile che dura oramai da due anni. I vicoli bui delle grandi metropoli sono posti molto pericolosi e, continuando con le generalizzazioni, le cronache parlano periodicamente di stragi in scuole e luoghi pubblici, ad esempio negli Stati Uniti.

La tesi di Pinker sembra, a un primo sguardo, anche poco confermata dalla storia. Anche accettando che il Medioevo – così come altre epoche passate – fosse un’epoca più violenta della nostra, come ci si può convincere che le pacifiche tribù di cacciatori raccoglitori che esistevano prima della formazione degli stati nazionali (tribù che esistono ancora nella foresta amazzonica e in altre aree remote del mondo), fossero più violente delle nostre moderne società? Pinker articola la sua storia della violenza e del progressivo allontanamento dell’uomo dalla sua pratica in diverse fasi, la prima delle quali ha a che fare proprio con la risposta a questa domanda.

Mai fidarsi degli eschimesi
La prima grande e sensibile diminuzione delle violenza tra essere umani, secondo Pinker, avvenne con il passaggio dalle società tribali e anarchiche alle prime società statuali: un processo lento, avvenuto in vari momenti in varie parti del mondo (e in alcuni luoghi mai avvenuto) che cominciò circa 5 mila anni fa. Quest’epoca ebbe termine più o meno intorno al XVI-XVII secolo – almeno in Europa occidentale – quando dalle prime rudimentali organizzazioni statuali si arrivò agli stati moderni veri e propri che si fondavano sul concetto di monopolio della violenza da parte dell’autorità centrale.

Pinker divide questa lunghissima epoca in due distinti processi: quello di pacificazione e quello di civilizzazione. L’inizio di questo processo cominciò circa 5.000 anni fa, quando cominciarono a sorgere le prime organizzazioni statuali che decisero deliberatamente di limitare la violenza. Le prime forme di organizzazioni erano di sicuro più simili a dei racket mafiosi, in cui gruppi di potenti estorcevano risorse in cambio di protezione dalla violenza dei vicini e da quella interna – il re-sacerdote della antica città che prende donne e prodotti dei cittadini e in cambio li protegge dai predoni nomadi e punisce chi deruba o uccide gli altri cittadini. Si tratta di un fenomeno conosciuto e studiato da storici e archeologi.

Quello che manca è la dimostrazione che la violenza che gli esseri umani esercitavano gli uni verso gli altri prima di riunirsi in queste società fosse superiore a quella che ci fu dopo. Per verificare che sia davvero così, Pinker comincia smentendo la leggenda secondo cui popolazioni di cacciatori-raccoglitori sono per natura pacifiche e inoffensive. Pinker riporta i racconti di diversi antropologi e altri osservatori sul comportamento delle popolazioni di cacciatori-raccoglitori. Uno dei più impressionanti è quello Robert Nasruk Cleveland, un eschimese (una delle numerose popolazioni che nel mondo sono rimaste alla fase pre-statuale) che nel 1965 riportò un ricordo di gioventù:

Un mattino gli uomini del campo nuataagmiut scorsero un numeroso gruppo di caribù e partirono al loro inseguimento. Mentre erano via, gli incursori kobuk uccisero tutte le donne del campo. Poi recisero le loro vagine, le infilarono su una corda e si diressero rapidamente verso casa.

I racconti sono impressionanti, ma non rappresentano una evidenza scientifica, perché potrebbero benissimo riportare episodi cruenti ma isolati. Per trovare i numeri a supporto della sua tesi, Pinker ha utilizzato gli strumenti dell’antropologia e dell’archeologia forense. L’antropologia, con la sua osservazione di molti gruppi di cacciatori-raccoglitori e cacciatori-orticoltori, ha permesso di studiare i tassi di omicidio e i tassi di morti in guerra che queste società hanno tuttora. L’archeologia forense ha permesso di studiare gli stessi dati per le popolazioni preistoriche (esaminando ad esempio le ferite sugli scheletri trovati nei siti archeologici e procedendo quindi a complesse elaborazioni statistiche).

