In questo tentativo egli doveva provare a riappropriarsi degli ispiratori neoliberali del governo laburista di Attlee. Ma doveva anche – e necessariamente – fare i conti con il Partito liberaldemocratico. In questo secondo binario della sua interlocuzione con il liberalismo, un ruolo fondamentale fu svolto da Roy Jenkins. L’ex ministro laburista ed ex presidente della Commissione europea, ma soprattutto l’ex leader del gruppo di transfughi laburisti che nel 1981 aveva guidato la scissione a destra: «il capo della banda dei quattro», come era apostrofato in quei mesi dagli ex compagni di partito. Quasi quindici anni dopo quella scissione, le passioni che l’avevano accompagnata si erano definitivamente sopite. Per il venir meno di una competizione diretta, ma anche per il ruolo svolto da Paddy Ashdown: leader liberaldemocratico dal 1988, in passato ufficiale dell’esercito e diplomatico (e secondo alcuni anche agente dei servizi segreti), che per formazione e convincimenti personali era naturalmente spinto a ricercare una collaborazione con i settori del Partito laburista maggiormente impegnati nell’innovazione della propria proposta politica. E dunque con Tony Blair, anche prima che questi giungesse alla guida del Labour. Ma prima che lo facesse Ashdown, fu proprio Blair a ricercare un’interlocuzione con lui e Jenkins negli ultimi mesi della leadership di John Smith. Scrisse in forma privata una lunga lettera all’anziano laburista-liberale per chiedergli alcuni suggerimenti di economia, alla quale Jenkins rispose con un invito a cena. Doveva nascerne una frequentazione a tre, destinata a farsi abbastanza assidua dal momento dell’elezione di Blair a leader e fino alle elezioni del 1997. Una consuetudine di incontri nella quale Jenkins svolgeva la parte del vecchio maestro, che intratteneva Blair con conversazioni di alto profilo e suggerimenti di letture (per le vacanze estive del 1996 gli prestò i discorsi di Keir Hardie e Lloyd George). Mentre Paddy Ashdown era impegnato nel saggiare la disponibilità di Blair a impegnarsi in una vera alleanza politica con i liberaldemocratici. Per i quali la condizione fondamentale era la riforma in senso proporzionale della legge elettorale. O almeno l’attenuazione di quei rigidi criteri uninominali che penalizzavano oltremodo il loro partito, così come era sempre accaduto per ogni forza terza del panorama politico britannico.
La parte svolta da Blair in questo ménage non fu semplice. Da un lato era attratto dalla prospettiva di ricomporre quella che egli in cuor suo riteneva la frattura storica tra liberali e laburisti, ricostruendo quel fronte progressista spezzato dopo la prima guerra mondiale. Così come apprezzava la forza politica di alcuni temi cari al Partito liberaldemocratico e in particolare ad Ashdown, tra cui la dura critica della passività mostrata dall’Europa – e dal governo Major – di fronte alla tragedia bosniaca. Non ultimo, pesava l’elemento di indiscutibile vantaggio tattico che un’alleanza organica tra i due partiti avrebbe portato alla causa dell’opposizione nelle prossime elezioni politiche. Per tutti questi motivi, nei colloqui con Ashdown e Jenkins, Blair si spinse sino a ipotizzare un governo di coalizione con il leader liberaldemocratico nel ruolo di ministro degli Esteri. Dall’altro lato, l’impegno a garantire la riforma proporzionale della legge elettorale costituiva per lui un limite gigantesco. Che si fece sempre più invalicabile con il passare dei mesi, mano a mano che l’avvicinarsi delle elezioni del 1997 rendeva sempre più evidente nei sondaggi il vantaggio dei laburisti sui conservatori. La formalizzazione di quell’alleanza divenne sempre meno necessaria in termini tattici.
Così come divenne sempre più difficile da giustificare, per il leader laburista, dinanzi a un partito che cominciava a credere alla possibilità di tornare (da solo) al governo del paese. E che d’altra parte non aveva del tutto dimenticato che i liberaldemocratici erano pur sempre gli eredi degli scissionisti della «banda dei quattro». I colloqui con Ashdown continuarono fino alla vigilia delle elezioni, sempre meno fattivi e senza mai approdare a un vero accordo. E il sogno di sanare «lo scisma verificatosi tra le forze progressiste britanniche all’inizio del secolo» (come lo definì Blair nel corso di una telefonata ad Ashdown la notte della sua vittoria elettorale del 1997) fu riposto nel cassetto. In attesa forse di tempi migliori.
