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Notizie dalla Francia

Storie del Louvre, di Hollande e di mille altre cose, come sa raccontarle Filippomaria Pontani

di Filippomaria Pontani

Altro discorso vale per la decisione di impiantare un “secondo Louvre”, dotato di alcuni dei capolavori della casa madre (dalla Libertà che guida il popolo di Delacroix al Ritratto di Monsieur Bertin di Ingres, tutti in prestito per cinque anni) ai margini della città di Lens, nel cuore di un antico bacino minerario oggi in disarmo e in indigenza, all’ombra dei giganteschi terrils conici che punteggiano il paesaggio come tetri souvenirs di un faticoso passato. Questa scelta ha fatto segno a numerose critiche, sia politiche sia culturali: a voler tralasciare gli aspetti prettamente economici (i costi, elevati, sono stati sostenuti dalla Regione a detrimento di altri musei esistenti, e hanno drenato ben 30 milioni di euro di finanziamenti europei), che andranno valutati anche in rapporto alla frequenza prevista di visitatori (comunque assai elevata nei primi mesi dopo l’apertura), tra molti osservatori e tra non pochi specialisti serpeggia l’idea che il Louvre-Lens sia un progetto monco, arenatosi sui veti incrociati dei diversi dipartimenti, e infine ridottosi a un modesto catalogo di opere sparse più o meno rappresentative, fiaccamente suturate fra loro dal percorso virtuale suggerito nella guida gratuita formato smartphone fornita all’ingresso.

La realtà è che l’ambizione della Galerie du Temps nel museo di Lens è proprio quella enciclopedica di raccontare la storia dell’arte universale in un Bignami eccezionalmente dotato di un'”aura” di genuinità: in tal senso, qualunque scelta sarebbe stata fondamentalmente inadeguata, e anche questa naturalmente lo è, specie se si considerano la compressione dell’Alto medioevo, la virtuale assenza dell’arte bizantina, lo spazio abnorme concesso alle collezioni islamiche, la sproporzione fra le tante opere del Rinascimento franco-tedesco e le poche (anche se ottime) di quello italiano. Tuttavia, non si può non apprezzare la spregiudicatezza intellettuale dell’operazione, molto francese sia nell’envergure sia nella rapidità di realizzazione (progetto scelto nel 2005, cantiere aperto nel 2009, apertura nel 2012): né risultano inefficaci certi “tagli” prospettici suggeriti dalla Galerie, per esempio quelli che fanno dialogare il gesto della Venere di Thorvaldsen con quello della Marianna di Delacroix subito dietro, o la posa di Monsieur Bertin con quella di un sultano su una tavola ottomana, oppure ancora un ritratto marmoreo di Giustiniano con un angelo a mosaico da Torcello: non si tratta di mere suggestioni estetiche, ma di contatti stilistici che possono indurre riflessioni, per quanto estemporanee. E anche la prima mostra tenuta negli ampi spazi del Louvre-Lens, quella sulla Renaissance in cui era esposta la Sant’Anna di Raffaello, pur gravata da un’ansia di completezza forse malposta, ha offerto per esempio l’occasione unica di contemplare dispiegato su una parete tutto l’enorme arco di trionfo disegnato da Dürer per Massimiliano d’Austria nel 1517 (ben 36 fogli di incisione), o di paragonare in una vasta sala i marmi antichi e le loro riprese rinascimentali, secondo una linea non dissimile da quella della notevole mostra su Bembo aperta in questi mesi a Padova.

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Insomma, il Louvre-Lens può essere senz’altro criticato, ma rappresenta un’iniziativa di per sé rispettabile, nel contesto del recupero di un territorio disastrato e dell’apertura di una nuova opzione culturale ed educativa. Altro discorso vale per le operazioni di Atlanta e Abu Dhabi, il cui primo motore è palesemente quello economico, o per i perlopiù modesti tentativi di “spettacolarizzare” il Louvre tramite l’inserimento nel museo di artisti contemporanei. Ora, non è chiaro quale sia l’orientamento del nuovo direttore Martinez: c’è chi lo ritiene un fedelissimo di Loyrette (che lo ha promosso, ancor giovane, a un ruolo di alta responsabilità) e chi si proclama convinto che egli segnerà invece un’inversione a U rispetto alla linea fin qui seguita. Il punto che volevo sollevare qui, in effetti, è più politico che non strettamente artistico. Martedì 9 il discorso di Hollande sotto la Piramide (che in questo ha seguito perfettamente il tono pacato ma poco trascinante della sua intervista televisiva del 28 marzo), ha lasciato trasparire con chiarezza tutte le difficoltà della gauche transalpina nell’elaborare una propria strategia politica nettamente distinguibile da quella degli avversari. Se Loyrette, uomo di fiducia di Chirac nutrito di una rispettabile cultura mercantilistica e dirigista, è davvero il modello da seguire per il suo successore, vuol dire che in quest’ambito Hollande non ha un paradigma culturale da contrapporre a quello dominante, non sa (o non intende) accennare o articolare nel concreto un discorso pubblico alternativo a quello della destra. Questo sospetto è purtroppo confermato dal quadro generale di questo primo anno di presidenza socialista all’Eliseo.