Ricerche incrociate utilizzando i metodi dell’archeologia forense e gli studi degli antropologi su decine di popolazioni scomparse e tribù ancora esistenti hanno portato a elaborare una media del 20% dei morti in guerra. Nel corso del XX secolo morì in guerra, genocidi o in carestie causate dalla guerra il 3% della popolazione mondiale. Un numero appena inferiore ai soli morti in battaglia nel XVII secolo, uno dei più sanguinosi della storia europea. Nel Messico pre-colombiano, dove dominava l’impero azteco e le sue feroci scorrerie a caccia di schiavi, il tasso di morte in battaglia raggiunse a fatica il 5%.

Un altro confronto ancora più impressionante è quello degli omicidi. Non tutti i morti avvengono in battaglia o sono causati indirettamente dalla guerra, e le società statuali, meno inclini alle scorrerie contro tribù nemiche, potrebbero essere più inclini all’omicidio interno per i più disparati motivi. Pinker prende in esame il tasso di omicidi di alcune delle popolazioni tribali considerate dagli antropologi, tradizionalmente, meno violente.

I Semai, definiti “il popolo non violento della Malesia”, hanno un tasso di omicidio di 30 l’anno ogni 100 mila abitanti. Il tasso di omicidio negli Stati Uniti durante il decennio più violento della loro storia recente (1970-1980) era di 10 morti l’anno ogni 100 mila abitanti. Quello moderno nell’Europa occidentale si aggira intorno all’1 ogni 100 mila abitanti. Il tasso di omicidio tra gli eschimesi dell’Artico canadese arriva a un incredibile 100 omicidi ogni 100 mila abitanti. E queste sono popolazioni definite dagli antropologi “pacifiche”.

Il processo di civilizzazione
Accanto al processo di pacificazione, con la sua creazione dei primi stati spesso dispotici e rudimentali, intorno alla fine del Medioevo, si affiancò un nuovo processo, che Pinker chiama “il processo di civilizzazione”. I risultati di questo processo – che è particolarmente ben documentato in Europa – portarono a un crollo drastico del tasso di omicidi. Il processo giunse al culmine in Europa nel corso del XIX secolo, mentre in altre parti del mondo non è cominciato o è sostanzialmente fallito.

Le caratteristiche del processo di civilizzazione sono la graduale scomparsa delle piccole entità para-statali, sostituite da stati sempre più grandi e sempre più efficienti nella loro capacità di esercitare il monopolio della violenza. In quell’epoca in Europa il mosaico di contee, baronie e ducati sostanzialmente e spesso anche formalmente indipendenti, lasciò il posto ai grandi regni e, in Italia, ai grandi stati regionali. Scomparvero così dalla scena le scorrerie dei cavalieri contro i contadini dei loro vicini e la giustizia, amministrata non più dal signore del borgo, ma dai tribunali del re (o della repubblica) si fece più efficiente – e quindi, la violenza meno conveniente.

L’altro cambiamento avvenuto nel corso del processo di civilizzazione fu il lento abbandono dell’economia agricola, basata sulla sussistenza, in favore di un economia aperta e commerciale. La differenza tra le due economie è sostanziale. L’economia basata sulla terra, in un luogo dove la terra coltivabile è un fattore fisso, è un gioco a somma zero: il guadagno dell’uno è una perdita per un altro. Il barone che conquistava alcuni borghi e campi del suo vicino aumentava le sue entrate diminuendo quelle del suo avversario. Il commercio, invece, è un gioco a somma positiva: il mercante scambia la lana inglese con i panni lavorati fiorentini, portando un guadagno a tutti. In questa situazione può diventare meno conveniente accoltellare il proprio vicino.

I dati del processo di civilizzazione mostrano che il tasso di omicidi in Europa è in calo da quando è possibile cominciare (faticosamente) a ricostruirlo, ovvero a partire dal XIII secolo. I dati più antichi sono, ovviamente, poco affidabili, ma mettendo insieme molte statistiche di molti luoghi diversi – un lavoro compiuto da numerosi storici negli ultimi decenni – è possibile ottenere dati quasi certi. Il processo di civilizzazione cominciò con un tasso di omicidi “eschimese”: intorno, anche se sempre inferiore, ai 100 morti ogni 100 mila abitanti. Col passare dei secoli questo tasso scende inesorabilmente, anche se in maniera non costante, fino ad arrivare a livelli odierni che è possibile contare sulle dita di una mano.