Per quanto il dialogo con il partito di Jenkins e Ashdown non producesse frutti concreti, l’attrazione verso i valori liberali rimandava a un tratto strutturale della nuova proposta politica laburista. Quella tensione verso la valorizzazione dell’autonomia individuale all’interno della comunità che voleva rappresentare – nella visione della nuova leadership blairiana – il punto di caduta di un intero decennio di rinnovamento politico. Il senso ultimo del tentativo di ricucire lo strappo tra il filone liberale e quello laburista del progressismo britannico non era tanto nella rincorsa nostalgica a un passato ormai lontano, quanto nella convinzione che gli sforzi compiuti dal Labour dal 1983 in avanti potessero trovare il loro approdo nella confluenza tra quelle due culture politiche. E dunque in una nuova sintesi, dove trovassero il proprio posto la visione del nuovo welfare disegnato da Gordon Brown come «trampolino di lancio» accanto al bisogno di una nuova politica contro il crimine; la centralità delle politiche educative come principale strumento di inclusione sociale, accanto all’obiettivo di restituire alla politica la sovranità e la capacità di mobilitazione perdute da anni.
Era una nuova mappa dei valori e delle cose da fare quella che la leadership laburista definì tra il 1994 e le elezioni del 1997. Una nuova geografia disegnata lungo le coordinate di una comunità da ritrovare, di un individuo da responsabilizzare e di una politica da rendere più forte dell’antipolitica. Questo aggregato instabile di valori e coordinate veniva tenuto insieme dal concetto di «modernizzazione», che Blair si incaricò di utilizzare nelle sue varie forme con una frequenza quasi ossessiva (uno studio del linguista Norman Fairclough su 53 discorsi del leader laburista tra il 1994 e il 1999 ha trovato 89 ricorrenze di «modern» e altre 87 di «modernise» o «modernisation»). Ma si trattava, per l’appunto, di un artificio retorico. Estremamente funzionale, perché rimandava a una «modernità» che il corpo del Labour aveva sentito sempre come cosa propria e perché intendeva schiacciare nell’angolo i conservatori di ciò che moderno non era. Ma anche abbastanza capiente e indeterminato da poter contenere una grande massa di rappresentazioni simboliche e soluzioni politiche. Tutte certamente moderne. Ma tutte, altrettanto certamente, ricavate dalla nuova leadership laburista da quanto era andato maturando all’interno del partito nel corso del passato decennio.
A quella nuova sintesi Blair aggiunse anche del suo. Con un’immagine personale orientata a massimizzare i tratti di novità e freschezza che già da alcuni anni gli avevano guadagnato l’attenzione della stampa, così come a testimoniare la propria convinzione in quei valori su cui aveva spinto il partito a schierarsi. Con una retorica pubblica che per chiarezza e forza dialettica mostrava di avere largamente beneficiato dalla sua passata esperienza di avvocato. E soprattutto con un accento tutto personale sui temi grandi e scivolosi dell’etica e della morale. Che non si faceva alcuna remora a toccare i tasti del «bene» e del «male», così come d’altra parte aveva mostrato di voler fare già da ministro ombra degli Interni quando si era trovato alle prese con l’assassinio del piccolo James Bulger. Al contrario, invece di indurlo a muoversi con più cautela su questo terreno, il nuovo ruolo di leader ne liberò ulteriormente la spinta ad argomentare le proprie convinzioni sui temi morali. Quasi a voler rivendicare fino in fondo la sua funzione di portabandiera di un nuovo blocco di valori di base, sui quali poter poggiare l’inedito profilo del Partito laburista. Senza temere di apparire posseduto da una passione morale (o invasato dal moralismo, secondo alcuni dei suoi critici). Ma, al contrario, consapevole di muoversi sul terreno minato dei grandi interrogativi, per testimoniare quell’impasto di certezze laiche e convinzioni non negoziabili che costituiva la sostanza del suo particolare «Beruf» politico.
Poteva anche apparire spiritato il Blair che nel 1995 dichiarava che «l’unica via per ricostruire l’ordine sociale è attraverso i valori forti, trasmessi attraverso la famiglia e gli individui». Ma era un leader che sapeva di rivolgersi alla sinistra, chiamata a «prendere sul serio i temi dell’etica» perché «solo i forti e i potenti sono in grado di difendersi da soli; quelli che hanno più da perdere dall’assenza di regole sono le persone deboli e vulnerabili; e le prime vittime del crollo della comunità sociale sono coloro che hanno meno». Così come sapeva di rivolgersi, al di là della sinistra, a un paese che aveva conosciuto la forza morale del thatcherismo. Venendo conquistato anche dall’energia delle affermazioni apodittiche della sua guida politica. E che negli ultimi anni – gli stessi dell’ascesa di Blair – aveva assistito al declino di un Partito conservatore guidato da un leader che non aveva mai saputo eguagliare il carisma di Margaret Thatcher. L’argomentazione di Blair voleva misurarsi idealmente con quel carisma, saltando John Major e la sua debolezza per andare a incrociare le armi direttamente con la figura che aveva plasmato lo spirito pubblico per più di un decennio. Perché la crisi del thatcherismo aveva lasciato un vuoto nel cuore morale della Gran Bretagna. Quel vuoto che Blair intendeva riempire con un’etica di segno opposto ma di eguale forza argomentativa. E laddove la Thatcher aveva decretato la morte della società, Blair annunciava al paese che «quella cosa chiamata società» rappresentava l’unica via d’uscita alla crisi della nazione. E che doveva essere rianimata anche attraverso una robusta iniezione di valori morali e comunitari.