Perché l’impopolarità di Hollande (la più alta mai registrata nella storia della quinta repubblica) non è il frutto di sapienti imboscate politiche di un’opposizione peraltro lacerata e in disarmo, bensì discende dalla profonda delusione suscitata nei francesi da quasi tutte le sue politiche. Delle promesse-bandiera formulate in campagna elettorale, sta andando a effetto soltanto quella sul matrimonio tra omosessuali, che per quanto sacrosanta di per sé ha finito per coalizzare contro il presidente un vasto raggruppamento di forze conservatrici, largamente al di fuori della contrapposizione politica: ne fanno fede le oceaniche Manif pour tous di gennaio, di marzo e di domenica scorsa. Sul piano economico, il più tangibile per un paese in declino, che vede galoppare la disoccupazione e ha vissuto il proprio declassamento ad opera di Moody’s come un’onta, la manovra 2012 non ha mostrato alcun cenno d’inversione di rotta rispetto alla linea della destra, e soprattutto nessuna concreta intenzione di mettere in discussione i paradigmi di austerità propagandati dall’Europa (il solo ministro delle finanze Montebourg rilascia talora dichiarazioni in tal senso, ma senza séguito palese). La tassazione del 75% per i salari alti è naufragata sugli scogli della Corte suprema; la tassazione del capitale e delle plusvalenze finanziarie è annegata in un dedalo di eccezioni e franchigie; il mondo della finanza, definito nel gennaio 2012 come «il più grande avversario» del presidente in pectore, non ha subito alcun rovescio (e infatti non si lamenta); non è stata creata una banca d’investimenti semi-pubblica; il piano di assunzioni nell’insegnamento pubblico è rimasto al palo. Si è invece intervenuto ampiamente sulla flessibilità lavorativa, sulla diminuzione delle garanzie per i lavoratori, sulla facilità di licenziare e imporre trasferimenti (eufemisticamente definita sécurisation de l’emploi, e in realtà mirante all’abolizione dei contratti nazionali a vantaggio di contratti locali o ad hoc), sulla riduzione (pardon, “modernizzazione”) del pubblico impiego, sull’aumento generale dell’IVA, sul finanziamento “a pioggia” alle imprese indipendentemente da quanto abbiano investito in ricerca o in crezione d’impiego. Il tutto, si badi, con la benedizione di molti sindacati (ma non del più grande, la CGT), convinti che questo “liberalismo di sinistra” sia efficace contro la disoccupazione, e non crei invece (come sta avvenendo) lavoratori precari e malpagati, calo della domanda, e via via la spirale che a noi Italiani è nota su scala più vasta (ed è nota, con le debite proporzioni, agli Spagnoli e ai Greci).

Se c’è un luogo dove queste contraddizioni precipitano, è l’officina occupata di Aulnay-sous-Bois, che Citroën e Peugeot sono determinate a chiudere nel 2014, scontrandosi con una tenace resistenza degli operai, i quali bivaccano da settimane contro ogni prospettiva di smobilitazione, di mobilità, di reimpiego forzoso in un altro stabilimento (per di più in catena di montaggio, con mansioni usuranti improponibili per gli over-45). Attorno a Aulnay, la Pomigliano d’Oltralpe, si sta coalizzando un vasto fronte di lotte contro grandi imprese che licenziano (Sanofi, Virgin, Alcatel), e si combatte una battaglia decisiva per la distruzione del sistema degli accordi nazionali collettivi tra padronato e sindacati, in nome di flessibilità e deregulation. La simpatia che questo movimento ispira in parte della società francese non esime i manifestanti da difficili difese in tribunale (in un processo per tentate lesioni si è discettato del lancio di un uovo “in linea retta” o “a campanile”), né li dissuade da azioni eclatanti come la recente invasione del comitato centrale del Partito Socialista, il quale risulta allo stato il loro avversario piuttosto che il loro alleato.

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