La rivoluzione umanitaria
Il fatto che gli stati moderni abbiano imposto un monopolio della violenza e abbiano cominciato a perseguire in maniera più o meno efficiente chi ne faceva un uso non autorizzato non significa di per sé che gli stati non siano violenti e che questa violenza non l’abbiano esercitata in maniera molto crudele. Per la grandissima parte della storia europea – e mondiale – la tortura è stata un metodo accettato e approvato per ottenere confessione dai criminali. Una buona parte dell’ingegno umano venne per secoli applicata a elaborare complicati strumenti per infliggere dolore ad altri esseri umani.

In Europa e nelle colonie americane era del tutto normale bruciare eretici e streghe (l’ultima venne bruciata ai tempi di Voltaire) ed era considerato un intrattenimento popolare vedere bruciare vivo un gatto in piazza o assistere allo spettacolo di un orso azzannato da un branco di cani. Era altrettanto normale accogliere i tumulti di piazza a colpi di cannone (Napoleone ci costruì il primo passo della sua carriera) e imprigionare o giustiziare chi parlava male del re o del governo. E le esecuzioni non erano un affare sporco da portare avanti nelle segrete del castello (o, per usare un termine di paragone moderno, nei sotterranei della Lubjanka): erano uno spettacolo pubblico e spesso partecipativo. I condannati alla gogna in genere non sopravvivevano alla pioggia di fango, escrementi e sassi che gli veniva lanciata dalla folla.

A partire dal XVIII secolo però, e in un lasso di tempo molto breve, tutte queste pratiche sparirono dalle piazze dell’Europa. La tortura scomparve come elemento lecito e autorizzato del processo penale. Scomparvero le pire degli eretici e quelle dei gatti e, in molti paesi europei, venne persino abolita la pena di morte. Dove queste pratiche continuarono, divennero oscure e inconfessabili, non più spettacoli da mettere in piazza.

Secondo Pinker l’impressionate svolta della rivoluzione umanitaria va attribuita, in buona parte, alla letteratura. Nel corso del XVIII secolo la produzione libraria, e l’alfabetizzazione, aumentò enormemente in tutta Europa. Le classi dirigenti e gli elementi più ricchi delle classi medie furono letteralmente inondati da un mare di trattati, lettere, raccolte e, sopratutto, romanzi. Secondo Pinker il romanzo psicologico, che ci spinge a metterci nei panni di un’altra persona e sperimentarne i sentimenti e le sensazioni, ha un potenziale enorme nello spingere le persone a moderare la loro accettazione della violenza. È più difficile, secondo Pinker, uccidere a sassate una persona intrappolata in una gogna una volta che si è provato a mettersi nei suoi panni.

Dopo la rivoluzione umanitaria tutta una serie di comportamenti violenti e crudeli cominciarono ad essere considerati “barbari”, indegni di un uomo moderno. Questo non significò che gli uomini occidentali smisero di fare guerre e di uccidere. Le guerre coloniali portate avanti nel 19° secolo furono cruente e le rivolte soffocate in maniera sanguinosa. Ma l’atteggiamento nei confronti degli eccessi di crudeltà venne esportato, non sempre con successo, in quasi tutti i luoghi del mondo dove gli europei misero piede. Per spiegare questo fenomeno, Pinker cita un aneddoto in cui il comandante in capo dell’esercito inglese in India, Charles Napier, rispose ad alcuni notabili locali che si lamentavano con lui per l’abolizione del suttee, il rituale nel quale la vedova viene immolata sulla pira funebre del marito.

Voi dite che è vostro costume bruciare le vedove. Benissimo. Anche noi abbiamo un costume: quando degli uomini bruciano viva una donna, leghiamo loro una corda attorno al collo e li appendiamo. Erigete la vostra pira funeraria; accanto a essa i miei carpentieri erigeranno una forca. Potete seguire il vostro costume. E noi seguiremo il nostro.

Napier non trovò nulla di strano nel fatto che probabilmente il suo bisnonno aveva un’ottima opinione di “un gruppo di uomini che brucia viva una donna” a patto che lei fosse considerata una strega.

La lunga pace e la nuova pace
Tutti questi processi resero le società, in particolare quelle occidentali, meno violente, sadiche e crudeli. Non fecero però molto per limitare la guerra. Chiuso il Medioevo con le sue continue scorrerie dei nobili con i loro vicini, si aprì il Secolo di Ferro, i cento anni che vanno dalla metà del ‘500 alla pace di Westfalia nel 1648. Le guerre di religione tra protestanti e cattolici di quegli anni furono tra le più sanguinose della storia e, in percentuale, in Germania causarono più morti della Seconda Guerra Mondiale.

Eppure il cosiddetto “lungo Ottocento”, che va dalla fine delle guerre Napoleoniche alla Prima Guerra Mondiale, vide un numero straordinariamente basso di guerre. Dopo i due conflitti mondiali, l’Europa ha assistito alla sua più lunga epoca di pace fino ad arrivare al punto, dopo la caduta dell’Unione Sovietica, che una guerra in Nordamerica o nell’Europa occidentale è semplicemente impensabile (negli anni Novanta ci sono state diverse guerra nei Balcani).

Nello stesso periodo le guerre nel resto del mondo hanno avuto andamenti altalenanti: sono cresciute nei decenni in cui i paesi europei abbandonavano le loro colonie (e i loro regimi statuali, a volte violenti e repressivi, venivano spesso sostituiti da non-stati) e subito dopo la caduta dell’Unione Sovietica. Sono diminuite dopo che questi scossoni si sono assestati. Dopo i picchi degli anni Sessanta e quelli più bassi degli anni Novanta, le guerre, i genocidi e i conflitti civili sono diminuiti. Le guerre non solo si sono fatte meno numerose, ma anche meno violente, sotto l’influsso della rivoluzione umanitaria.

Oggi ci scandalizziamo giustamente quando un missile americano o israeliano uccide per sbaglio alcuni civili, ma dimentichiamo che durante la Seconda Guerra Mondiale e la guerra del Vietnam i bombardamenti aerei erano esplicitamente mirati a uccidere i civili e distruggere le città. “Missile intelligente” è un’espressione sensata – nonostante il suo significato parzialmente assolutorio – se messa a paragone con i bombardamenti a tappeto di Dresda e Tokyo.

Le argomentazioni con cui Pinker spiega prima la Lunga Pace, quella dell’Ottocento, e poi la Nuova Pace, quella che viviamo dalla caduta dell’Unione Sovietica, sono diverse e numerose. Hanno a che fare con la continua espansione del commercio mondiale, che rende più conveniente avere rapporti pacifici che scontri militari, con la forza crescente delle organizzazioni internazionali che in alcuni casi prevengono i conflitti, in altri evitano che ricomincino – le statistiche mostrano che nei paesi dove sono intervenute forze di peacekeeping (come i caschi blu dell’ONU o i soldati dell’Unione Africana) i conflitti hanno una possibilità estremamente bassa di scoppiare nuovamente. Ma anche con la diffusione della democrazia e persino con quella delle anocrazie – le semi-democrazie diffuse in molti paesi in via di sviluppo, che Pinker definisce con un’espressione decisamente forte “governi di merda”.

È tutto nella testa
Gli ultimi capitoli del libro sono dedicati agli aspetti più propriamente psicologici e neurologici della violenza. Pinker cerca di dimostrare come la diminuzione della violenza sia imputabile a cambiamenti misurabili all’interno del cervello delle persone. Da un lato si è trattato di cambiamenti culturali: certe società hanno spinto ad utilizzare alcune facoltà più di altre, creando una spirale positiva. Ad esempio: se gli omicidi vengono puniti in maniera più o meno efficace, ci penserò due volte prima di uccidere qualcuno che mi ha insultato. A sua volta, sapendo che io mi sto controllando, chi mi sta intorno avrà meno necessità di restare sempre con il dito sul grilletto e sarà a sua volta più controllato e così via.

Queste capacità come empatia e autocontrollo, secondo Pinker, che cita decine e decine di esperimenti di psicologia comportamentale, si possono esercitare e migliorare con il tempo. È possibile che questi sentimenti di autocontrollo, empatia, capacità di risolvere pacificamente i conflitti divengano patrimonio culturale di un’intera società e insegnati automaticamente a partire dalla nascita. Poi c’è l’evoluzione.

Secondo Pinker, è possibile che nel corso dei secoli alcune caratteristiche che rendono più o meno violenti siano state sottoposte a una vera e propria pressione evolutiva. In una società tribale, dove essere forti e pronti a uccidere può significare avere più donne e quindi una prole più numerosa, è una caratteristica vantaggiosa. Alcuni studi antropologici hanno dimostrato che in certe tribù dell’Amazzonia gli uomini che nel corso della loro vita avevano ucciso almeno un altro uomo avevano più figli degli altri. In questo ambiente la pressione evolutiva favorisce i geni che rendono forti, rapidi e aggressivi.

Nel nostro mondo la pressione è opposta. In una società monogama, uccidere un rivale non dà accesso a un bacino maggiore di femmine e quindi a un numero potenzialmente più alto di figli ed essere aggressivi e pronti a uccidere è una buona strada per finire sottoterra prima di avere figli. L’evoluzione opera su lunghezze di tempo incalcolabili, almeno per creare cose complesse come arti e organi. Alcune caratteristiche però evolvono più in fretta: la nostra capacità di digerire il lattosio da adulti, ad esempio, si è sviluppata in poche migliaia di anni. Secondo Pinker è possibile che l’evoluzione abbia favorito esseri umani meno violenti nello spazio di centinaia di anni. Il progetto sul genoma umano ha in parte confermato che questa possibilità esiste, mostrando che ci sono variazioni nel DNA di diversi gruppi di umani, che risalgono a non molte centinaia di anni fa.

Non dare niente per scontato 
Secondo Pinker il lungo declino della violenza non è per forza di cose destinato a continuare, non siamo alle porte della “fine della storia” (il celebre titolo del libro di Francis Fukuyama del 1992). Il suo lavoro è scientifico ed empirico: il libro cita centinaia di statistiche ed esperimenti, ogni singola affermazione è supportata da dati e contiene già le risposte alle principali obiezioni. Non sostiene che la storia della violenza abbia una fine o che miri a qualcosa. Pinker parte da un fatto: la violenza è diminuita e cerca di spiegare il perché. Nell’individuare i fattori che hanno permesso agli esseri umani di liberarsi di un considerevole fardello di violenza, identifica anche le cause che potrebbero portare a un ritorno della violenza.

Gli stati falliti, quelle nazioni nelle quali per qualche motivo un potere centrale si sfalda lasciando spazio alle faide tribali, sperimentano un significativo aumento della violenza di ogni tipo. Libano, Somalia e Iraq dopo l’invasione americana sono ottimi esempi. Anche i fattori culturali sono importanti. In uno dei passi più interessanti – e che susciteranno le maggiori controversie – del libro, Pinker prende in esame l’improvviso aumento di tutti i tipi di violenza (dagli omicidi al terrorismo) che tutto il mondo occidentale ha sperimentato tra gli anni Sessanta e gli anni Ottanta. Erano gli anni della contestazione giovanile e le parole d’ordine erano “fai quello che ti pare”, “agisci come ti senti”, take a walk on the wild side (“fatti un giro sul lato selvaggio”, come cantava Lou Reed).

Criticando alcuni aspetti di eccessiva chiusura della società borghese, la contestazione finì per attaccare anche l’impalcatura di autocontrollo e di repulsione per la violenza che avevano costruito il processo di civilizzazione e la rivoluzione umanitaria. Pinker non fa predizioni sul futuro, nel senso di predire che traiettoria seguirà la violenza nei prossimi decenni. Ma individua quali sono quegli elementi senza i quali la violenza tornerà ad aumentare. Senza autocontrollo, senza letteratura e cultura che ci aiuti a metterci nei panni degli altri, senza organizzazioni e commercio internazionale, la curva della violenza è destinata a salire di nuovo.